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Mezzo secolo in 10 romanzi: storia e letteratura con Andrea Argenio

Qualche giorno fa abbiamo sentito Andrea Argenio, ricercatore e docente di Storia contemporanea del Dipartimento di Scienze politiche dell’Università Roma Tre. Con lui ci siamo posti un obiettivo ambizioso, quello di riassumere la storia del Novecento italiano dalla Prima Guerra mondiale agli Anni di piombo mediante i romanzi che hanno parlato degli eventi salienti di metà del secolo breve. I romanzi restituiscono infatti spesso in presa diretta gli eventi e gli stati d’animo dei tempi presi in esame, dando un contributo significativo all’analisi storica.

Partendo dalla Prima Guerra mondiale, di cui si è parlato molto negli ultimi anni di anniversari, il professor Argenio ha portato due romanzi di cui uno meno conosciuto, del 1975, edito da Adelphi: Contro-passato prossimo” di Guido Morselli. Libro molto moderno, che potremmo definire ucronico, si interrga su cosa sarebbe successo se l’Italia fosse stata invasa dagli Austriaci. Morselli narra proprio gli eventi successivi all’immaginaria Edelweiss Expedition, l’operazione militare con cui gli austriaci conquistano nel giro di poche ore l’Italia settentrionale, lasciando l’italia in una situazione sconcertante da cui verrà salvata da Giovanni Giolitti, che anche qui era colui che la guerra non voleva farla, che voleva che l’Italia restasse neutrale.
Il secondo consiglio per la Prima Guerra mondiale è invece un classico: “Un anno sull’Altipiano” di Emilio Lussu, politico antifascista e combattente, che racconta la sua vicenda personale di ufficiale della Brigata Sassari, brigata dell’esercito italiano composta in larga parte da pastori sardi. Il libro è a metà tra l’autobiografia e il saggio storico, non essendo del tutto attinente alla realtà, però narra veramente bene le vicende di quella guerra è ha contribuito a creare il mito della Brigata Sassari, uno dei massimi orgogli della Sardegna, che ancora è applauditissima nelle sfilate del 2 Giugno. Da questo libro è stato poi tratto molto liberamente il film “Uomini contro”  di Francesco Rosi con uno spettacolare Gian Maria Volonté.

Siamo passati poi al fascismo, con due libri che raccontano il fascismo in modo “intimo”. Il primo libro è “Tempi memorabili” di Carlo Cassola, edito nel 1966, che racconta le vacanze che un giovane ragazzo di nome Fausto trascorre con la famiglia a Marina di Cecina. Ambientato negli anni 30, poco prima della guerra in Etiopia, questo è il racconto dell’ultima estate passata con i genitori prima di diventare grande, un racconto dagli accenti nostalgici e proustiani, nel quale la narrazione di quei tempi si fonde con quella degli eventi politici contemporanei.
L’altro consiglio è “Cinque storie ferraresi” di Giorgio Bassani. I racconti narrano cinque vicende della città di Ferrara, città in cui l’autore è nato e dove era presente una foltissima comunità ebraica che subirà sulla propria pelle le leggi razziali del 1938 e le deportazioni nei campi di sterminio. All’interno di questi racconti ce n’è uno chiamato “La lunga notte del ’43”, che poi verrà portato al cinematografo dal regista esordiente Florestano Vancini, che racconta dell’uccisione del segretario del Partito Fascista Repubblicano – quindi già in piena Salò – avvenuta in seno allo stesso movimento fascista repubblichino che però fu imputata ai partigiani, il che portò a cruenti rappresaglie, le cui atmosfere torbide di una Ferrara piovosa e nebbiosa vengono fedelmente riportate da Bassani.

