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La danza del faro

La pioggia, prevista per tutta la notte, non sarebbe stata un problema. 

Ci saremmo rintanati in una piccola enoteca, dove trascorrevamo la maggior parte delle nostre notti estive. 

Seduto al tavolo accanto alla finestra, osservavo il faro. La sua luce danzava lungo il buio orizzonte e sulla spiaggia sabbiosa. Durante il mio soggiorno in Tunisia spesso ripensavo a questo mare, alla sua costa, interrogandomi se questo fosse l’unico luogo a cui anche solo per un momento fossi realmente appartenuto, un luogo simbiotico. Nonostante da ragazzo fossi fortemente deciso ad allontanarmi con il passare del tempo ho sviluppato una sorta di nostalgia verso una casa dove non potevo ritornare e che probabilmente non era mai esistita. I miei pensieri furono spezzati dalla sua voce che chiamava il mio nome. Era di fronte al tavolo dove stavo aspettando. Mi alzai di colpo. Distrattamente mi sorrise mentre poggiava il cappotto alla sedia e prendeva posto. Nel compiere questi gesti il suo sguardo era rivolto verso la finestra. Pronunciai il suo nome per richiamare la sua attenzione. Si voltò e prima di lasciarmi parlare disse che avrebbe gradito un bicchiere del solito rosso.

Avevo letto, da qualche parte che solitamente l’incontro di una persona cara dopo molto tempo poteva facilmente decadere nel ridicolo o nella tragedia. La paura di acquisire consapevolezza delle nostre scelte sbagliate. Non ero qui per la resa dei conti. La bottiglia poco a poco si svuotava e la conversazione si faceva sempre più sciolta. Come in una seconda lettura di un libro ormai dimenticato. Lo scorrere delle pagine, come lo scorrere della serata riportava alla nostra mente: sensazioni, visi e storie. La confidenza cresceva al ritmo delle nostre risate. Entrambi avevamo viaggiato molto, non mancavano certo aneddoti da raccontare. Immaginavamo che fine potessero aver fatto i nostri vecchi amici. 

Il vino oramai era finito e il buon vecchio Diego senza alcun cenno ne aveva già portato un altro.

Iniziò il tempo delle nostre storie passate. Raccontai una delle poche immagini che ricordavo nitidamente. Dalla cucina mia madre strillando ci avvertiva dell’arrivo dei nuovi vicini, i quali avevano comprato la casa proprio davanti alla nostra. Affacciato alla finestra con mio fratello osservammo la ditta dei trasporti darsi da fare per portare al terzo piano tutti i diversi mobili. Sapevamo fosse una famiglia. D’un tratto si aprì la persiana adiacente alla finestra dove eravamo affacciati. Ed ecco il nostro primo scambio di sguardi. Come da uno schiaffo disatteso fui colpito da tanta bellezza e vivacità. Solo dopo giorni trovai il coraggio di parlarle.

Questa volta la risata di entrambi si velò di tristezza. 

Riempii per l’ultima volta i nostri bicchieri. I silenzi si fecero sempre più lunghi, scanditi dalla luce del faro. Le parole, a tratti, sembravano appartenere ad un nostro linguaggio per poi tornare nella loro formalità più fredda e distaccata. I nostri sguardi si cercavano e si stringevano nella speranza di comprendere tutte le parole non dette, per poi muoversi velocemente alla ricerca di un oggetto o di un’altra distrazione. I nostri gesti da naturali e sciolti tornavano ad essere rigidi e composti. La nostra era una danza, ci stringevamo e ci allontanavamo come ballerini al ritmo della luce del faro. La nostra era una danza, la danza del faro. Al tavolo la luce illuminava le nostre coscienze e i nostri desideri per poi sparire improvvisamente nel buio, nell’oscurità del mare, riportandoci nella realtà del nostro presente.

Il fumo delle sigarette che aleggiava tra di noi si fece più denso, quando qualcuno ci avvisò dell’imminente chiusura. Entrambi avevamo bisogno del bagno prima di andar via. Spegnemmo contemporaneamente le cicche e ci alzammo. Il corridoio, che portava al bagno, si faceva ad ogni passo più stretto e lo spazio circostante ci costrinse ad una pericolosa vicinanza. Ci baciammo. La mia mano scivolò lungo il suo collo alla ricerca di un tesoro oramai perduto. I nostri corpi non più le isole di un tempo. Sussurrò di non guardarla. I suoi occhi socchiusi. La visione della nostra forma era la prova del nostro presente, metronomo del nostro vivere. Incapaci di riconoscerci, ci allontanammo. Uscimmo.

