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Revenge porn: non siamo figurine

È di ormai un anno fa l’articolo del giornalista Simone Fontana su Wired Italia dal titolo “Dentro il più grande network italiano di revenge porn, su Telegram”.

Questo articolo è datato infatti al 3 aprile 2020.
Prima di questa data, sapevo cosa fosse quello che comunemente (ed erroneamente) viene definito “revenge porn”, ma non pensavo che così tanti uomini fossero in grado di compiere reati giorno dopo giorno, ogni giorno.

Dico “erroneamente” perché “porno vendetta”  vorrebbe significare che la vittima si trova in questa situazione perché colpevole di qualcosa, per cui viene “punita” e questa è una narrazione tossica e invalidante. Non c’è vendetta. C’è reato.

Ma prima di un anno fa io credevo, ingenuamente, fosse semplicemente l’eccezione e non un’abitudine quotidiana. 

Si parlava di più di 40mila uomini che ogni giorno mettevano (mettono) in scena il rito collettivo dello stupro virtuale di gruppo.

In questi gruppi ci sono  foto di ex, di attuali ragazze, ma anche pedopornografia, foto rubate dai canali social di tante ragazze, in uno spazio online accessibile a chiunque. Per di più come se fosse normale, come se non si stesse facendo niente di male. E invece alla base c’è quella cultura dello stupro tossica e velenosa.
La cultura, che in realtà dovrebbe essere un qualcosa di positivo e che dovrebbe far crescere ognuno e ognuna di noi, invece questi modus operandi sono così tanto normalizzati che si sono appropriati di un termine così pulito e buono come “cultura”.

Una continua esposizione non richiesta, dove alla base non c’è consenso; sei lì dentro in pasto ad una marea di animali scalmanati senza rispetto (con tutto il rispetto per gli animali, si intende!), che per di più, in ogni caso stanno commettendo un reato, nello specifico chi commette questo reato (nello specifico) viene punito  con la reclusione da uno a sei anni e con la multa da euro 5.000 a euro 15.000.

E questi uomini possono essere i nostri partner, i nostri papà, i nostri fratelli, i nostri vicini di casa, i nostri amici. Attuano tutto questo non rendendosi conto che possono rovinare la vita di altre persone e che possono davvero causare male, o semplicemente che stanno facendo qualcosa di sbagliato, perché sono stati abituati così, sin da ragazzini nel gruppo del calcetto (per dirla con un pregiudizio): le donne sono figurine, sono oggetto, sono cornice muta, sono un packaging e ci facciamo ciò che vogliamo.
Così vengono educati.
E noi donne veniamo educate a doverci proteggere, tutelare, perché semmai dovessimo subire una violenza verremmo ricoperte da victim blaming, quando in realtà non c’è niente da colpevolizzare.

Non si tratta solo di foto inviate privatamente, e che quindi dovevano rimanere private, ma anche di foto rubate dai social (questo non vuol dire di dominio pubblico), foto di ragazze svestite tramite app, semplici selfie di bambine molto piccole.

Ci racconta la sua esperienza, Silvia (silviaesse.it), vittima di tutto questo.

“Le mie foto pubblicate su Instagram vengono divulgate sui famosi gruppi Telegram.

Tantissime foto e ad ogni foto corrispondeva un commento tipo “Che troia de merda ao magari quer frocio de tu padre te fa er delitto d’onore mortacci tua diabetica puttana der cazzo”, ma non solo, viene anche stilata una lista con altre ragazze, dovevano darci un voto, un voto per chi fosse più “stuprabile”.

Non c’ero solo io, c’erano tantissime ragazze come me e come me stavano subendo una violenza che rientra sotto il Revenge Porn, le nostre foto erano state prese senza il nostro consenso anche se di dominio pubblico. Qui vorrei sottolineare che non è assolutamente lecito prendere una foto, anche se sui social, e farne ciò che si vuole, si sta andando ugualmente contro la legge.

Ragazze, bambine, persone trans, persone omosessuali, persone disabili, razzismo, fascismo, misoginia, maschilismo, sessismo, tutto concentrato in un solo gruppo.

Sono stata avvisata da una mia amica che mi ha mandato gli screen e in pochissimo tempo, anche altre persone, persone che non conosco, mi hanno contattata per dirmi questo.

Una valanga d’odio che mi ha schiacciata, mi mancava l’aria. Sono stati giorni difficili. Non riuscivo a muovermi.

Il tempo, la consapevolezza, aver chiesto aiuto e aver ricevuto amore mi hanno aiutata.

Non ho ancora dimenticato quella sensazione, quel nodo alla gola, quel dolore, quella paura.