Passando alla resistenza non si può non citare “Una questione privata” di Beppe Fenoglio, libro che fa parte della nostra storia e che contiene tutto: c’è la resistenza ma c’è anche una storia d’amore, in un contesto molto ben dettagliato dall’autore. Anche in questo caso il cinema si è appropriato di quest’opera: i fratelli Taviani ne hanno tratto un film omonimo con Luca Marinelli; film che si prende qualche libertà, essendo gli attori che interpretano una banda di partigiani delle Langhe piemontesi tutti dotati di un marcato accento romano.
Un altro libro, anch’esso poco conosciuto, è Tiro al piccione” di Giose Rimanelli, autore emigrato negli Stati Uniti dove poi ha insegnato letteratura italiana. Qui la guerra civile viene narrata dal punto di vista di un ragazzo meridionale trasferito a Salò. Stanco della propria vita noiosa in Molise, il giovane protagonista scappa al nord e va a combattere con le brigate nere della RSI, e lì si renderà conto della crudeltà della guerra civile e dell’efferatezza delle stragi compiute, nonché del rapporto alleato con quelli che dovrebbero essere i suoi alleati, i Tedeschi, fino a pentirsi della scelta fatta.

Ci siamo spinti poi fino al boom economico con due libri molto particolari. Il primo è “Un amore” di Dino Buzzati, libro che racconta l’ossessione amorosa di un quasi cinquantenne lombardo che si innamora di una giovane prostituta, nella Milano che va a duecento all’ora del boom economico, la Milano dei grattacieli, del Pirellone, della Torre Velasca, dell’Autostrada del Sole inaugurata da poco, della chiusura delle case d’appuntamenti eliminate pochi anni prima dalla legge Merlin del 1958 che però non ha fermato la prostituzione ma che anzi la lascia prosperare senza regolazione statale. Il tutto raccontato con la finezza psicologica di Buzzati, che non fu solo scrittore ma anche giornalista.
Altro consiglio è Fratelli d’Italia” di Alberto Arbasino, un libro molto voluminoso (è sulle mille pagine) che racconta in presa diretta il boom economico e come viene vissuto nelle varie città italiane, attraverso aspetti molto semplici ma indicativi come le vacanze al mare, i pranzi e le cene fuori, il lavoro che cambia, i grandi successi del cinema e la sua dolce vita, sia quella di Fellini che quella che si viveva realmente a Roma. Un viaggio molto veloce, che è l’aggettivo che caratterizza tutto il boom economico con la sua motorizzazione di massa. La scrittura è a tratti contorta per via del massivo utilizzo dello stream of consciousness, ma è molto affascinante, essendo una quasi da catena di montaggio, al limite del taylorismo.

Gli ultimi consigli riguardano invece gli Anni di piombo. Il primo libro consigliato su questi anni è “Tornavamo dal mare” di Luca Doninelli, libro del 2004, la storia di una giovane ragazza madre che ha avuto un’esperienza con la lotta armata negli anni 70 di cui non ha mai parlato a sua figlia e che durante una vacanza al mare viene raggiunta da una persona che invece ha molto da raccontare su quegli anni. Senza voler aggiungere molto, anche questo romanzo è un ritorno al passato a una vicenda scabrosa come quella egli Anni di piombo, che sono stati molto raccontati dal cinema ma sicuramente meno dalla letteratura.
L’ultimo consiglio non è propriamente sugli anni di piombo ma è una presa diretta degli anni 70, una serie di racconti intitolata “Altri libertini” di Pier Vittorio Tondelli, libro del 1980 edito da Feltrinelli. I vari racconti narrano com’era essere giovani negli anni 70, il rapporto con la violenza politica e le manifestazioni in un Paese che cambiava radicalmente: pur essendo ancora impregnato di panpoliticismo, essendo impossibile fare qualcosa senza che esso abbia anche una valenza politica, si stava pian piano arrivando negli anni 80, quindi nel riflusso e nel rifiuto della politica, cercando un rifugio nelle droghe, nelle vacanze, nelle palestre, negli amori omosessuali, in quello che Roberto D’Agostino chiamerà “edonismo reaganiano”. Dichiaratamente omosessuale, nato a Correggio come il cantautore Luciano Ligabue che lo avrà come modello nella scrittura e nella direzione del film “Radiofreccia”, Tonelli avrà una vita molto breve e profondamente coincidente con quanto narrato dai suoi racconti, morendo infine nel 1991 di AIDS, il grande cancro che ha segnato l’aspetto più nefasto degli anni 80 di cui egli fu cantore.