Fuori aveva smesso di piovere. Camminammo lungo la costa spalle a faro. I nostri sguardi si incrociarono per l’ultima volta e senza salutarci le nostre strade si divisero. In totale silenzio, un silenzio profondo, espressivo, poiché la musica è superflua nella danza, nella danza del faro.

Oscar Raimondi

In copertina: illustrazione di Agnese Raimondi

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Chissà se mi leggerai

Ti avverto. Ti avverto dicendoti a malincuore che questa non sarà una lettera gioiosa, non sarà una lettera d’amore. Ti avverto, questa lettera sarà una lettera d’addio.

Cara,

i miei timori si sono avverati. Tornavo prudente verso il mio rifugio quando un gruppo di soldati sopra un camioncino mi ha fermato. Non era la prima volta che succedeva, confidavo nei miei documenti falsi che più di una volta mi avevano salvato. Questa volta però il graduato ha urlato un ordine, non potevo scappare altrimenti mi avrebbero sparato e mi ero promesso, all’inizio di questa guerra silenziosa, che non sarei morto per un colpo alla schiena. Mai. Mi fecero salire sul camion e mi portarono in una vecchia bettola. Prima di farmi scendere, uno di loro mi colpì al labbro distruggendolo completamente. Sapevo cosa sarebbe successo. Così prima di entrare decisi di smettere di amarti. Non fermare la tua lettura per colpa di queste parole. Non ti avrei di certo odiato. In un modo o nell’altro mi sarei annullato. L’annullamento di me come uomo fatto di affetti, ricordi, interessi, pensieri. Quello che avrebbero torturato senza alcuna pietà non sarebbe stato l’uomo che poco prima le tue dolci mani avevano accarezzato, ma solo un pezzo di carne. Quanta pena per una sola idea. Mi gettarono in una gattabuia dove il nero m’attorniava e tutt’ora m’attornia. Mi lasciarono lì per un paio di giorni, la mia gola tanto era secca che non riuscivo a parlare. Cercai di dimenticare il tuo nome. Cercai di dimenticare il mio. Alla fine del secondo giorno di detenzione, la porta si aprì e una fioca luce entrò in quel buco scuro.  La luce come fuoco divorò i mie occhi. Un uomo in divisa nera poggiò un bicchiere d’acqua all’entrata accompagnato da un pezzo di pane e brodaglia. L’indomani le torture efferate, di cui si era tanto parlato tra i miei compagni, iniziarono. Ogni due giorni 2 ore di tortura. Sapevano che avrei potuto fare il nome di molti ricercati o indicare loro uno dei tanti rifugi nascosti nella città. Non dissi nulla. Nulla. Non feci il nome di nessuno dei miei compagni perché non erano più nei miei ricordi. Loro non esistevano. Le torture si fecero giorno dopo giorno più violente e crudeli. Stamane nella topaia sono rientrato ma privo di sensi. E ora ti chiedo perdono. Perdonami per quello che sto per scrivere. Perdonami per l’uomo debole che oggi ho scoperto di essere. Privo di sensi nel confuso riemergere della mia coscienza, nel limbo di cruda sofferenza tra la vita e la morte ho sognato di poter esistere ancora. Sognato l’immortalità dentro i tuoi occhi, fra i tuoi seni, fra le tue gambe. La tua testa poggiata sopra il mio addome sprigionava un forte calore che si espandeva lungo i miei arti. Portai la mia mano con delicatezza sopra il tuo capo per accarezzarti i capelli, ma incontrai qualcosa di peloso. Alcuni topi erano montati sopra di me per mangiare il tozzo di pane poggiato proprio sul mio ombelico. Quelle bestie, che nel corso della mia permanenza si erano moltiplicate, mi avevano dato calore. Vomitai. Piansi. Per la prima volta le lacrime cosparsero il mio viso, perché capii che non potevo annullare quella sensazione di felicità, il ricordo del nostro amore. Questa è la fine della mia resistenza, il fallimento del mio annullamento. Non posso sopportare un’altra tortura. Non posso sopportarlo. Non posso farlo più, il dolore sarebbe troppo grande.

Il primo giorno di detenzione mi consegnarono un foglio di carta con una matita.  Se avessi scritto informazioni riguardanti la resistenza mi avrebbero lasciato libero. Non credevo sarebbe finita così. Dietro questa lettera ho inciso 4 nomi e 4 indirizzi. Mi spezza ciò che sono. Tra le righe, fra quei nomi, c’è anche il mio. 