Vorrei solo dire che se un giorno dovesse capitarti mi dispiace, mi dispiace tanto e che non sei obbligatu a fare niente, prenditi il tuo tempo e spazio.” Cosa fare quando  si subisce una violenza simile:

Agisci in silenzio. Non entrare nei gruppi, non divulgare info su questi gruppi come ad esempio il nome, così potresti allargare il bacino di utenti che potrebbero entrare a farne parte;

Recati alla polizia postale, controlla gli orari prima sul sito ufficiale;

Prima di fare la denuncia devi stampare gli screen dei messaggi e delle foto oppure metterlo in una chiavetta;

Se non puoi recarti personalmente alla polizia postale, puoi fare la denuncia dal tuo computer andando sul sito ufficiale della Polizia Postale e andando nella sezione “Segnalazioni online”, compilando tutti i dati richiesti;

Puoi anche contattare diverse associazioni che ti possono aiutare come Odiareticosta.

Inoltre…
Non sentirti in colpa, non hai colpe, di nessun genere. Anche se verrai giudicata ingiustamente, verrai ricoperta da colpe che non ti appartengono, anche a causa del fenomeno del doppio standard. Non sei tu che hai commesso un reato.
Autodeterminati sempre.
Non accumulare stress emotivo, prova a stare con persone che ti fanno sentire al sicuro.
Se non ti va di parlarne non forzarti, se ti va prova a sensibilizzare.
Cerca supporto e aiuto.
Non dare credito a chi dice che denunciare non serve a nulla.
Riprenditi il tuo corpo che è solo tuo, puoi farcela! 

Vanessa Putignano

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Cultura dello stupro: la gerarchia della violenza di genere (pt. II)

Clicca qui per leggere la prima parte dell’articolo.

Femminicidio: la punizione per aver rifiutato gli standard patriarcali

femminicidio
/fem·mi·ni·cì·dio/
sostantivo maschile

Qualsiasi forma di violenza esercitata sistematicamente sulle donne in nome di una sovrastruttura ideologica di matrice patriarcale, allo scopo di perpetuarne la subordinazione e di annientarne l’identità attraverso l’assoggettamento fisico o psicologico, fino alla schiavitù o alla morte. Il termine femminicidio fa uscire il fumo dalle orecchie a tanta gente che lo vede come una sorta di discriminazione nei confronti degli uomini. Si sente spesso dire “La morte di una donna per mano del compagno non è più importante di un uomo morto sul posto di lavoro”. Attenzione: qui nessuno sta cercando di creare una gerarchia dei morti. Il termine “femminicidio” sta ad indicare il movente dell’omicidio: una donna che viene uccisa in quanto donna. Il femminicidio comprende tutti quegli omicidi in cui un uomo (partner, compagno, marito, fratello, amico, uomo rifiutato etc) uccide una donna che ha osato riprendersi la sua libertà. Dunque, non tutte le donne che vengono uccise sono vittime di femminicidi. Il termine femminicidio ammette che ci sia un problema di sistema: non si tratta di omicidi generici, c’è una matrice patriarcale e misogina all’origine. Il concetto stesso di femminicidio implica che ci sia disparità di genere in una società. Quindi, quando urlate alla discriminazione maschile ogni volta che sentite il termine femminicidio, riflettete su quanto siete fortunati riguardo al fatto che non esista un corrispettivo maschile. E se credete che un termine specifico per il nostro omicidio in quanto donne sia un privilegio, ve lo concediamo volentieri.

La violenza di genere rappresentata dai media

Qual è il mezzo che permette di alimentare al meglio questo tipo di cultura? I media, naturalmente. Le testate giornalistiche mainstream italiane sono totalmente impreparate sulle questioni di genere. “Raptus di gelosia”, “Donna uccisa dal marito: lei non puliva né cucinava”, “Il gigante buono”, “La uccide perché la ama troppo”, “Ragazzine ubriache fradicie violentate dall’amichetto”. Questi sono solo alcuni esempi dei migliaia di titoli che riportano notizie di femminicidi e violenze sessuali. Converrete con me che è agghiacciante: titoli di questo tipo, in un paese egualitario sarebbero inammissibili, ma è evidente che in Italia siamo ancora indietro sulle questioni di genere. I media sono l’espressione della società in cui viviamo: disinformata, che non analizza le vicende, né riflette sulle conseguenze delle proprie azioni. Ci avete mai pensato a come si sente una survivor che legge un titolo del genere? Doppia violenza: prima da parte del suo abuser e in seguito da parte dei media. In relazione al caso Genovese, i media si sono sbizzarriti nel dipingerlo come un genio, il mago delle start up, un grande uomo d’affari che ora, poverino, dovrà fermare la sua attività perché ha stuprato una modella per ore! Ma non è la prima volta. Non è affatto raro che i giornali, ad esempio, per narrare la vicenda di un femminicidio, dopo aver dato un movente totalmente errato dell’omicidio (raptus di gelosia docet), descrivano l’omicida come un “marito devoto e padre amorevole”, quasi come se volessero far empatizzare il pubblico con l’assassino. Gli stessi giornali che, sulle pagine dei social network, non disattivano mai i commenti sotto i post delle notizie di femminicidi e altre violenze di genere. Come se si potesse avere un’opinione “diversa” sulla violenza. Sembrerà stupido e di poco conto, ma così facendo si legittima la possibilità di esprimere la propria idea su un fatto oggettivo che tutti dovrebbero condannare. Non si tratta di censura, ma di buon senso: non ci deve essere nessuna libertà di espressione sulla violenza, perché è questo che incoraggia il victim blaiming e lo slut shaming che nei commenti non mancano mai, e che a loro volta, incoraggiano la cultura dello stupro. Ma non è tutto: le testate giornalistiche, così come i loro assidui commentatori, non disdegnano la minimizzazione della violenza né la colpevolizzazione della vittima. “Il deejay con il vizietto”: è così che Il Mattino si riferisce a un deejay che ha stuprato per ore una donna. Perché lo stupro è un vizietto, non il frutto di un problema sistemico e culturale! O vogliamo parlare di Feltri che in prima pagina ci propone il titolo “Ingenua la ragazza stuprata da Genovese”, come se andare a un festino ed entrare in camera con un uomo gli desse il permesso di violentarla! E giù di victim blaiming. Ma del resto, parliamo di Libero, che con titoli e articoli discutibili, ci convive da tempo ormai. Purtroppo questi titoli non sono affatto l’eccezione, ma la regola, altrimenti non staremmo parlando di problema sistemico. C’è una forte ignoranza in materia di violenza di genere (ma in generale, riguardo le discriminazioni sociali) da parte dei media e questo non fa altro che fomentare la cultura dello stupro, poiché i tg e i giornali esprimono ciò che pensa l’opinione pubblica, ed è inconcepibile che si pensi che lo stupro possa essere provocato o che il femminicidio sia causato da un eccesso di gelosia improvvisa.