Paolo Palladino

 

 

 

 

 

 

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Fermate Hitler. Il racconto dell’attentato a 75 anni dalla sua esecuzione

“L’assassinio va tentato, costi quel che costi. Anche se fallisse, dovremo entrare in azione a Berlino. Perché ora il fine pratico non ha più importanza; ciò che conta è che la resistenza tedesca giochi le sue carte di fronte al mondo e alla storia. Tutto il resto è secondario” (Henning Von Tresckow, 1900-1944) [1]

Molti sono i filmati che vedono un Adolf Hitler acclamato dalla folla, adorato dal suo popolo per averlo riscattato dalle umiliazioni subite, il suo nome urlato a gran voce nelle strade cittadine. Un intero paese ai suoi piedi, entusiasta. Tuttavia c’era chi al potere nazista si opponeva, silenziosamente. L’apparato repressivo metteva a tacere ogni tentativo di opposizione, ma non abbastanza da zittire tutti, e qualcuno riusciva a far sentire la sua voce. Un gruppo di cospiratori provenienti dalla classe aristocratica della più rispettabile tradizione prussiana scelse di opporsi con la violenza a un regime che sulla violenza si era costituito. Cosa spinse quegli ufficiali a cercare di uccidere Hitler, un’enormità per uomini la cui professione era sinonimo di ubbidienza e lealtà? A 75 anni dal più famoso attentato a Hitler, racconteremo la loro storia, e cercheremo di capirlo.

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Claus Schenk von Stauffenberg, prima del 1944.

“In quanto aristocratici, pensavano di dover fare i conti con la colpa gravante sulla nazione che i loro avi avevano guidato”[2], così si diceva del gruppo di cospiratori, capeggiato dal colonnello Claus Von Stauffenberg. Egli non è facile da classificare sul piano politico, infatti come ricorda la sua vedova in un’intervista “i conservatori lo scambiavano per un nazista arrabbiato, i nazisti arrabbiati per un inguaribile conservatore. Non era né l’uno né l’altro”[3]. Tutto ciò che sappiamo senza alcun dubbio era la sua ferma volontà di togliere di mezzo il dittatore nazista. La sua delusione nei confronti di Hitler maturò più lentamente, ma fu particolarmente intensa.