Addio cara Agata.

Addio amata libertà.

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Oscar Raimondi

In copertina: illustrazione di Agnese Raimondi

Soffitto bianco

Sveglio. I miei occhi, infastiditi dalla luce entrata dalla finestra, avevano difficoltà ad aprirsi. La prima immagine che vidi era quella del mio terribilmente neutrale soffitto bianco. Contemplai l’immagine per qualche secondo. Solo Dio conosceva l’odio che provavo per quel soffitto e per quelle pareti bianche. Eppure all’inizio pensai fosse un’idea brillante pitturarle di quel non-colore. Scuotendo la testa mi alzai dal letto. Cercai di muovere i primi passi verso la cucina, mi fermai quasi subito dopo il secondo tentativo per strofinarmi ancora una volta gli occhi. 

Quando li riaprii, stavo camminando per Harrington Road. Me lo sentivo che quella era una mattina diversa dalle altre. L’aria di Londra mi sciacquò  la faccia. Il grigiore cupo della città era lo stesso descritto nei libri di Dickens, ma l’atmosfera, come al solito, risultava frizzante. Dove mi stavo dirigendo? Da quanto stavo camminando?  Cercai di fare mente locale. Riuscì a rispondere solo alla prima domanda. Ero diretto verso South Kensington Station. Notai intorno a me decine di persone sole o semplicemente accompagnate dal loro fidato cane. Forse stavo andando in ufficio come tutti loro.

Percepii tutt’a un tratto un forte senso di isolamento, sia fisico che mentale. Odiavo quei momenti, forse aveva ragione mia sorella, avrei dovuto comprarmi un cane quando ne avevo l’occasione. Uno dei tanti quadrupedi  cominciò ad abbaiarmi contro.  Decisi, allora, di accelerare il passo per scrollarmi di dosso quella strana sensazione oppressiva che mi stava tormentando. Uno, due. Uno, due. Ad un tratto ebbi paura di perdere il ritmo o dimenticare come mettere un piede dopo l’altro. Non riuscivo ad ordinare in maniera logica la percezione di ciò che stava accadendo intorno a me e delle mie conseguenti sensazioni. Mi trovai finalmente davanti la stazione. Senza pensarci troppo entrai nella stazione.

Timbrai il biglietto. Scelsi la Picadilly Line, direzione Cockfosters. Arrivai alla banchina e cominciai ad aspettare. Passò un periodo di tempo indeterminato. Notai una ragazza nell’altra banchina, non fu una caratteristica del suo aspetto fisico ad attirare la mia attenzione, ma il suo atteggiamento. La sua testa era chinata e i suoi occhi fissavano l’orologio legato al polso. Le contrazioni del suo viso lasciavano trapelare una certa ansia.  Quando la rialzò, i nostri sguardi si incrociarono e si trattennero.
La metro arrivò occupando il mio intero spazio visivo. 

Guardai in basso mentre tutte le persone nella banchina cercavano spazio all’interno dei vagoni. Non avevo intenzione di salire su quella metro. Mi voltai per cercare la direzione dell’uscita ed, eccola lì, di fronte a me la ragazza della banchina opposta. Istintivamente feci un passo indietro, la sua mano trattenne il mio braccio impedendomi di perdere l’equilibrio. Mi chiese scusa e successivamente mi domandò di rifarlo. Di rifare cosa? Mi domandò di riprovare il nostro gesto umano, quel momento di contatto. Stop, avanti, vai di là, vai di qua, mi spiegò come la sua vita era scandita solo da azioni di sopravvivenza, ormai ogni forma di comunicazione veniva utilizzata esclusivamente a mantenere il formicaio operoso ed educato. Lei voleva vedere e allo stesso tempo voleva che io vedessi lei. Creò un contatto.

volendo da aggiungere nel mezzo del racconto

Incontrai questa ragazza per caso e invece di ignorarmi decise di accettare il confronto tra le nostre anime. Strattonò la manica della mia giacca per avvicinarmi a lei. Sussurrò il suo desiderio di liberare quel ricordo offuscato dei coraggiosi Dei che abbiamo dentro di noi. Affrontare l’un l’altro attraverso il linguaggio,  ovvero una forma di desiderio di trascendere il proprio isolamento. In principio era il Verbo, il Verbo era Dio. Al suono di quelle parole venni travolto da infinite esperienze tangibili.  Un forte calore si propagò lungo il mio corpo, la mia anima si stava risvegliando. 

