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Cultura dello stupro: la gerarchia della violenza di genere (pt. II)

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Femminicidio: la punizione per aver rifiutato gli standard patriarcali

femminicidio
/fem·mi·ni·cì·dio/
sostantivo maschile

Qualsiasi forma di violenza esercitata sistematicamente sulle donne in nome di una sovrastruttura ideologica di matrice patriarcale, allo scopo di perpetuarne la subordinazione e di annientarne l’identità attraverso l’assoggettamento fisico o psicologico, fino alla schiavitù o alla morte. Il termine femminicidio fa uscire il fumo dalle orecchie a tanta gente che lo vede come una sorta di discriminazione nei confronti degli uomini. Si sente spesso dire “La morte di una donna per mano del compagno non è più importante di un uomo morto sul posto di lavoro”. Attenzione: qui nessuno sta cercando di creare una gerarchia dei morti. Il termine “femminicidio” sta ad indicare il movente dell’omicidio: una donna che viene uccisa in quanto donna. Il femminicidio comprende tutti quegli omicidi in cui un uomo (partner, compagno, marito, fratello, amico, uomo rifiutato etc) uccide una donna che ha osato riprendersi la sua libertà. Dunque, non tutte le donne che vengono uccise sono vittime di femminicidi. Il termine femminicidio ammette che ci sia un problema di sistema: non si tratta di omicidi generici, c’è una matrice patriarcale e misogina all’origine. Il concetto stesso di femminicidio implica che ci sia disparità di genere in una società. Quindi, quando urlate alla discriminazione maschile ogni volta che sentite il termine femminicidio, riflettete su quanto siete fortunati riguardo al fatto che non esista un corrispettivo maschile. E se credete che un termine specifico per il nostro omicidio in quanto donne sia un privilegio, ve lo concediamo volentieri.

La violenza di genere rappresentata dai media

Qual è il mezzo che permette di alimentare al meglio questo tipo di cultura? I media, naturalmente. Le testate giornalistiche mainstream italiane sono totalmente impreparate sulle questioni di genere. “Raptus di gelosia”, “Donna uccisa dal marito: lei non puliva né cucinava”, “Il gigante buono”, “La uccide perché la ama troppo”, “Ragazzine ubriache fradicie violentate dall’amichetto”. Questi sono solo alcuni esempi dei migliaia di titoli che riportano notizie di femminicidi e violenze sessuali. Converrete con me che è agghiacciante: titoli di questo tipo, in un paese egualitario sarebbero inammissibili, ma è evidente che in Italia siamo ancora indietro sulle questioni di genere. I media sono l’espressione della società in cui viviamo: disinformata, che non analizza le vicende, né riflette sulle conseguenze delle proprie azioni. Ci avete mai pensato a come si sente una survivor che legge un titolo del genere? Doppia violenza: prima da parte del suo abuser e in seguito da parte dei media. In relazione al caso Genovese, i media si sono sbizzarriti nel dipingerlo come un genio, il mago delle start up, un grande uomo d’affari che ora, poverino, dovrà fermare la sua attività perché ha stuprato una modella per ore! Ma non è la prima volta. Non è affatto raro che i giornali, ad esempio, per narrare la vicenda di un femminicidio, dopo aver dato un movente totalmente errato dell’omicidio (raptus di gelosia docet), descrivano l’omicida come un “marito devoto e padre amorevole”, quasi come se volessero far empatizzare il pubblico con l’assassino. Gli stessi giornali che, sulle pagine dei social network, non disattivano mai i commenti sotto i post delle notizie di femminicidi e altre violenze di genere. Come se si potesse avere un’opinione “diversa” sulla violenza. Sembrerà stupido e di poco conto, ma così facendo si legittima la possibilità di esprimere la propria idea su un fatto oggettivo che tutti dovrebbero condannare. Non si tratta di censura, ma di buon senso: non ci deve essere nessuna libertà di espressione sulla violenza, perché è questo che incoraggia il victim blaiming e lo slut shaming che nei commenti non mancano mai, e che a loro volta, incoraggiano la cultura dello stupro. Ma non è tutto: le testate giornalistiche, così come i loro assidui commentatori, non disdegnano la minimizzazione della violenza né la colpevolizzazione della vittima. “Il deejay con il vizietto”: è così che Il Mattino si riferisce a un deejay che ha stuprato per ore una donna. Perché lo stupro è un vizietto, non il frutto di un problema sistemico e culturale! O vogliamo parlare di Feltri che in prima pagina ci propone il titolo “Ingenua la ragazza stuprata da Genovese”, come se andare a un festino ed entrare in camera con un uomo gli desse il permesso di violentarla! E giù di victim blaiming. Ma del resto, parliamo di Libero, che con titoli e articoli discutibili, ci convive da tempo ormai. Purtroppo questi titoli non sono affatto l’eccezione, ma la regola, altrimenti non staremmo parlando di problema sistemico. C’è una forte ignoranza in materia di violenza di genere (ma in generale, riguardo le discriminazioni sociali) da parte dei media e questo non fa altro che fomentare la cultura dello stupro, poiché i tg e i giornali esprimono ciò che pensa l’opinione pubblica, ed è inconcepibile che si pensi che lo stupro possa essere provocato o che il femminicidio sia causato da un eccesso di gelosia improvvisa.