Prima di analizzare le dinamiche dell’attentato del 20 luglio, le sue cause e le sue conseguenze, facciamo un breve sunto dei precedenti attentati a Hitler. Proposte concrete per assassinarlo furono suggerite per la prima volta durante il disastro di Stalingrado, nell’inverno del 1942. Sotto la guida del maresciallo Henning Von Tresckow fu messo in atto il primo tentativo, nel marzo 1943, quando una carica esplosiva fornita dall’ammiraglio Canaris fu collocata a bordo del quadrimotore di Hitler, tuttavia il detonatore, probabilmente a causa del freddo, non si azionò. Altri due attentati fallirono nello stesso anno, ma l’attività cospirativa ricevette nuovo impulso quando il colonnello Stauffenberg venne assegnato al quartier generale dell’Ersatzheer, l’esercito di riserva. Soltanto dalle file dell’esercito tedesco avrebbero potuto provenire eventuali cospiratori per rovesciare Hitler e il regime nazista. Solamente i suoi ufficiali potevano avvicinarsi così tanto a lui, ed essere in grado di controllare la sicurezza di un regime sostitutivo. I timidi piani per togliere di mezzo il dittatore erano tutti falliti a causa di incertezze o questioni di onore e obbedienza a quel punto ormai inappropriate. I cospiratori si trovavano tuttavia di fronte a numerosi ostacoli. I congiurati sapevano di rappresentare un’esigua minoranza che godeva di un trascurabile sostegno popolare. Il genere di governo che volevano istituire aveva peraltro più caratteristiche in comune con la Germania guglielmina che non con una moderna democrazia, sentivano tuttavia il dovere morale di contrapporsi alla criminalità del regime. Il problema più grosso era però di tipo pratico. Stauffenberg, divenuto capo effettivo del complotto, era l’unico in grado di piazzare la bomba, ma aveva perso una mano e un occhio in Tunisia, e ciò avrebbe costituito un notevole svantaggio al momento di innescare la carica esplosiva. L’attentato si intreccia anche con una questione di tempistiche, infatti il 6 giugno dello stesso anno, le forze alleate erano sbarcate in Normandia, e il piano dei cospiratori era trattare con gli Alleati prima che fosse troppo tardi, perché la loro idea, basata su presupposti che tuttavia non sarebbero mai stati accettati, era quella di firmare una pace separata a Ovest per continuare lo scontro ad Est contro l’Unione Sovietica. Poiché il tempo in Normandia stava per scadere, non avevano ormai che una sola, ultima chance, il 20 luglio.

L’assassinio di Hitler doveva coincidere con la mobilitazione dell’esercito di difesa nazionale contro SS e Partito Nazista, ai quali il delitto sarebbe stato imputato. Stauffenberg avrebbe dovuto recarsi a Berlino per la supervisione del colpo di stato. Peraltro, gli sarebbe occorsa la collaborazione di ufficiali di grado più elevato, in particolare del generale Fromm. In realtà, iniziato il putsch, Fromm si rifiutò di collaborare e consigliò a Stauffenberg di suicidarsi. Come Stauffenberg aveva supposto, gli ufficiali di grado più elevato erano quelli più inaffidabili, e molti erano contrari all’azione, ma come egli sosteneva “ancor peggio di fallire, sarebbe rassegnarsi senza lottare alla vergogna e alla schiavitù”. Costi quel che costi, la strada era segnata, e il tempo di agire era arrivato. Giunto in volo da Berlino alla Wolfsschanze, Stauffenberg prese parte alla riunione convocata da Hitler in una baracca di legno per fare il punto della situazione. Al momento opportuno, il colonnello sgusciò nel bagno con la sua borsa portadocumenti per armare le due bombe. Tornato nella stanza, spinse la borsa checonteneva una sola bomba – non riuscì per motivi di tempo, complice la sua unica mano, ad armare l’altra –innescata sotto il pesante tavolo a cui era seduto il dittatore. Mentre tutti coloro che si trovavano al tavolo si chinarono sulle carte, Stauffenberg uscì dal locale. Si stava allontanando in auto quando l’ordigno esplose. Convinto che Hitler fosse morto, Stauffenberg tornò in aereo a Berlino.

Hitler in realtà era vivo, un po’ malconcio, ma era sopravvissuto per molte cause fortuite. Infatti, inizialmente la riunione doveva essere tenuta in una stanza di cemento, che avrebbe concentrato l’esplosione in quei pochi metri quadrati, ma Hitler cambiò idea all’ultimo e la stanza in legno fu completamente distrutta, e l’esplosione si sfogò verso l’esterno. Ma non è tutto. Il pesante tavolo attutì la detonazione, la quale era, come già detto in precedenza, l’effetto di una sola bomba, a causa dei difetti fisici del colonnello della resistenza. Miracolosamente, Hitler scampò ad un altro attentato. In quel pomeriggio del 20 luglio, Mussolini arrivò alla Wolfsschanze per una visita programmata da tempo. Venne accolto da Hitler, il quale, esultate, insistette per mostrare al Duce la scena dell’attentato a cui era scampato, sottolineando che ciò non era altro che una dimostrazione della provvidenza divina che lo aveva salvato affinché continuasse la guerra.