Per tutti coloro che saranno arrivati alla fine dell’articolo ancora convinti che il femminismo in Italia non serva più e che il termine femminicidio sia una forma di sessismo verso gli uomini, c’è altro da dire: le denunce. Le donne non vengono incoraggiate a denunciare per mille motivi: non ci sono prove, temono di non essere credute, l’iter da seguire è troppo lungo. Spesso sono anche gli stessi poliziotti a dissuadere la donne dalla denuncia. Rendiamoci conto: poliziotti, che dovrebbero esprimere autorità e sicurezza, rendono ancora più difficile (e talvolta umiliante) la denuncia. Anche da questo si può notare che è un problema culturale e soprattutto a livello di sistema: le forze dell’ordine sono esse stesse il sistema.

Noi abbiamo bisogno del femminismo. Sono anni che veniamo uccise, molestate e stuprate. L’abolizione del matrimonio riparatore e del delitto d’onore, così come gli altri diritti, non ci è stata certo concessa gentilmente. Il femminismo non è silenzioso (come piacerebbe al giornale “La Verità”), né tutto rose e fiori, è un movimento rivoluzionario che punta a sradicare la società per costruirne una il più paritario possibile. Non riuscirete a silenziarci, sebbene siano anni che ci proviate. Nel 2020 il femminismo è più vivo che mai, pronto a far crollare le vostre certezze. E alcune femministe sono arrabbiate, ma dopo millenni di patriarcato non potete biasimarci.

Giorgia Brunetti

Cultura dello stupro: la gerarchia della violenza di genere (pt. I)

Lady Gaga, Rihanna, Halle Berry, Madonna, Asia Argento, Kesha, Loredana Bertè. Tutte queste donne hanno qualcosa in comune: hanno subito abusi e violenze da parte di uomini di cui si fidavano. La violenza sessuale è un’esperienza che accomuna quasi tutte le donne del mondo. Non a caso, tempo fa leggevo sui social un tweet “ogni donna ne conosce un’altra che ha subito violenza, ma nessun uomo conosce uno stupratore”.

Alberto Genovese era un imprenditore milanese che spesso organizzava dei party a casa sua. A queste feste partecipava tanta gente, finché non è venuto fuori lo scandalo. L’imprenditore stupra, tortura e filma una modella diciottenne per 20 ore di fila. Un uomo fa la guardia fuori dalla porta della sua stanza dove si consuma la violenza. Sembra quasi un thriller, uno di quelli dove c’è un serial killer psicopatico che stupra e uccide le donne perché ha un conflitto irrisolto con la sua ex fidanzatina del liceo. O con sua madre, e quindi punisce tutte le donne che le somigliano. Ma è tutto vero, e purtroppo per Alberto, non si tratta di psicopatia (anche se forse lui preferirebbe così, perché in tal caso potrebbero diminuirgli la pena per infermità mentale). Ovviamente, lui non ci ha pensato due volte a investire il suo denaro in ottimi avvocati. “Sono vittima della droga” è stata la sua prima reazione alle accuse, e tutto ciò è molto curioso, perché in nessun libro di psicologia clinica viene citato lo stupro tra i sintomi dell’abuso di sostanze stupefacenti. Lo sappiamo tutti, Alberto non è vittima della droga, così come non lo è della situazione, né tantomeno del sistema: è ricco, un imprenditore perfettamente integrato nella società. “Un figlio sano del patriarcato”, vi direbbe una femminista. Cresciuto perfettamente come la società patriarcale voleva. Il caso Genovese è particolarmente emblematico per analizzare a fondo la questione della violenza di genere. È molto facile immaginarsi lo scenario: un uomo ricco organizza delle feste, a cui partecipano molte persone, tante modelle. Alcune di loro vogliono divertirsi, altre probabilmente vogliono sbarcare il lunario nel mondo della moda sperando che un imprenditore le metta in contatto con le persone giuste. Per certi versi ricorda il caso Brizzi: il regista che organizzava dei provini per delle attrici, prometteva loro di metterle in contatto con delle agenzie. Dopo di che, il provino comprendeva una sorta di contatto sessuale. Ovviamente, dopo il “provino” non c’era nessuna chiamata a nessuna agenzia. Questi due uomini hanno qualcosa in comune: un grande ego direttamente proporzionale al potere che esercitano. Perché il problema sta tutto lì: è una questione di potere.