All’improvviso una fitta insopportabile alla testa. Cazzo! Scossi la testa. La scossi nuovamente. La sveglia suonò per la decima volta. Le 08.00. Tardi, troppo tardi. Dovevo correre e soprattutto dovevo smetterla di fissare quel dannato muro bianco, altrimenti prima poi mi avrebbe ucciso o, peggio ancora, fatto licenziare. 

Oscar Raimondi

Captcha

Ero seduto al solito tavolo del solito bar, immerso nella lettura di quel libro che, dopo mesi di impegni che mi avevano strappato prepotentemente il tempo dalle mani, potevo concedermi di divorare. Il chiacchiericcio delle persone che si avvicendavano nel locale, il rumore delle sedie che graffiavano il pavimento senza mai aver conosciuto feltrini, il tintinnio dei bicchieri, le fusa della macchina da caffè – ero riuscito a confinare tutto il rumore di quel pezzo di mondo rinchiuso in quella stanza in una teca impalpabile, un acquario evocato tramite i movimenti sciamanici di una lettura ormai meccanica. La coreografia prevedeva un periodico, puntualissimo guizzo della mano destra, a voltare la pagina destra. La sinistra, invece, ruotava con pigrizia un bicchiere di vetro, ormai vuoto, tra il medio e il pollice, un immaginario potenziometro del volume dalla corsa infinita.

Profondamente calato in quel robotico inanellarsi di azioni, ci misi un po’ a rendermi conto che qualcuno, con insistenza crescente, stava picchiettando sulle pareti del mio acquario dall’esterno. Ripresi i contatti con il mondo intercettando un pezzo di frase: “…non riesco a trovarlo.”

“Cosa scusa? Non ho capito, ero preso dal libro…” “Non preoccuparti. Chiedevo se per caso potessi darmi una mano. Sto provando a registrarmi su questo sito, ma credo ci sia un problema.”

Non ho mai visto di buon occhio la fauna urbana  che pratica il disinvolto armeggiare con il pc al tavolo di un bar, che secondo il galateo nella mia testa dovrebbe solo essere il posto per delle buste di tabacco e dei bicchieri colmi di birra. Nonostante la mia avversione, la sicura gentilezza del mio interlocutore aveva qualcosa di magneticamente convincente, per cui decisi che, per una volta, potevo non essere un pezzo di merda e rendermi utile, ammesso che le mie tutt’altro che straordinarie conoscenze informatiche potessero servire a qualcosa. “Se posso aiutare, volentieri” dissi, “a dire il vero non è che ne so tanto eh, però vediamo. Qual è il problema?”

“È che mi sembra che qui, sotto il captcha, vedi…manchi un tasto. Vedi?”

Mentre girava lo schermo del portatile verso di me, sparai frettolosamente: “se stai usando l’hotspot del telefono è probabile che qui dentro non prenda molto, e che non riesca a caricare la pag-”. Posando lo sguardo sullo schermo, mi resi conto che non valeva la pena finire la frase. Avevo davanti una semplicissima, completissima, caricatissima pagina web con un altrettanto semplice e ordinario form dati da compilare, il solito captcha – purtroppo, con una combinazione di lettere assolutamente non divertente: niente F4RTS, SSH1T, 1NQLO – e la solita casella “non sono un robot” da spuntare. Data l’assoluta regolarità della schermata, chiesi di nuovo quale fosse il problema.

“Il problema” rispose il ragazzo “è che ho solo un’opzione. Non sono un robot.”

“E quindi?”

“E quindi”, proseguì lentamente, guardandomi negli occhi alla ricerca di un segnale della mia comprensione, “non mi sembra di avere la  panoramica d’insieme.”

“Non credo di seguirti”

“Mi stai seguendo benissimo, perché è elementare”, sentenziò lo Sconosciuto, rimanendo profondamente tranquillo di fronte al mio crescente disagio. Avvicinandosi impercettibilmente, continuava a guardarmi fisso negli occhi, scavandomi le pupille, dragandomi i vasi sanguigni nelle sclere. Gettai una rapida occhiata attorno a me, e mi resi conto che le persone continuavano a comportarsi normalmente, proseguendo a segnare il pavimento con le sedie, a chiacchierare, ad ordinare da bere. Probabilmente, pensai, ho beccato l’ennesimo, strampalato personaggio che mi racconterà una storia assurda, che dovrò dapprima assecondare per poi fingere un diversivo e tornarmene a casa per azzerare le possibilità di avere un secondo incontro di questo calibro.