Per tutti coloro che saranno arrivati alla fine dell’articolo ancora convinti che il femminismo in Italia non serva più e che il termine femminicidio sia una forma di sessismo verso gli uomini, c’è altro da dire: le denunce. Le donne non vengono incoraggiate a denunciare per mille motivi: non ci sono prove, temono di non essere credute, l’iter da seguire è troppo lungo. Spesso sono anche gli stessi poliziotti a dissuadere la donne dalla denuncia. Rendiamoci conto: poliziotti, che dovrebbero esprimere autorità e sicurezza, rendono ancora più difficile (e talvolta umiliante) la denuncia. Anche da questo si può notare che è un problema culturale e soprattutto a livello di sistema: le forze dell’ordine sono esse stesse il sistema.

Noi abbiamo bisogno del femminismo. Sono anni che veniamo uccise, molestate e stuprate. L’abolizione del matrimonio riparatore e del delitto d’onore, così come gli altri diritti, non ci è stata certo concessa gentilmente. Il femminismo non è silenzioso (come piacerebbe al giornale “La Verità”), né tutto rose e fiori, è un movimento rivoluzionario che punta a sradicare la società per costruirne una il più paritario possibile. Non riuscirete a silenziarci, sebbene siano anni che ci proviate. Nel 2020 il femminismo è più vivo che mai, pronto a far crollare le vostre certezze. E alcune femministe sono arrabbiate, ma dopo millenni di patriarcato non potete biasimarci.

Giorgia Brunetti

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Cultura dello stupro: la gerarchia della violenza di genere (pt. I)

Lady Gaga, Rihanna, Halle Berry, Madonna, Asia Argento, Kesha, Loredana Bertè. Tutte queste donne hanno qualcosa in comune: hanno subito abusi e violenze da parte di uomini di cui si fidavano. La violenza sessuale è un’esperienza che accomuna quasi tutte le donne del mondo. Non a caso, tempo fa leggevo sui social un tweet “ogni donna ne conosce un’altra che ha subito violenza, ma nessun uomo conosce uno stupratore”.

Alberto Genovese era un imprenditore milanese che spesso organizzava dei party a casa sua. A queste feste partecipava tanta gente, finché non è venuto fuori lo scandalo. L’imprenditore stupra, tortura e filma una modella diciottenne per 20 ore di fila. Un uomo fa la guardia fuori dalla porta della sua stanza dove si consuma la violenza. Sembra quasi un thriller, uno di quelli dove c’è un serial killer psicopatico che stupra e uccide le donne perché ha un conflitto irrisolto con la sua ex fidanzatina del liceo. O con sua madre, e quindi punisce tutte le donne che le somigliano. Ma è tutto vero, e purtroppo per Alberto, non si tratta di psicopatia (anche se forse lui preferirebbe così, perché in tal caso potrebbero diminuirgli la pena per infermità mentale). Ovviamente, lui non ci ha pensato due volte a investire il suo denaro in ottimi avvocati. “Sono vittima della droga” è stata la sua prima reazione alle accuse, e tutto ciò è molto curioso, perché in nessun libro di psicologia clinica viene citato lo stupro tra i sintomi dell’abuso di sostanze stupefacenti. Lo sappiamo tutti, Alberto non è vittima della droga, così come non lo è della situazione, né tantomeno del sistema: è ricco, un imprenditore perfettamente integrato nella società. “Un figlio sano del patriarcato”, vi direbbe una femminista. Cresciuto perfettamente come la società patriarcale voleva. Il caso Genovese è particolarmente emblematico per analizzare a fondo la questione della violenza di genere. È molto facile immaginarsi lo scenario: un uomo ricco organizza delle feste, a cui partecipano molte persone, tante modelle. Alcune di loro vogliono divertirsi, altre probabilmente vogliono sbarcare il lunario nel mondo della moda sperando che un imprenditore le metta in contatto con le persone giuste. Per certi versi ricorda il caso Brizzi: il regista che organizzava dei provini per delle attrici, prometteva loro di metterle in contatto con delle agenzie. Dopo di che, il provino comprendeva una sorta di contatto sessuale. Ovviamente, dopo il “provino” non c’era nessuna chiamata a nessuna agenzia. Questi due uomini hanno qualcosa in comune: un grande ego direttamente proporzionale al potere che esercitano. Perché il problema sta tutto lì: è una questione di potere.