La violenza machista come espressione di potere

Non sono certo rari gli uomini potenti accusati di molestie sessuali. Donald Trump, Harvey Weinstein, Roger Ailes, Jeffrey Epstein, ecco alcuni nomi. Sono accecati dal loro potere, credono di avere il mondo nelle loro mani. E le donne sono comprese in quel mondo che loro possiedono. La maggior parte delle violenze sessuale nei confronti delle donne o di uomini avviene per mano di altri uomini. Sorge spontaneo chiedersi: perché? Cosa spinge una persona a esercitare una violenza sessuale? Lo stupro è, al contrario di come molti credono, un’affermazione di potere o in molti casi un metodo per umiliare la vittima. Dunque, il contatto o il sesso (non consensuale) sono solo i mezzi che permettono di esercitare questo tipo di potere. Ed è innegabile che gli uomini si trovino parecchi gradini più in alto rispetto alle donne nella gerarchia sociale. E se questo avviene tra persone comuni, non sarà difficile immaginare che più si sale di livello nella società, maggiore sarà il potere degli uomini. Perciò non c’è da stupirsi se un ricco imprenditore che stupra e tortura una ragazza per ore e ore trovera comunque qualcuno che lo difenderá: potere, denaro e privilegi gli permetteranno di uscirne il più pulito possibile. Avete capito bene: privilegi. Il privilegio è un vantaggio sociale. Nella società patriarcale occidentale la posizione più privilegiata possibile è quella del maschio bianco, etero, cisgender, abile e benestante. Attenzione: privilegio non significa non avere problemi nella vita. È indubbio che anche le persone più privilegiate possano avere una vita dura, ma avere un vantaggio sociale significa che alcuni aspetti della sua identità (genere, etnia, orientamento sessuale, etc) non influiranno mai negativamente sulla sua esistenza. Quindi, al posto di accusare il femminismo di colpevolizzarvi per il semplice fatto che vi pone davanti agli occhi la realtà dei fatti, sarebbe arrivato il momento di fare un’associazione tra posizione privilegiata nella società e violenza di genere. È arrivata l’ora di riflettere sulla fallace educazione che ci viene inculcata fin da quando siamo piccoli e sul perché gli stupratori sono sempre perfettamente a proprio agio con un tipo di cultura che sottomette le donne.

Cos’è la cultura dello stupro?

“Cultura dello stupro è il termine usato a partire dagli studi di genere dalla letteratura femminista e postmoderna, per analizzare e descrivere una cultura nella quale lo stupro e altre forme di violenza sessuale sono comuni, e in cui gli atteggiamenti prevalenti, le norme, le pratiche e atteggiamenti dei media, normalizzano, giustificano, o incoraggiano lo stupro e altre violenze sulle donne” (fonte: Wikipedia). Proviamo a pensare alla cultura dello stupro come se fosse una piramide. Alla base della piramide vi sono le discriminazioni sessiste più “lievi”. In primis vi è lo slutshaming, ovvero una pratica che consiste nel discriminare una donna che ha desideri ed una vita sessuale attiva. Lo slutshaming si esprime solitamente attraverso i tipici epiteti patriarcali e volgari usati per insultare le donne (ing. slut). C’è da dire che termini del genere sono ormai di uso comune nella vita di tutti i giorni e vengono spesso utilizzati anche per insultare donne in contesti che non hanno nulla a che vedere con la loro vita sessuale. Inutile dire che il corrispettivo di “troia” non esiste al maschile poiché la sessualità maschile è sempre stata incoraggiata, a dispetto di quella femminile che per secoli è stata ignorata, controllata dagli uomini e demonizzata dalle religioni monoteiste. Lo slutshaming è una forma di discriminazione molto comune, dubito fortemente che esistano donne che non siano mai state appellate in quel modo.

Oltre allo slutshaming, alla base della piramide troviamo il victim blaming, cioè la colpevolizzazione della vittima nei casi di stupro o molestie sessuali. Alcuni esempi: “te la sei cercata!”, “eh, ma vestita così cosa ti aspettavi?”, “se ti ubriachi e ti comporti da tr*ia, poi non ti puoi lamentare se ti stuprano!”; insomma, affermazioni terribili che non fanno altro che deresponsabilizzare il colpevole della violenza commessa, perché per il patriatcato è sempre più comodo ammonire e giudicare le donne per la loro libertà piuttosto che educare gli uomini.