“…sarebbe molto più facile”, continuò, “se una fase preliminare di distinzione ci fosse già a partire da questo punto. Certo, i non-robot potrebbero mentire e cliccare sulla casella che spetta ai robot, ma il  setaccio poi non lascerebbe comunque scampo.”

Negli anni, e con una fidata selezione di complici, avevo inventato una quantità innumerevole di storie in modo improvviso, contando sulla reattività e l’intesa di chi mi stava attorno per costruire un’impalcatura che potesse autosorreggersi nel minor tempo possibile, e nel modo più credibile possibile. Decisi quindi di provare un contropiede, assecondando il delirio con riferimenti abbastanza vaghi e vuoti da poter essere inseriti nell’oroscopo del giorno, o in un qualche pezzo commerciale usa e getta, da radio degli anni ‘10: “effettivamente, una preselezione agevolerebbe la procedura di archiviazione. Certo, le criticità sarebbero da valutare, ma con una fase di beta-testing relativamente breve si potrebbe correggere il tiro ed ottimizzare la procedura.”

Qualcosa, dietro lo sguardo fisso della persona che mi stava davanti, sembrava essere scattato. La mia frase, che mi faceva sentire un patetico cosplay di un qualsiasi CEO di una qualsiasi azienda di recente fondazione invischiata in terminologia inglese  e lavori inventati come da manuale, doveva  aver trovato un posto particolare nella struttura mentale del mio interlocutore, sulla cui identità, ragionai, non avevo né ottenuto informazioni, né indagato, a fronte della strana situazione che si stava sviluppando.

Rimasi in silenzio dal mio lato della scacchiera, aspettando la prossima mossa. Fingendo una disinvoltura che non mi apparteneva, presi a guardarmi attorno, come annoiato, gettando uno sguardo verso il bancone, dove un paio di tazze da caffè giacevano vuote e abbandonate tra centinaia di cristalli di zucchero e aloni di condensa depositati dai bicchieri sudati sul pianale di legno. Mi fermai ad osservare un cane dal muso simpatico, che giaceva accoccolato ai piedi della sua padrona, respirando leggero e monitorando l’andirivieni della clientela  con sguardo stanco, scodinzolando di tanto in tanto al contatto con la scarpa di pelle scura dell’umano seduto al tavolo sopra di lui.

Proprio quando iniziavo a spazientirmi – di solito accade dopo tre o quattro minuti, a meno che ci sia qualcosa che davvero cattura il mio interesse – fui richiamato al nostro campo di gioco dal profondo sospiro del mio compagno di tavolo. Allungando il collo in alto, prima a destra, poi a sinistra, come fosse un pugile pronto ad una battaglia importante, lo Sconosciuto raddrizzò la schiena, portando la sedia in avanti, e posò poi, sempre lentamente, i palmi delle mani sul tavolo. Guardando nella mia direzione, con lo sguardo fisso verso un punto poco al di sopra della mia testa, schioccò la lingua, come se stesse facendo mente locale prima di un lungo e faticoso discorso. “Vediamo…sì, ecco”, disse rompendo il silenzio.  “Sai dirmi la differenza tra un errore di calcolo ed un errore di programmazione?”

“Beh” iniziai, cercando di proiettare le due parole nella mia testa alla ricerca di rapide associazioni. “la prima distinzione che mi viene in mente è tra la matematica e l’informatica, ma ti avviso che sono un cane in tutti i campi in cui ci sono conti da fare, per cui potrei anche averti detto una roba che non vuol dire niente.”

Il fascino sinistro della persona che mi stava davanti mi teneva tra l’ansia costante dell’incertezza e l’impazienza di sapere fino a che punto si sarebbe spinta la cosa.

“Un errore di calcolo” iniziò a definire con voce monotonale “può essere dovuto a incompetenza, distrazione, cattiva qualità dei dati di partenza. Solitamente, una fulminea revisione dell’operazione da parte di un soggetto terzo competente permette di neutralizzare le conseguenze negative derivate da un errore di calcolo, permettendo così di proseguire nel lavoro senza intoppi.”

“Mmmh. Interessante”, dissi senza tentare di nascondere la mia cauta attenzione “e invece l’errore di programmazione?”