La violenza machista come espressione di potere

Non sono certo rari gli uomini potenti accusati di molestie sessuali. Donald Trump, Harvey Weinstein, Roger Ailes, Jeffrey Epstein, ecco alcuni nomi. Sono accecati dal loro potere, credono di avere il mondo nelle loro mani. E le donne sono comprese in quel mondo che loro possiedono. La maggior parte delle violenze sessuale nei confronti delle donne o di uomini avviene per mano di altri uomini. Sorge spontaneo chiedersi: perché? Cosa spinge una persona a esercitare una violenza sessuale? Lo stupro è, al contrario di come molti credono, un’affermazione di potere o in molti casi un metodo per umiliare la vittima. Dunque, il contatto o il sesso (non consensuale) sono solo i mezzi che permettono di esercitare questo tipo di potere. Ed è innegabile che gli uomini si trovino parecchi gradini più in alto rispetto alle donne nella gerarchia sociale. E se questo avviene tra persone comuni, non sarà difficile immaginare che più si sale di livello nella società, maggiore sarà il potere degli uomini. Perciò non c’è da stupirsi se un ricco imprenditore che stupra e tortura una ragazza per ore e ore trovera comunque qualcuno che lo difenderá: potere, denaro e privilegi gli permetteranno di uscirne il più pulito possibile. Avete capito bene: privilegi. Il privilegio è un vantaggio sociale. Nella società patriarcale occidentale la posizione più privilegiata possibile è quella del maschio bianco, etero, cisgender, abile e benestante. Attenzione: privilegio non significa non avere problemi nella vita. È indubbio che anche le persone più privilegiate possano avere una vita dura, ma avere un vantaggio sociale significa che alcuni aspetti della sua identità (genere, etnia, orientamento sessuale, etc) non influiranno mai negativamente sulla sua esistenza. Quindi, al posto di accusare il femminismo di colpevolizzarvi per il semplice fatto che vi pone davanti agli occhi la realtà dei fatti, sarebbe arrivato il momento di fare un’associazione tra posizione privilegiata nella società e violenza di genere. È arrivata l’ora di riflettere sulla fallace educazione che ci viene inculcata fin da quando siamo piccoli e sul perché gli stupratori sono sempre perfettamente a proprio agio con un tipo di cultura che sottomette le donne.

Cos’è la cultura dello stupro?

“Cultura dello stupro è il termine usato a partire dagli studi di genere dalla letteratura femminista e postmoderna, per analizzare e descrivere una cultura nella quale lo stupro e altre forme di violenza sessuale sono comuni, e in cui gli atteggiamenti prevalenti, le norme, le pratiche e atteggiamenti dei media, normalizzano, giustificano, o incoraggiano lo stupro e altre violenze sulle donne” (fonte: Wikipedia). Proviamo a pensare alla cultura dello stupro come se fosse una piramide. Alla base della piramide vi sono le discriminazioni sessiste più “lievi”. In primis vi è lo slutshaming, ovvero una pratica che consiste nel discriminare una donna che ha desideri ed una vita sessuale attiva. Lo slutshaming si esprime solitamente attraverso i tipici epiteti patriarcali e volgari usati per insultare le donne (ing. slut). C’è da dire che termini del genere sono ormai di uso comune nella vita di tutti i giorni e vengono spesso utilizzati anche per insultare donne in contesti che non hanno nulla a che vedere con la loro vita sessuale. Inutile dire che il corrispettivo di “troia” non esiste al maschile poiché la sessualità maschile è sempre stata incoraggiata, a dispetto di quella femminile che per secoli è stata ignorata, controllata dagli uomini e demonizzata dalle religioni monoteiste. Lo slutshaming è una forma di discriminazione molto comune, dubito fortemente che esistano donne che non siano mai state appellate in quel modo.

Oltre allo slutshaming, alla base della piramide troviamo il victim blaming, cioè la colpevolizzazione della vittima nei casi di stupro o molestie sessuali. Alcuni esempi: “te la sei cercata!”, “eh, ma vestita così cosa ti aspettavi?”, “se ti ubriachi e ti comporti da tr*ia, poi non ti puoi lamentare se ti stuprano!”; insomma, affermazioni terribili che non fanno altro che deresponsabilizzare il colpevole della violenza commessa, perché per il patriatcato è sempre più comodo ammonire e giudicare le donne per la loro libertà piuttosto che educare gli uomini.