Sempre allo stesso gradino troviamo i cosiddetti rape jokes, ovvero gli “scherzi sullo stupro”. Attualmente, l’ironia è oggetto di dibattito. Esistono tanti tipi di umorismo, negli ultimi anni si sta diffondendo il black humour (letteralmente umorismo nero), ovvero fare ironia su argomenti spinosi quali religione, politica, razzismo, omofobia, sessismo. E sullo stupro, anche. L’ironia è soggettiva e ognuno ha a cuore degli argomenti su cui preferisce non scherzare. Purtroppo però, in una cultura come la nostra, i rape jokes vengono normalizzati, come se fossero alla stregua delle battute di Colorado. Nessuno che pensa mai a come possa sentirsi una survivor che legge una battuta sullo stupro. Nessuno che pensa al suo dolore, quello non interessa mai a nessuno, la “libertà di espressione” degli uomini viene sempre posta prima dei sentimenti delle donne. Negli ultimi anni, alcune comiche statunitensi hanno cercato di rivoluzionare il concetto di rape jokes indirizzando la natura satirica della battuta verso gli abuser o coloro che colpevolizzano lo stupro, e non verso la survivor.

Salendo leggermente nella piramide troviamo il catcalling, le molestie e dall’avvento dei social anche le “dickpic” non richieste. Le dickpic sono le foto dei genitali maschili. Qualsiasi ragazza con un account Instagram si sarà trovata almeno una volta nella vita una foto del genere nei DM – ovviamente non richiesta, altrimenti non staremmo parlando di molestie. La dinamica è sempre la stessa: nella stragrande maggioranza dei casi si tratta di profili fake senza la foto profilo (chissà, forse si vergognano anche loro di ciò che fanno), con un nome utente che ricorda un codice fiscale e naturalmente con 0 followers e 0 post. Solitamente iniziano la conversazione con un “hey” (ma nel peggiore dei casi vanno dritti al sodo) e dopo un paio di messaggi iniziano le prime domande intime senza che nessuno gli abbia dato il permesso. Dopodiché, ti ritrovi le loro parti basse in chat. Che tu lo abbia chiesto o no, a loro non importa assolutamente.

Il catcalling, invece, consiste nel suonare il clacson, fare apprezzamenti non richiesti e fischiare (come se fossimo dei cani) alle sconosciute per strada. Molte persone stentano ancora a riconoscerlo come una molestia. “Ma quindi ora non possiamo nemmeno fare i complimenti a una ragazza che incontriamo per strada?” beh, a me non risulta che le donne di solito suonino il clacson urlando volgaritá dal finestrino della macchina ogni volta che vedono passare un uomo, quindi non vedo perché dobbiate sentirvi in diritto di esprimere i vostri gusti mettendo a disagio la vostra interlocutrice. Nel concetto di molestie, oltre alle dickpic non richieste e al catcalling, rientra qualsiasi tipo di contatto sessuale non richiesto.

Salendo di livello nella piramide, aumenta la gravità delle molestie. Troviamo il revenge porn, lo stealthing e la coercizione sessuale. Il revenge porn non ci è nuovo, si tratta della condivisione di materiale intimo non consenziente, e ovviamente le maggiori vittime di questa pratica sono le donne, la cui vita viene rovinata da uno stigma sociale che impedisce loro di avere una vita sessuale libera e soddisfacente, come nel caso della maestra di Torino.

Lo stealthing invece è una pratica che consiste nella rimozione del preservativo durante il rapporto a insaputa del partner. Di questo argomento si parla ancora poco, e anzi, da pochissimo ha iniziato a essere considerato come una forma di molestia negli ambienti femministi. Inutile dire che, oltre ad essere una mancanza di rispetto e di consenso per le volontà della donna, è anche dannoso per un eventuale rischio di gravidanze indesiderate e di trasmissione di malattie veneree di cui l’altra persona che partecipa al rapporto non è consapevole.

La coercizione sessuale è una forma di costrizione a un rapporto sessuale che implica la mancanza di un consenso scevro da pressioni psicologiche. Quindi, sia costringere una persona a fare sesso, sia ricattarla che metterla sotto pressione per far sì che accetti equivale a molestarla, poiché il consenso va espresso liberamente sempre e comunque.