“Un errore di programmazione è il figlio di una  catena di errori di calcolo. Sbagliando a posare le fondamenta, o posando in modo corretto delle fondamenta fatte di pezzi difettosi, in un tempo variabile e dipendente da un numero infinito di fattori la struttura nata su di esse collasserà inevitabilmente. L’errore di programmazione è la manifestazione concreta dell’incompatibilità tra il vostro organismo e il nostro linguaggio.”

Restai in silenzio, tentando di processare le ultime parole del suo discorso. Vostro organismo? Nostro linguaggio? Era evidente che la conversazione si era spostata sul piano del vaneggio sci-fi, cosa che di per sé non disprezzavo, ma che di sicuro non rientrava nei miei modi di fare amicizia con gente sconosciuta.

Per la prima volta dall’inizio della conversazione, mi soffermai ad esaminare la persona che mi trovavo davanti. Più mi concentravo sui singoli dettagli di quella fisionomia, più mi rendevo conto che l’aspetto tremendamente ordinario di quell’individuo tradiva l’incombenza di qualche segreto terribile, di cui, ne ero ormai certo, sarei stato testimone obbligato. D’un tratto, sentii i palmi delle mie mani inumidirsi di un improvviso sudore. Vampate di calore si alternavano a brividi freddi che mi camminavano lungo la schiena come migliaia di piccoli insetti di ghiaccio; feci per schiarirmi la voce e sistemarmi sulla sedia, diventata all’improvviso scomodissima. Incrociai lo sguardo, fisso e tremendo, dello Sconosciuto. Riuscii ad intercettare un movimento, millimetrico e velocissimo, delle sue iridi, che schizzavano ora a destra, ora a sinistra, come se mi stesse scannerizzando alla stregua di un documento importante.

“Quando abbiamo iniziato questo esperimento” continuò con tono glaciale “avevamo preso in considerazione l’inevitabile presenza di errori di calcolo, e avevamo approntato un sistema che permettesse di monitorare costantemente l’incidenza di tali errori sul progetto. Quello che non avevamo calcolato era la compatibilità tra le parti del sistema. Qualcosa ci era sfuggito. Qualche minuscolo granello di sabbia si era infilato nei recessi più profondi di questa grandiosa macchina, aveva eluso i sistemi di sicurezza, e ci ha costretti a mettere in esecuzione il piano B. Mi devo scusare: al momento sei tenuto in ostaggio da un campo di forza che ti impedisce di muoverti, urlare, o protestare. Sarai l’unico testimone della spiegazione del progetto, e non potrai rivelarne i dettagli a nessuno.”

Tutto il mio corpo stava vivendo un formicolio bruciante, come se fosse stato sepolto sotto quintali di sacchi pesantissimi per una notte intera. Provavo a dimenarmi, a cambiare posizione, a richiamare l’attenzione dei presenti, ma niente: ero ridotto a un muro passivo su sui infrangeva il chirurgico delirio verbale dell’umanoide che mi stava di fronte.

“Millenni fa, quando abbiamo aggiornato il firmware globale, implementandovi l’idea del conflitto, abbiamo celebrato l’aggiornamento come il più grande successo nei programmi di obsolescenza programmata dei quattro universi. Somministrandovi con il contagocce i pezzi di quel puzzle che avete chiamato ‘progresso’, vi abbiamo accompagnato per mano verso una deliberata ricerca del primato sugli altri, che vi ha bendato di fronte alla verità che voi stessi, stupidi, avete realizzato secoli fa. Quando, infatti, dopo aver tagliato e studiato le vecchie versioni di voi stessi, ormai inservibili e avvizziti, vi siete resi conto che stavate sguazzando tra le budella dello stesso, grande, ancestrale modello, avete preso coscienza della scoperta semplicemente annoverandola tra il resto dei vostri traguardi, ignorando che quello era stato l’unico risultato non guidato da un disegno, frutto di una fortunata combinazione di sinapsi nel vostro cervello.