Sempre allo stesso gradino troviamo i cosiddetti rape jokes, ovvero gli “scherzi sullo stupro”. Attualmente, l’ironia è oggetto di dibattito. Esistono tanti tipi di umorismo, negli ultimi anni si sta diffondendo il black humour (letteralmente umorismo nero), ovvero fare ironia su argomenti spinosi quali religione, politica, razzismo, omofobia, sessismo. E sullo stupro, anche. L’ironia è soggettiva e ognuno ha a cuore degli argomenti su cui preferisce non scherzare. Purtroppo però, in una cultura come la nostra, i rape jokes vengono normalizzati, come se fossero alla stregua delle battute di Colorado. Nessuno che pensa mai a come possa sentirsi una survivor che legge una battuta sullo stupro. Nessuno che pensa al suo dolore, quello non interessa mai a nessuno, la “libertà di espressione” degli uomini viene sempre posta prima dei sentimenti delle donne. Negli ultimi anni, alcune comiche statunitensi hanno cercato di rivoluzionare il concetto di rape jokes indirizzando la natura satirica della battuta verso gli abuser o coloro che colpevolizzano lo stupro, e non verso la survivor.

Salendo leggermente nella piramide troviamo il catcalling, le molestie e dall’avvento dei social anche le “dickpic” non richieste. Le dickpic sono le foto dei genitali maschili. Qualsiasi ragazza con un account Instagram si sarà trovata almeno una volta nella vita una foto del genere nei DM – ovviamente non richiesta, altrimenti non staremmo parlando di molestie. La dinamica è sempre la stessa: nella stragrande maggioranza dei casi si tratta di profili fake senza la foto profilo (chissà, forse si vergognano anche loro di ciò che fanno), con un nome utente che ricorda un codice fiscale e naturalmente con 0 followers e 0 post. Solitamente iniziano la conversazione con un “hey” (ma nel peggiore dei casi vanno dritti al sodo) e dopo un paio di messaggi iniziano le prime domande intime senza che nessuno gli abbia dato il permesso. Dopodiché, ti ritrovi le loro parti basse in chat. Che tu lo abbia chiesto o no, a loro non importa assolutamente.

Il catcalling, invece, consiste nel suonare il clacson, fare apprezzamenti non richiesti e fischiare (come se fossimo dei cani) alle sconosciute per strada. Molte persone stentano ancora a riconoscerlo come una molestia. “Ma quindi ora non possiamo nemmeno fare i complimenti a una ragazza che incontriamo per strada?” beh, a me non risulta che le donne di solito suonino il clacson urlando volgaritá dal finestrino della macchina ogni volta che vedono passare un uomo, quindi non vedo perché dobbiate sentirvi in diritto di esprimere i vostri gusti mettendo a disagio la vostra interlocutrice. Nel concetto di molestie, oltre alle dickpic non richieste e al catcalling, rientra qualsiasi tipo di contatto sessuale non richiesto.

Salendo di livello nella piramide, aumenta la gravità delle molestie. Troviamo il revenge porn, lo stealthing e la coercizione sessuale. Il revenge porn non ci è nuovo, si tratta della condivisione di materiale intimo non consenziente, e ovviamente le maggiori vittime di questa pratica sono le donne, la cui vita viene rovinata da uno stigma sociale che impedisce loro di avere una vita sessuale libera e soddisfacente, come nel caso della maestra di Torino.

Lo stealthing invece è una pratica che consiste nella rimozione del preservativo durante il rapporto a insaputa del partner. Di questo argomento si parla ancora poco, e anzi, da pochissimo ha iniziato a essere considerato come una forma di molestia negli ambienti femministi. Inutile dire che, oltre ad essere una mancanza di rispetto e di consenso per le volontà della donna, è anche dannoso per un eventuale rischio di gravidanze indesiderate e di trasmissione di malattie veneree di cui l’altra persona che partecipa al rapporto non è consapevole.

La coercizione sessuale è una forma di costrizione a un rapporto sessuale che implica la mancanza di un consenso scevro da pressioni psicologiche. Quindi, sia costringere una persona a fare sesso, sia ricattarla che metterla sotto pressione per far sì che accetti equivale a molestarla, poiché il consenso va espresso liberamente sempre e comunque.

La violenza di genere, in particolare lo stupro, che si trova quasi sulla sommità della piramide, oltre che un metodo di affermazione del potere e umiliazione, è anche un mezzo di punizione. Basti pensare a donne come Laura Boldrini, Carola Rackete, Greta Thunberg, Silvia Romano. Tutte donne che non hanno saputo restare ai posti che la società patriarcale ha imposto loro. Gettate in pasto a continue gogne mediatiche dai politici sovranisti e ogni volta i commenti erano sempre gli stessi: insulti sul loro aspetto fisico, slutshaming, e gli immancabili auguri di stupro. Il concetto di stupro è totalmente normalizzato tanto da venir usato come augurio nei confronti di una donna che troviamo poco simpatica (e poco vicina ai ruoli di genere, naturalmente): dai, magari un pene infilato nella sua vagina di prepotenza la rimetterà al suo posto e comincerà ad abbassare la cresta questa tr*ia! Ah, sfatiamo un falso mito: lo stupro non è causato da nessun impulso irrefrenabile dell’uomo, non ha niente a che vedere con dei presunti ormoni impazziti. Questa narrazione tossica della violenza sessuale non fa altro che rinforzare il concetto dell’uomo animalesco che sa ragionare solo con i genitali e che impazzisce quando vede delle gambe nude spuntare sotto una minigonna. Narrazione totalmente in linea con il patriarcato, visto che non fa altro che giustificare gli uomini per le loro violenze perché “non si sanno controllare”. Gli uomini sono dotati di intelletto, se stuprano non è perché hanno un eccesso di testosterone, ma perché sanno di poterlo fare. E infine, avvicinandoci alla punta della piramide abbiamo la massima espressione della violenza di genere: il femminicidio.