La violenza di genere, in particolare lo stupro, che si trova quasi sulla sommità della piramide, oltre che un metodo di affermazione del potere e umiliazione, è anche un mezzo di punizione. Basti pensare a donne come Laura Boldrini, Carola Rackete, Greta Thunberg, Silvia Romano. Tutte donne che non hanno saputo restare ai posti che la società patriarcale ha imposto loro. Gettate in pasto a continue gogne mediatiche dai politici sovranisti e ogni volta i commenti erano sempre gli stessi: insulti sul loro aspetto fisico, slutshaming, e gli immancabili auguri di stupro. Il concetto di stupro è totalmente normalizzato tanto da venir usato come augurio nei confronti di una donna che troviamo poco simpatica (e poco vicina ai ruoli di genere, naturalmente): dai, magari un pene infilato nella sua vagina di prepotenza la rimetterà al suo posto e comincerà ad abbassare la cresta questa tr*ia! Ah, sfatiamo un falso mito: lo stupro non è causato da nessun impulso irrefrenabile dell’uomo, non ha niente a che vedere con dei presunti ormoni impazziti. Questa narrazione tossica della violenza sessuale non fa altro che rinforzare il concetto dell’uomo animalesco che sa ragionare solo con i genitali e che impazzisce quando vede delle gambe nude spuntare sotto una minigonna. Narrazione totalmente in linea con il patriarcato, visto che non fa altro che giustificare gli uomini per le loro violenze perché “non si sanno controllare”. Gli uomini sono dotati di intelletto, se stuprano non è perché hanno un eccesso di testosterone, ma perché sanno di poterlo fare. E infine, avvicinandoci alla punta della piramide abbiamo la massima espressione della violenza di genere: il femminicidio.

Clicca qui per leggere la seconda parte dell’articolo.

Giorgia Brunetti

Fonti:

Revenge porn: mettiamo a nudo la questione

Durante la Prima Guerra Mondiale, gli innamorati si scambiavano epistole, oggi ci inviamo i nudes. Dall’avvento dei social network, e in particolare delle app di messaggistica, non solo il modo di comunicare è stato totalmente rivoluzionato, ma anche l’espressione della propria sessualità ha subito profondi cambiamenti. Già, è finito il tempo delle lettere e dei pomeriggi passati attaccati alla cornetta del telefono fisso: oggi abbiamo il sexting. Il sexting consiste nello scambiarsi messaggi “hot” e materiale erotico (foto/video). Equivale, quindi, a fare sesso virtualmente. Dunque, allo stesso modo del sesso, è un momento intimo condiviso tra due persone consenzienti (o più di due, nel caso dei rapporti poliamorosi). Purtroppo, però, nel sexting non sempre tutto fila liscio come l’olio, soprattutto se si è donne. Essere una donna sessualmente libera nel 2020, in Italia, è ancora un taboo. Proprio per questo motivo la libertà sessuale può essere considerata un atto di rivoluzione politica.

Siamo a Torino. Una maestra d’asilo e un calciatore iniziano a frequentarsi, finché si viene a creare il contesto ideale per il sexting e la ragazza decide di inviargli un video intimo. A quel punto, il ragazzo invia il video sul gruppo di calcetto. Il video finisce tra le mani della moglie di uno dei ragazzi del calcetto, che riconosce la donna (era l’insegnante di suo figlio). Dopodiché, il video fa il giro del mondo e arriva nelle chat delle altre mamme. La maestra riceve minacce e intimidazioni dalle mamme. Al culmine di tutto ciò, la preside riceve il video e licenzia la ragazza.

Questa storia è tragica ed emblematica per la questione “revenge porn” se la si osserva sotto vari aspetti. Sì, perché appena dopo la vicenda, varie testate giornalistiche hanno postato la notizia sui social e sono fioccati commenti in stile victim blaiming nei quali i vari “tuttologi del web” si sono sentiti in diritto di esprimere il loro disappunto nei confronti della maestra che secondo loro “se l’è cercata”. E non solo: basti pensare alle mamme e la preside che, in barba alla solidarietà tra donne, hanno deciso, rispettivamente, le prima di diffamarla e la seconda di licenziarla. Ma non finisce qui: l’avvocato del ragazzo che ha diffuso per primo le foto ha minimizzato la questione a “un gesto fatto senza voler ferire”. E infine, ciliegina sulla torta: La Stampa dà voce a uno degli accusati, presente nel gruppo di calcetto, che afferma che “se mandi filmati osè devi mettere in conto il rischio che qualcuno li divulghi”; e ancora “non posso tollerare che chi si occupa dei miei figli faccia determinate cose” (cioè, quali cose? Sesso? Se il signore la pensa così, forse non dovrebbe nemmeno averli, dei figli…). Sempre lo stesso accusato ha semplificato il tutto a un semplice atto di “goliardia”.

“Boys will be boys but girls will be women”

Goliardia. Non è la prima volta che si abusa di questo termine quando non si riesce a capire la gravità e la matrice culturale del problema che si ha di fronte. Infatti, uno dei punti cardine del patriarcato è proprio aspettarsi che gli uomini siano eterni bambinoni, in modo da poter giustificare qualsiasi loro azione, anche le più sconsiderate, come in questo caso. Il famoso “boys will be boys”. Mentre dalle donne, fin dalla tenera età, ci si aspetta compostezza e maturità. Non è un caso che, quando una donna ha le sue prime mestruazioni, le venga detto “ora sei diventata signorina!”: per lei finisce l’infanzia, è tempo di maturare e di cominciare ad addossarsi tutte le colpe degli uomini. Ed è esattamente la situazione che ritroviamo analizzando la vicenda di Torino: una donna, padrona della sua sessualità, subisce una violenza di genere, ma il suo carnefice viene deresponsabilizzato. Lui può permetterselo, perché essendo nato uomo può continuare ad incarnare l’eterno bambinone immaturo e senza responsabilità sopracitato, mentre lei si merita la gogna per aver sfidato le regole della sessualità femminile imposte dal patriarcato. Questo è, dunque, ciò che viene chiamato “victimg blaiming”, ovvero la colpevolizzazione della vittima. Meccanismo subdolo che, non di certo per caso, viene adottato dall’individuo medio per approcciarsi ai casi di violenza di genere, in particolare quando si tratta di abusi e molestie sessuali. Chiedetevi se applichereste mai il victim blaiming ai casi di omicidio o furto: ovviamente non lo fareste, perché è un meccanismo nato apposta per umiliare e condannare le donne nonostante siano loro ad aver subito una violenza. Il victim blaiming è efficiente allo status quo, quindi va abolito e sradicato.