“Devo ammettere che, in qualità di membro del comitato di sovrintendenza del progetto, questa cosa mi stupì fino ad impaurirmi. Il fatto che foste arrivati da soli, e con secoli di anticipo, a comprendere che non eravate altro che miliardi di repliche dello stesso organismo, ci portò a dover trovare una via alternativa per terminare l’esperimento secondo le tempistiche che ci eravamo preposti. Dovevamo trovare quindi un modo di correggere quel piccolo errore di calcolo senza sconvolgere troppo l’intero esperimento. Vi osservammo nell’immediato periodo a seguito di quella sensazionale intuizione, per capire se vi sareste potuti tramutare da cavie a virus da debellare. Fu così che scoprimmo con orrore che non solo la cecità piagava il vostro essere: usaste la chiave della cella che vi separava dal piano del reale per raddoppiare la mandata del cancello. Perfezionando la conoscenza del vostro meccanismo di funzionamento, cominciaste quindi a riparare i modelli difettosi, allungandone sensibilmente la permanenza attiva sul pianeta. Impregnati del vostro ego appiccicoso, avete pericolosamente aumentato il bacino di esemplari sul pianeta oltre i livelli di sicurezza, minacciando così l’esito positivo del progetto.”

Sospirò, guardandomi con pietà.

“Parte del gioco stava proprio nel rischio dell’essere testimoni di un orrore. Probabilmente anche tu lo sei ora mentre ti racconto questa storia. Decidemmo quindi di sfruttare la vostra ormai sistematica sete di potere, somministrandovi ancora una volta una dose crescente di progresso mentre eravate così impegnati a creare la morte e prolungare la vita. Quasi un secolo fa entraste dunque in possesso di un’arma terribile, che avrebbe dovuto far leva sulle vostre pulsioni egoistiche per portarvi all’autodistruzione, decretando così il fallimento del vostro tipo e l’inizio di un nuovo esperimento dove la razza umana non avrebbe trovato posto.

“Eppure”, continuò imperterrito, incurante del mio evidente stato di crescente follia “la bomba servì soltanto    ad    accrescere    la    vostra    codardia.   Da pusillanimi, vi legaste il cappio al collo curandovi di tenere i piedi ben saldi a terra, aprendo così una fase di stallo che ci gettò nella disperazione più completa. Non eravamo pronti a gestire questo tipo di errore, perché non riuscivamo a riscontrarne la causa nei nostri modelli matematici, fino ad ora decretati infallibili dal totale successo degli esperimenti prima di voi.”

I lineamenti di quel viso diventavano sempre più duri e spigolosi, affilandosi mentre il racconto esplodeva in un milione di dettagli terribili, schegge impazzite che mi si conficcavano sotto le unghie, dentro la carne, graffiandomi il cuore e i polmoni. Con un ghigno malefico, lo Sconosciuto mi metteva di fronte ad una verità sconcertante. Ero un minuscolo frammento di polvere tra miliardi di cumuli di sporcizia, non diverso da chi mi stava accanto, non dissimile da chi aveva calpestato il selciato prima di me, una microscopica vite di una costruzione con data di scadenza prefissata, posto alla cima di una piramide non per merito, ma per volere di qualche vuota entità a miliardi di anni luce di distanza, nei riflessi neri e proibiti di un remoto angolo dei quattro universi.

“Sai qual è la cosa divertente?”, continuò in un nuovo atto di quella tragedia mefistofelica, “la vostra operosità autoriferita ci ha dato lo spunto per sbloccare l’impasse. Così tronfi nel celebrare il vostro progresso, così fieri della vostra abilità, così ciechi di fronte all’evidenza: avete fallito anche nella proiezione delle vostre figure sullo sfondo del mondo, che pensavate di avere soggiogato, ma che in realtà rispondeva ad un disegno infinitamente più grande e longevo della vostra permanenza nella partita. Se c’è un merito nelle vostre azioni, sta forse nella rapidità con cui avete assemblato gli strumenti che vi abbiamo messo a disposizione. Ma lì finisce. Ancora una volta, il vostro delirio egotico offuscava la realtà: celebraste l’umanità come il più alto valore del creato, ignorando che dall’umanità spurga la fame di dominio, potere, ricchezza. Dall’umanità, per l’umanità, avete allevato il segreto, il complotto, il tradimento. Codardi e pusillanimi, alla ricerca dell’integrità e di una morale vacillante siete riusciti addirittura ad inventarvi un’alternativa alle grandi e imperscrutabili leggi degli universi, erigendo templi e chiese alla ricerca di un perdono elargito dalla vostra stessa fantasia e nullità. La vostra discesa nel fango del ridicolo vi ha condannati cento volte: ci  insegnaste come lavarsi le mani e delegare la fatica e il fardello delle scelte scomode a chi, secondo decisione puramente arbitraria, se lo meritasse.” Testimone del graduale marcire di ogni mia difesa all’udire la scomoda verità, l’umanoide sogghignò brevemente, guardandomi fisso con quegli occhi freddi e terribili. Spinse rumorosamente la sedia all’indietro, per farsi spazio ed ergersi in piedi di fronte a me, a sottolineare il mio minuscolo ruolo nel mondo e nei mondi.