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Giorgia Brunetti

Fonti:

Il femminismo e gli uomini: oltre la lente politica

Questa è una lettera di risposta a un articolo precendentemente pubblicato su La Disillusione: https://revert798312376.wpcomstaging.com/2018/11/17/femminismo-al-femminile-manca-il-maschile/

Cara Francesca,

Il tuo articolo è una ventata di aria fresca per quanto riguarda la discussione dei rapporti di genere in questi nostri tempi confusi. Cercherò dunque di apportare un primo, modesto contributo ad una conversazione che è decisamente in ritardo, partendo con una battuta impertinente. L’idea di uno “spazio” in cui gli uomini ridefiniscono la propria identità maschile “indipendentemente dalle donne” mi fa immediatamente pensare a due possibili scene: una gara di rutti nello spogliatoio di una palestra, o in alternativa una sessione di terapia di gruppo dai toni bassissimi e un po’ sterili. In altre parole, non sono del tutto sicuro che gli uomini possano definire le proprie identità in uno spazio indipendente da quello femminile. Non perché l’identità maschile (per ora assumiamo a priori che tale categoria esista) sia meno complessa o meno autonoma della sua controparte, quanto per il fatto che, proprio come tu suggerisci, siamo rimasti “indietro”. Che sia stato il femminismo a scordarsi dei maschi o piuttosto noi a scordarci di noi stessi, il risultato non cambia: il superamento di quel determinismo culturale che codificava rigidamente le identità di genere non è stato colto dall’immaginario maschile come una sfida collettiva di rielaborazione, ma semplicemente come un’evoluzione dei costumi a cui adattarsi individualmente. Sono consapevole che quest’ultima sia un’affermazione audace e non generalizzabile, tuttavia sono convinto che rifletta l’esperienza di molti uomini che non sentono di avere una coscienza collettiva di riferimento. O meglio, tale coscienza esiste, ma anziché essere un sentimento di solidarietà comune è un padre-padrone che giudica costantemente la nostra inadeguatezza e lascia pochissimo spazio alla complessità. Ed è proprio la permanenza di questo super-ego maschile e la sua relazione con la costruzione dell’identità che vorrei utilizzare come punto di partenza per questo articolo.

Identità, Intersoggettività, Cultura

Che cos’è l’identità? Sicuramente non qualcosa che posso sperare di definire in maniera soddisfacente in questa sede, ma vale la pena formularne un concetto approssimativo per amor di discussione. Di sicuro non è né un contenitore vuoto da riempire a nostro piacimento né qualcosa che ci piove in testa dal cielo alla nascita, ma piuttosto il risultato di un processo di mediazione tra le istanze più o meno autonome del proprio sé – personalità, ambizioni, vocazioni, desideri – e le influenze inevitabili della cultura e delle interazioni sociali che accompagnano la crescita dell’individuo e la vita in generale. Il femminismo, nelle sue diverse ondate, ha riaffermato la forza delle prime sulle seconde per quella metà della popolazione umana che l’Illuminismo e le sue rivoluzioni avevano lasciato da parte, permettendo dunque alle donne di emanciparsi dai ruoli subalterni e claustrofobici che la società aveva loro imposto.

Da qui l’effetto performativo sulla cultura, il rovesciamento dei vari stereotipi e l’esplorazione dell’ identità femminile come esperienza piuttosto che come modello. Tutto ciò si è tradotto, entro un certo grado, nella consapevolezza generale che non esiste uno standard di riferimento dell’identità femminile a cui le donne dovrebbero attenersi per sentirsi a proprio agio nel loro essere donne. Ne segue che, entro i limiti della convivenza civile, ogni modo di vivere la soggettività femminile ha la stessa dignità di tutti gli altri.