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Hitler e Mussolini nella stanza dove avvenne l’attentato il 20 luglio.

Nel discorso rivolto alla nazione quella sera stessa, il capo del nazismo paragonò l’attentato alla “pugnalata alle spalle” del 1918. Intanto a Berlino dopo un incompleto e infruttuoso tentativo di prendere il controllo dell’apparato statale, Fromm riuscì a riprendere in mano la situazione, e alla fine dell’atto fece fucilare Stauffenberg e altri tre cospiratori in un cortile alla luce incerta delle torce elettriche, forse anche perché il suo ruolo ambiguo nella cospirazione restasse nell’ombra. La Gestapo e le SS, pervase da una frenesia di vendetta nei confronti dell’esercito e in particolare del suo stato maggiore, procedettero all’arresto di tutte le persone coinvolte e dei loro familiari. Per i nazisti, ciò rappresentò in sé una vittoria sul fronte interno. La loro priorità ormai non era più ottimizzare lo sforzo bellico, ma cambiare la struttura di potere all’interno del Reich, a scapito delle elite tradizionali [4]. Il “tribunale popolare” che fu istituito in seguito all’attentato, orchestrato dal tristemente famoso giudice Roland Freisler, condannò seduta stante 200 persone. Alla fine dei deliri giudiziari che accompagnarono l’attentato del 20 luglio, 5000 persone rimasero vittime delle conseguenze dell’attentato. Tra questi spicca il nome di Erwin Rommel, che sebbene non fu mai implicato direttamente nel complotto, fu costretto a suicidarsi, salvo poi dedicargli un ipocrita funerale di stato. La storia di questi uomini è l’atto più famoso ed eclatante di una resistenza che nonostante fosse schiacciata dalla efficientissima macchina repressiva quale la Gestapo, è riuscita comunque a far sentire il proprio dissenso verso un regime criminale, colpevole agli occhi della Storia di aver trascinato il mondo del baratro del secondo conflitto mondiale.

Agli uomini, alle donne, ai giovani ragazzi e ragazze che hanno partecipato alla resistenza, in Germania come altrove, va riconosciuto il grande coraggio di dire no a qualcosa di molto più grande di loro. Molti di loro non hanno potuto vedere la libertà, ma sono morti per essa, e qualunque fossero poi le loro visioni politiche, dagli aristocratici conservatori prussiani ai ragazzi della Rosa Bianca, il loro gesto non sarà mai dimenticato, possa anzi essere fonte di ispirazione per tutti noi, pronti a reagire alle ingiustizie e alla tirannia in ogni momento della nostra vita.

 

Andrea Maggiulli


Bibliografia
[1] Joachim Fest, Plotting Hitler’s death, p.236
[2] G, Van Roon, German resistance to Hitler, p.145
[3] Contessa Nina Von Stauffenberg, intervista a cura di D, von meding, Mit dem Mut des Herzens, p.291
[4] GSWW, vol. IX/I, p.829
Diversi passaggi sono presi da Michael Burlaigh, “Il Terzo Reich”, pp 769-781, e Antony Beevor, “La seconda
guerra mondiale. I sei anni che hanno cambiato la storia”, pp 762-766