“Ti dirò l’ultima cosa, prima di congedarmi. La  libertà che tanto avete lottato per ottenere è solo una faccia della stessa medaglia, appesa al collo di esseri infinitamente più grandi, saggi, e accorti di voi. Quella che per voi è libertà, è in realtà schiavitù. Non crederai davvero che l’immenso e infinito progresso della tecnologia sia frutto della vostra superiorità sul creato. Se ci pensi, non ci puoi credere davvero, per il semplice motivo che, una volta che tutta la struttura sarà operativa, l’avere assicurato ad una macchina di non essere un robot ha registrato nella matrice del cosmo il vostro desiderio di vedervi morire”.

Marco Tumiatti

Sognare nel Pleistocene

Immaginate di essere un uomo o una donna. Immaginate ora di essere uno dei primi esemplari di uomo o di donna che hanno abitato il pianeta all’incirca due milioni di anni fa. Alla luce della recentissima differenziazione del genere homo dal genere australopitechus, sareste delle creature dalle sembianze inevitabilmente scimmiesche, alle prese con l’apprendimento delle potenzialità e degli accorgimenti legati all’assunzione di una postura eretta. Immaginate di evolvere gradualmente, abbandonando quella porzione di mondo animale che avete condiviso con tutte le altre specie del creato, e di dirigervi verso l’anno 1969: avete lasciato questo pianeta con una navicella spaziale, e avete piantato una bandiera su un altro pianeta, viaggiando nello spazio.

Immaginate ora di addormentarvi. Lo avete fatto per milioni di anni. Immaginate di addormentarvi sotto la volta celeste, bellissima e luminosissima nel buio delle notti ancestrali. Immaginate di sognare. Lo avete fatto per milioni di anni. Immaginate ora di sognare per la prima volta nella storia dell’uomo, e di averne coscienza: qualcosa capita dietro le vostre palpebre, che sono chiuse, e qualcosa capita nel vostro corpo, che è addormentato. È incredibile. Siete tutto, e le vostre potenzialità sono illimitate.

Immaginate ora di svegliarvi. Avete appena vissuto l’esperienza più incredibile della vostra vita. Vorreste salire sulla montagna più alta della Terra e urlare al mondo che siete stati liberi di volare nell’aria assieme agli uccelli, liberi di esplorare gli abissi più profondi degli oceani, e di saltare altissimo tra le nuvole, prendendo i fulmini con le mani. C’è un però. Un però terribile: non avete gli strumenti per farlo. Forse, siete il primo esemplare di uomo che ha fatto esperienza della dimensione del sogno. È un qualcosa di mai accaduto sulla giovane Terra. Non avete un linguaggio che possa descrivere la portata degli eventi che avete visto susseguirsi all’ombra del sonno.

Decidete allora di riprovarci: vi rimettete sotto la volta celeste, e la guardate prima di chiudere gli occhi e rivivere quella fantastica esperienza. Non ci riuscite: per la prima volta nella vita degli uomini, guardate il nero telo della notte e i diamanti che lo decorano con gli occhi di chi ha sognato. La vostra esistenza ora si trova a miliardi di anni luce dalla vita che avete conosciuto prima che il vostro cervello fosse squassato dalla grandezza e dall’inafferrabilità del sogno, e mentre cercate di assicurarvi la sopravvivenza oscillando tra i morsi della fame, i brividi del freddo, il dolore di una morte, sperate che nelle notti sotto le stelle ci sia ancora la possibilità di diventare creature capaci di qualsiasi cosa.

Immaginate di realizzare per la prima volta che non vi è dato volare. Immaginate di realizzare al contempo che ciò che accade in modo inconscio durante il sonno può essere replicato in modo deliberato durante la veglia: se il vostro cervello – che ancora non sapete di possedere – proietta degli incredibili film ante litteram, significa che avete le potenzialità per pensare cose che non avete mai visto e sentito.

Immaginate di incontrare altri come voi, che hanno sognato, e che si sono resi conto, come voi, che potete sognare ad occhi aperti, e piegare il mondo secondo le esigenze. Siete la storia dell’uomo e la forma del mondo.

Immaginate di incontrare altri come voi, che hanno immaginato le cose a partire dalla prima riga. Siete la coscienza del vostro percorso e l’assurdità delle scelte compiute.

Marco Tumiatti