Non siamo state create dalla costola dell’uomo

In Italia, il revenge porn è diventato reato dal 19 luglio 2019, la pena prevede la reclusione da uno a sei anni e una multa da 5000 a 15.000€. Il carnefice ha risarcito la donna e ora sconterà un anno di lavori socialmente utili. Purtroppo, sarà la vittima a pagare il prezzo più alto della “goliardata” machista del suo ragazzo. E non finisce qui, perché il suo ragazzo, gli amici del calcetto e le altre mamme non sono state le uniche persone a violare la sua privacy: è proprio in questi giorni che gli oggetti di ricerca in tendenza su PornHub sono “maestra d’asilo” e “maestra italiana”. Questo significa che un numero copioso di utenti della piattaforma di porno mainstream più famosa al mondo ha digitato più volte sulla barra di ricerca il suo nominativo alla ricerca di un video condiviso non consensualmente. E questo deve far riflettere, perché su PornHub si trovano video di ogni tipo e per tutti i gusti, quindi se migliaia di persone hanno deciso di cercare un oggetto specifico – che, ribadiamo, era un video condiviso senza il consenso della protagonista – significa che la violenza di genere reale li eccita più della finzione. Perché guardare un video privato, proibito, su cui la persona che l’ha girato non ha più il controllo, fa sentire potenti quegli uomini piccoli, con un ego fragile, che credono che le donne siano degli oggetti sessuali creati per il loro piacere. Cosa credete abbia spinto il carnefice della storia di Torino a condividere il video della sua ragazza? Lui voleva esporla ai suoi amici come se fosse un trofeo – appunto, un oggetto – per potersene vantare. È sempre stato così, fin dall’alba dei tempi. Non è un caso che Eva sia stata creata dalla costola di Adamo: lei era il suo oggetto, nata solo ed appositamente per soddisfare i suoi bisogni e piaceri, per fargli compagnia. Anche durante le guerre avviene un fenomeno crudele: gli stupri di guerra. Il popolo vincitore, per affermare il suo potere sui vinti, compie degli orribili stupri a danno delle donne del popolo sconfitto (non solo, spesso anche a danno di bambini e uomini). E questo perché? Perché lo stupro è un mezzo di affermazione della propria autorità (solitamente maschile, ma non solo) su una persona che si trova più in basso nella gerarchia sociale (nella maggior parte dei casi donne, ma spesso anche altri uomini). Dunque, nel revenge porn, come nello stupro, la vittima diventa un oggetto agli occhi maschili. Che sia un oggetto da umiliare o da esporre come un trofeo, in entrambi i casi subentra la forte disparità di potere sociale tra uomini e donne.

Sorelle di genere, nemiche per scelta

Questa vicenda si differenzia dalle altre violenze di genere per un particolare: i carnefici non erano tutti uomini. Infatti, dopo che il video della maestra è stato inoltrato nella chat del calcetto, è finito tra le mani di una delle mamme dei bambini a cui insegnava. Lei l’ha inoltrato alle altre mamme, che l’hanno minacciata. In qualche modo, il video è arrivato nella chat della preside che ha deciso di licenziarla. Oggi si dice spesso che “le peggiori nemiche delle donne sono altre donne” e questa storia sembrerebbe confermarlo. Ma è davvero così? Sebbene molte persone credano che la competizione femminile sia innata, la realtà dei fatti è un po’ più complessa: siamo tutte e tutti immersi nella cultura patriarcale, ne subiamo una profonda influenza fin dalla nascita, fin da quando, appena nati, ci fanno indossare la tutina del colore stereotipicamente associato al nostro genere, dando per scontato che, crescendo, rispetteremo aspettative e ruoli di genere ben precisi. Alle bambine viene insegnato fin da piccole a competere fra di loro per l’attenzione maschile. Si sente spesso dire, ad esempio, che nelle classi scolastiche di sole donne c’è bisogno di un uomo che si ponga come mediatore di eventuali litigi femminili. Veniamo bombardate di concetti simili, da sempre. Ci convincono che saremo qualcuno solo se otterremo il consenso maschile, ed è questo che ci porta a competere fra di noi. La misoginia interiorizzata dalle donne è un meccanismo di adattamento alla società che le porta a denigrare ad altre donne, in modo da affermarsi su di loro e avvicinarsi il più possibile al genere maschile e da accedere ad alcuni privilegi. Il femminismo mira a smontare questa concezione errata delle donne competitive, perché non è quello che siamo, bensì quello che vogliono che noi siamo. La competizione tra donne è funzionale al mantenimento del patriarcato, perché è un metodo implicito per continuare a colpevolizzare il genere femminile. Ne è la conferma il fatto che si crede senza pensarci due volte allo stereotipo delle donne nemiche e competitive fra loro, ma quando si sposta il focus sulle responsabilità maschili si manifestano le prime esitazioni. Nessuno si sognerebbe mai di dire che gli uomini sono i nemici delle donne, e anzi, in tal caso si urlerebbe immediatamente al “sessismo inverso”: eppure i dati ci dicono che la violenza sulle donne perpetrata da uomini è un fenomeno sociale. Ovviamente, i nemici delle donne non sono gli uomini. È innegabile, però, che gli uomini abbiamo un maggior potere sociale: per questo, se fossero loro ad esporsi contro il patriarcato sarebbero paradossalmente più credibili di noi donne.