Lo stesso principio egualitario si applica ovviamente anche alle soggettività maschili, ma la mancata rielaborazione culturale fa sì che tale principio rimanga quasi solamente formale, mentre nella sostanza gli uomini rimangono concepiti come “il sesso forte” in un senso che va ben oltre l’anatomia: da loro ci si aspettano vitalità, risolutezza, coraggio, ma soprattutto iniziativa. Iniziativa nel manifestare interesse verso un potenziale partner, nel mostrare di avere carattere e senso dell’umorismo, nel “sapersi vendere bene” al resto del mondo, e spesso persino nell’iniziare il contatto fisico che precede ogni atto sessuale. Per un uomo è quasi impossibile rifiutare tutte queste aspettative e poter sperare di vivere serenamente.

Detto questo, non è mia intenzione esaltare il diritto degli uomini a non adeguarsi nè presentare questo diritto come un dovere politico, perché una mossa del genere sarebbe controproducente nel breve periodo (cosa facciamo, Lysistrata al contrario? Chi ci crede?). Il vittimismo non fa bene a nessuno, tantomeno agli uomini.  Credo, piuttosto, che sia necessario prendere in considerazione la permanenza di queste aspettative non solo nella dimensione culturale dei rapporti di genere, ma anche in quella intersoggettiva.

Con questo intendo dire che a riprodurre un certo ideale di “uomo-che-non-chiede” tipo Han Solo quando bacia Leia non è solo la cultura, sono anche moltissime donne nelle loro interazioni quotidiane, e pensare che questo non riguardi anche alcune donne che si ritengono femministe sarebbe quantomeno sospetto.

A questo punto, possiamo davvero cambiare questo stato delle cose semplicemente attraverso un’operazione culturale parallela, un “femminismo dei maschi” che si concepisce come indipendente da quello “delle femmine”, con cui si limita a fare due chiacchiere ogni tanto? Un progetto simile potrebbe sicuramente portare a risultati concreti e positivi nel lungo periodo, ma sarebbe un po’ come mettere una guarnizione ad un tubo che perde da ieri notte e poi tenersi l’acqua in casa fino alle caviglie: prima o poi l’acqua evapora, ma si può fare di meglio e provare a salvare il parquet.

 

“Sono come tu mi vuoi”

Individuali o collettive che siano, tutte le identità hanno una componente eterodiretta che riflette le aspettative degli altri e i loro riconoscimenti. Come accennavo prima, uno dei grandi successi del femminismo è stato cambiare e certamente su quel versante c’è ancora parecchio lavoro da fare. Ma sul versante opposto i lavori non sono mai cominciati.

Prendiamo ad esempio una convenzione che gode ancora di ottima salute, secondo cui è l’uomo a dover cercare e la donna a dover scegliere. Se si proponesse di superarla o rovesciarla una volta per tutte, quanta resistenza ci si potrebbe aspettare da parte di individui di entrambi i sessi?

Per il momento, forse agli uomini non resta che accettare il fatto che parte della loro identità si articoli sulle aspettative che le donne proiettano verso di loro, e che il loro riconoscersi come adeguati o meno a tali aspettative abbia delle conseguenze determinanti per il loro rapporto con se stessi. Ma questo è quasi ovvio, e non vale certo di meno per le donne.

La differenza significativa sta nel modo in cui la convenzione di cui sopra opera a livello collettivo.

Essa pone quasi tutti gli uomini davanti alla possibilità del rifiuto almeno una volta nella vita, mentre una donna non è necessariamente costretta ad affrontare questo rischio. Anzi, molto spesso le donne sono soggette ad un’educazione ed una socializzazione che le incoraggiano a sottrarvisi, a mostrare il loro potenziale interesse attraverso segnali mai troppo espliciti, perché il costume vuole che siano gli uomini ad interpretarli e ad agire di conseguenza. Lo so, sembra una piccolezza irrilevante rispetto alla realtà complessiva, ma non lo è affatto.

Questa convenzione fornisce infatti il presupposto strutturale – anche se non per forza causale – su cui si articolano le dinamiche di competizione maschile, che avvenga tra estranei l’un l’altro indifferenti o tra amici che farebbero volentieri a meno della gara. Fin da adolescente, non ho mai smesso di chiedermi se non ci sia una certa relazione di rinforzo tra l’iterazione di queste dinamiche e lo sviluppo, nella psiche maschile, di una visione delle donne come “premi” da vincere in funzione della propria autostima. E ogni tanto vorrei che Simone de Beauvoir fosse ancora viva per porre questa domanda anche a lei.

Quanta distanza concettuale c’è tra un premio che si vince ed un oggetto che si possiede?

Sono certo che molte femministe siano ben coscenti di questa realtà ed altrettanto certo che, in un certo senso, non ci possano fare niente. L’idea di una donna che cerca di emancipare un’altra donna dicendole “smettila di essere così maschilista!” effettivamente fa un po’ ridere, visto che il paternalismo (in teoria) è un’attitudine inconciliabile con lo spirito femminista. Tuttavia, per gli uomini il problema rimane: dobbiamo relazionarci quotidianamente con un mondo femminile che da un lato ci attribuisce le tipiche aspettative culturalmente associate ai maschi e dall’altro le rinnega. Il che ci mette di fronte a situazioni che spesso non riusciamo a decifrare.