C’era una volta un poeta: Kočo Racin

Nato a Veles nel 1908 con il nome di Kosta Apostolov Solev, è considerato uno dei padri della letteratura moderna macedone.
Non ebbe mai vita facile, figlio di un povero vasaio macedone, Apostolov Solev, per le condizioni in cui versava la sua famiglia fu costretto a 13 anni ad abbandonare la scuola e andare a lavorare all’officina del padre, quest’esperienza gli fece capire le condizioni misere e difficili in cui vivevano gli operai e gli artigiani macedoni, avvicinandolo al movimento comunista. Negli anni ’20, appena diventato adulto, si iscrisse al Partito Comunista Iugoslavo, salendo rapidamente nei ranghi e partecipando al IV Congresso del partito, nel 1928 a Dresda, come unico rappresentante macedone. Dopo una breve parentesi passata in carcere nel 1934, a causa della sua esposizione come militante, verrà espulso dal partito con l’accusa di “agire in maniera eccessivamente autonoma e indipendente” e nel 1941 dopo la capitolazione del Regno di Iugoslavia, scapperà in Bulgaria. Lì, lavorando come ferroviere a Sofia, conoscerà Kole Nedelkovski, esponente di spicco del Partito Comunista Bulgaro e una delle figure che più influenzerà la sua vita sia politica che letteraria. Dopo l’omicidio di quest’ultimo da parte della polizia bulgara, scapperà anche da Sofia, per ritornare a Skopje in Macedonia. Dopo l’ennesima sventura con la giustizia, questa volta quella nazista, deciderà di unirsi alla Resistenza Iugoslava. Il 13 giugno del 1943 morirà in circostanze poco chiare nei pressi di Kičevo.

Kočo Racin rappresenterà un punto di svolta per la letteratura macedone, tanto che con il saggio “Sullo sviluppo di una nuova letteratura” rivoluzionerà sia l’alfabeto macedone, ponendo le basi per quello contemporaneo, che i contenuti dei testi, indicando la necessità di riprendere temi folkloristici e antichi, riadattandoli a moderni temi sociali. Proprio in virtù di questo produrrà la poesia “Lenka” che è riportata qua sotto:

Откако Ленка остави
кошула тенка ленена
недовезена на разбој
и на наломи отиде
тутун да реди в монопол –
лицето и се измени
веѓи паднаја надолу
и усти свиа кораво.
Не беше Ленка родена
за тиа пусти тутуни!
Тутуни – жлти отрови
за гради – китки розови.Прва година помина
грутка в срцето и легна,
втора година намина
болест ја в гради искина.
Трета година земјата
на Ленка покри снагата.
И ноќе кога месечко
гроб и со свила виеше
ветерчок тихо над неа
жална и тага рееше:
„Зошто ми, зошто остана
кошула недоткаена?
Кошула беше даровна…“
Da quando Lenka ha lasciato
la camicetta di puro lino
incompiuta sul telaio
per andare con i suoi zoccoli
a selezionare tabacco alla fattoria,
il suo viso è cambiato,
le sopracciglia sono cadute
le sue labbra si sono tirate.Lenka non è nata
per quel maledetto tabacco!
Tabacco – veleno dorato
per i suoi seni – ghirlande rosa.

Il primo anno è passato
e un carico giaceva sul suo cuore,
il secondo anno è trascorso
e il male ha dilaniato i suoi seni,
il terzo anno la terra
ha coperto il corpo di Lenka.

La notte, quando la luna
avvolge di seta la sua tomba,
la brezza soffia su di lei
il suo triste dolore:
“Perché è rimasta
incompiuta quella camicetta?
Era la camicetta della tua dote…”

Andrea Zamboni Radić

Il 25 aprile

25 aprile, Italia, festa della Liberazione.

«Cittadini, lavoratori! Sciopero generale contro l’occupazione tedesca, contro la guerra fascista, per la salvezza delle nostre terre, delle nostre case, delle nostre officine. Come a Genova e a Torino, ponete i tedeschi di fronte al dilemma: arrendersi o perire.»