Ad esempio, quando siamo costretti a vedere che il machismo becero e irritante di certi rettili in discoteca, ogni tanto, paga. O quando le nostre madri, sorelle, e maestre delle elementari ci inculcano (pur con le migliori intenzioni) una visione agiografica delle donne come esseri eterei e moralmente superiori, senza macchia e senza corpo. La quale, ad un certo punto dell’adolescenza, finisce inevitabilmente per collassare davanti alla realtà. Magari proprio quando si cominciano a frequentare le suddette discoteche.

Verso la scomodità

Ecco, quando viene posto in relazione con il problema della violenza di genere, questo ragionamento perde ogni residuo di leggerezza e diventa una questione spinosissima. Questione che non ero costretto a tirare fuori, e se avessi voluto stare sul sicuro questo articolo si sarebbe concluso al paragrafo precedente. Ma la coscienza mi impone, masochisticamente, di esternare l’idea che per comprendere fino in fondo la violenza di genere non sia sufficiente indagare la “dark triad” e la psicologia culturale dei predatori sessuali. Sarebbe un lavoro lasciato a metà.

Serve anche capire come le donne concepiscono gli uomini, cosa che sicuramente non possiamo fare da soli. In particolare, abbiamo bisogno di capire fino a che punto l’idea di uomo nell’immaginario collettivo delle donne contiene ancora elementi potenzialmente permeabili a quelle manifestazioni aggressive e violente che il mondo anglofono chiama, certo non senza motivo, “toxic masculinity” e “rape culture”.

Ci terrei ad anticipare un’obiezione che immagino si stia già facendo strada nella mente di chi legge: non sto assolutamente parlando di girare la frittata e dare la colpa degli abusi alle donne che ne sono vittime. La condanna di ogni forma di violenza non si discute, e il fatto che io mi senta in dovere di fare questa precisazione dopo tutto ciò che ho scritto finora forse è uno spunto di riflessione ulteriore, su cui tornerò più avanti.

Sto parlando di cominciare un’operazione scomoda e difficile, che tra le altre cose implica un’indagine collettiva della seduzione, dell’affetto e della sessualità in tutta la loro ambivalenza psicologica e morale. E che andrebbe portata avanti con cautela, ma il più possibile alla luce del sole, per riuscire a stare in bilico tra il pericolo dell’invadenza e quello dell’ipocrisia. Ma se continuiamo a posticiparla sine die perché crediamo che non sia poi così necessaria, o perché rischia di lanciare pericolosi inviti al maschilismo più bieco, la violenza di genere rimarrà sintomo di una malattia che ci asteniamo dal conoscere davvero.

Riusciremo a curarla a suon di deterrenza e di scandali di cronaca, puntando un dito verso il mostro e l’altro dito verso una cultura maschilista che vogliamo sì cambiare, ma non sappiamo fino a che punto?

Forse. Le statistiche in effetti suggeriscono che gli episodi di violenza stiano calando, ma la crescita inquietante di certe culture sotterranee nel dark web (come quella degli incels, pregna di una frustrazione e un risentimento talvolta reciprocati da chi la denuncia) è una dissonanza che mi preoccupa molto, anche se spero vivamente di sbagliarmi.

Mai come prima d’ora, noi uomini ci troviamo ad avere un enorme bisogno della vostra sincerità più spassionata. Altrimenti rischiamo di viaggiare sempre più spediti verso l’incomunicabilità, e di trasformare questa incomunicabilità in un’asfissia reciproca dilagante.

Prigionieri dell’apologia

Uno degli ostacoli da superare per quanto riguarda le relazioni di genere ha a che fare con il clima dialettico in cui queste vengono discusse e, talvolta, anche con il taglio politico che le sottolinea. Senza dubbio, la concezione neo-Gramsciana del femminismo, che identifica il patriarcato come correlativo del sistema capitalista basato sulla proprietà e sulle disuguaglianze, ha un fondo di verità e ha conferito vigore politico a battaglie importanti nella società e nelle istituzioni. D’altra parte, però, ho il sospetto – da buon materialista storico – che lo sconvolgimento del panorama sociale e tecnologico della comunicazione (mass media prima, social media poi) abbia cambiato radicalmente le carte in tavola, nel bene e (soprattutto) nel male. Uno degli effetti collaterali di questi sviluppi è stata l’integrazione funzionale dell’antagonismo politico femminista in un ambiente comunicativo paranoico ed esasperante, dove ogni proposizione viene valutata esclusivamente per il suo potenziale apologetico piuttosto che per il contenuto in sé. Con risultati controproducenti per gli obiettivi di inclusività ed emancipazione che il progetto femminista vuole portare avanti.