(Sandro Pertini proclama lo sciopero generale, Milano, 25 aprile 1945)

Con queste esatte parole si apre, o meglio si chiude quasi definitivamente, la storia del 25 aprile e della Resistenza partigiana italiana. Quello che è accaduto veramente quel giorno e il motivo per cui si festeggia proprio questa data e non altre – poiché l’Italia fu totalmente liberata progressivamente pochi giorni dopo e la resa delle forze nazifasciste agli alleati arriverà solo il 3 maggio – è che il Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia  (il CLNAI) proprio quel 25 aprile 1945 attraverso le parole di Sandro Pertini, che ne faceva parte, da Milano proclamò un’insurrezione generale in tutti i territori ancora occupati dai nazifascisti, le cui principali città erano Bologna, Genova e Venezia – Roma era stata liberata il 4 giugno 1944 – invitando tutti i partigiani ad attaccare i presidi nemici imponendo la resa e prendendo il mano il potere “in nome del popolo italiano e quale delegato del Governo Italiano”, decretando la pena di morte per tutti i gerarchi fascisti. Il 25 aprile rappresenta quindi il culmine della Resistenza, l’ultimo immancabile sforzo durato anni verso la libertà.

Ma il 25 aprile non si festeggia la libertà, come a parer mio erroneamente molti finiscono col dire. Quello che festeggiamo è l’atto, l’azione, il gesto, la storica giornata in cui abbiamo riconquistato quella libertà che ci era stata negata non solo nei cinque anni della guerra, ma lungo tutto il ventennio fascista. Una libertà pagata a caro prezzo, la cui moneta di scambio è stata il sangue versato di persone, mamme, nonne, figlie, mariti, fratelli, nipoti, la cui unica aspirazione era la sola condizione naturale di essere liberi, alcuni come quando erano nati, altri come non erano mai stati. E proprio perché la libertà si paga e non solo quando si ottiene, ma ogni giorno che segue, molti in Italia sarebbero quasi pronti a rinunciarvi ancora. Sono quelli che dicono che Mussolini ha fatto anche cose buone e che loro non devono festeggiare nessuna liberazione, liberazione da chi, si stava meglio quando c’era lui. Sono quelli che ti spiegano che il duce ha costruito le case, ha bonificato l’Agro Pontino, che con lui i treni passavano in orario e si poteva dormire con la porta aperta. E soprattutto, che Mussolini non era come Hitler, quello cattivo. Rinunciare alla verità e circondarsi di una storia fittizia significa rinunciare alla libertà, per non pagare le conseguenze morali delle tragedie. Ed eccoli, che si ricoprono di un patriottismo appariscente e menzognero – come possono dire di amare la loro patria, se scambierebbero la sua (e la loro) libertà per dei treni in orario? -, che preferiscono tacere sui massacri compiuti dal loro dittatore, che l’importante è avere una sicurezza apparente, mentre dietro al muro della propaganda il loro Paese e la loro gente muore. Chi oggi ha deciso di non fermarsi a commemorare chi ha combattutto strenuamente per la liberazione e per la libertà, chi è caduto, chi ha perso tutto, chi ha resistito, chi può ancora raccontarlo, non fa torto ai milioni di italiani che sono scesi in piazza, hanno attaccato una bandiera o hanno semplicemente dedicato cinque minuti al ricordo. Fanno torto alla loro libertà, sottoscrivendone la rinuncia.
Oggi Salvini, il nostro Ministro dell’Interno, ha voluto opporre la commemorazione della Resistenza con la guerra contro la mafia, che è un po’ come ripetere che Mussolini ha fatto anche cose buone, quindi meglio dedicarsi ad altro. Tanti sindaci, soprattutto nel Nord Italia, in quegli stessi territori in cui il 25 aprile ha avuto inizio e fine, hanno rinunciato a celebrare manifestazioni pubbliche, calpestando la memoria della storia. Senza storia, senza memoria, senza verità non potremmo avere la libertà – in greco la parola verità,
aletheia (ἀλήθεια), letteralmente significa “non dimenticato”.

Ma, al contrario di chi dimentica, dimenticando una parte di sé, chi combatte per la libertà combatte per la libertà di tutti, anche di coloro che dimenticano, e che solo per questo possono permettersi di farlo.

Martina Moscogiuri