Un esempio paradigmatico è il caso della filmmaker americana Cassie Jaye, finita al centro di asprissime controversie dopo l’uscita nel 2016 del suo documentario The Red Pill, in cui intervista alcuni esponenti dei cosiddetti Men’s Rights Activists e racconta l’impatto che questo confronto ha avuto sulla sua visione del mondo. Non potendomi dilungare sullo scopo e il contenuto del lungometraggio, che non nego essere indigesto sotto molti aspetti, consiglierei la visione di questo TEDx talk in cui la Jaye riassume l’inquisizione mediatica che ha subito con le seguenti parole: “when you start to humanize your enemy, you might in turn be dehumanized by your community”. A poco è valso Il fatto che i suoi lavori precedenti parlassero di temi come la libertà e la salute sessuale e riproduttiva delle donne (Daddy I Do, 2010) e i diritti delle coppie omosessuali (The Right To Love, 2012): non aver dipinto i suoi intervistati come pericolosi mostri sciovinisti in The Red Pill le ha fruttato l’ostracismo preventivo del pubblico con cui lei si era sempre identificata, e a cui il documentario era rivolto.

Non nego che questa mentalità anticipatoria sia piuttosto comprensibile, visto che l’apologia del maschilismo va molto di moda ultimamente. Tanto che ce la sto mettendo tutta per non suonare come un certo oscuro professore canadese, che avrebbe anche qualcosa di buono da dire se non avesse deciso di costruire un impero commerciale sull’ambiguità, facendo vari occhiolini alla destra ultraconservatrice per motivi discutibili. Certo, ogni cosa succede in un contesto, e in questo caso il contesto è quello Nordamericano. Nella nostra cara Europa le cose sembrano andare un po’ meglio.

In Italia, ad esempio, abbiamo avuto La TV delle Ragazze, tutt’altro spirito e tutt’altro intelletto rispetto alla vulgata femminista d’oltreoceano. Ma le influenze atlantiche ogni tanto fanno capolino. Per esempio, quando la proposta di legalizzare la prostituzione viene osteggiata a priori dalla sinistra perché assimilata a tutte le altre proposte deliranti della Lega. Anche se concepita in modo regressivo, come ritorno alle situazioni degradanti e indifendibili delle “case di tolleranza” abolite dalla legge Merlin, la proposta rimane comunque un’opportunità per presentare emendamenti e trasformare le attuali politiche basate sulla deterrenza in politiche volte alla riduzione del danno. Che peraltro è esattamente ciò che la sinistra ha sempre voluto fare con le droghe leggere. E poi ammettiamolo una volta per tutte: Lina Merlin, nonostante i tanti e indiscutibili meriti, era mossa da un moralismo che oggi farebbe storcere il naso a molte donne.

Il Contrappasso di Adamo

Recentemente ho visto una conferenza di Galimberti in cui, tra le altre cose, l’intellettuale dallo stile burbero e tranchant afferma che la visione cristiana del tempo, dell’etica e del progresso sociale pervade persino il pensiero critico di due “Maestri del Sospetto” come Freud e Marx (Nietzsche se la scampa con l’Eterno Ritorno, anche se non del tutto).

Il passato è sofferenza (peccato/patologia/oppressione), il presente è redenzione (pentimento/terapia/rivoluzione), il futuro è emancipazione (regno dei cieli/guarigione/società senza classi).

Logicamente, questa radice cristiana è presente anche nei vastissimi filoni di pensiero articolati sulla falsariga dei due filosofi nei decenni a venire, e il femminismo – specie quello accademico – non ne è certo immune. Anzi, provocatoriamente, mi verrebbe da chiedere: cos’è diventato il patriarcato, nel discorso politico dell’occidente odierno, se non il peccato originale degli uomini? Un capovolgimento del mito di Eva che trasforma una verità storica innegabile (l’oppressione millenaria delle donne) in una colpa metafisica che tutti gli uomini, anche quelli nascituri, devono e dovranno portarsi appresso in un modo o nell’altro?

Ci tocca ammettere, un po’ amaramente, che Benedetto Croce aveva più ragione di quanto vorremmo concedergli: non possiamo non dirci cristiani, nemmeno nella contestazione più radicale. Forse questa consapevolezza, che potrebbe sembrare pericolosa in quanto neutralizzante, può invece fornire il presupposto per una critica più ampia, profonda e riflessiva, che ci permetta di negoziare davvero la nostra cultura e i nostri costrutti sociali liberamente e democraticamente. E di lasciarci alle spalle, per quanto possibile, quei tanti orpelli ideologici che invertono gli schemi senza mai cambiarli.

Daniele Vanni