Né la prima né l’ultima vittima

Non è la prima volta che immagini private e intime vengono diffuse senza il consenso delle proprietarie. Pochi mesi fa è scoppiato lo scandalo dei famigerati gruppi su Telegram. In queste chat, gruppi di migliaia di uomini (e spesso anche donne) si scambiavano materiale pornografico non consensuale come se si trattasse delle figurine dei Calciatori Panini. Donne, inconsapevoli, che subivano veri e propri stupri virtuali. Su quei gruppi potrei essere finita io, o qualche mia amica, ed è uno dei prezzi da pagare per essere donne in una società patriarcale e misogina. E non è tutto: molte delle foto che venivano condivise erano semplici post presi da Instagram o dagli altri social network (che, oltretutto, in alcuni casi venivano spogliate con dei programmi appositi). Questo la dice lunga su come non siano la libertà sessuale e la nudità ad istigare gli uomini ad oggettificare le donne: nudes e foto di volti condividevano lo stesso oscuro destino sui gruppi di Telegram. La vicenda di Telegram mi colpì molto per un particolare. Gli uomini sui social continuavano a scrivere imperterriti “Not all men” in risposta alle femministe. La prima cosa che pensai è “non tutti gli uomini sono coinvolti e non tutte le donne sono finite sulle chat di Telegram. Eppure, molte di noi sono spaventate tanto da renderlo un problema di genere. Perché gli uomini non fanno lo stesso? Perché al posto di deresponsabilizzare e difendere a spada tratta il proprio genere di appartenenza non provano ad interrogarsi sul perché così tanti uomini – così tanti da rendere la violenza sulle donne un fenomeno sociale – si comportino in un certo modo?”

Ritornando al termine “goliardata”, è d’obbligo accennare il caso di Tiziana Cantone, ennesime vittima di revenge porn, la cui storia è terminata con il suicidio. Il ragazzo che ha deciso di gettare la maestra in pasto allo stigma sociale, ha mai pensato al dolore e al trauma psicologico che potrebbe averle causato? Se davvero le sue intenzioni fossero state goliardiche e innocue (“senza voler ferire” come ha dichiarato l’avvocato del diavolo), avrebbe quantomeno provato a fare un paragone con il caso Cantone. Perché una goliardata non ha nessun impatto psicologico e sociale sulla tua vita, il revenge porn sì.

Giorgia Brunetti

Fonti:

Nonseilibero

Nonseilibero è un movimento nato dall’iniziativa di Giulia, Eugenia, Alma e Lorenzo durante un momento così delicato come il lockdown. Per la prima volta abbiamo capito cosa ci fosse dietro qualcosa che ti priva della tua libertà. Attraverso la rete abbiamo voluto creare tutto questo. L’intento è quello di mobilitare una comunità virtuale che tratti l’argomento del revenge porn da più prospettive. L’idea parte dall’esigenza di sensibilizzare gli utenti sul consenso e sulla sessualità in rete.
@nonseilibero vuole raccontarti che siamo tutelati, che il revenge porn è un reato e che tu puoi fare qualcosa per neutralizzare questi comportamenti violenti (perché sì, lo sono). Allo stesso modo ci piace anche raccontare dove siamo liberi: infatti il movimento in cerca di evidenziare anche elementi positivi del consenso in rete. Ci sono tante cose che possiamo fare online: basta essere tutelati e tutelarsi!

Sarebbe bello leggessi il nostro manifesto visitando il nostro sito.

Giulia Olivieri

Come La disillusione abbiamo aderito alla campagna, quindi è nostra premura pubblicare qui di seguito il manifesto:

“Lo scorso 3 aprile scoppia lo scandalo del gruppo Telegram Stupro tua sorella 2.0, una chat in cui quasi 50 mila persone ogni giorno scambiavano foto, contatti e video di ex fidanzate, mogli, amiche e talvolta figlie, naturalmente senza il consenso delle interessate. 

Da qui nasce il bisogno di reagire. 

Prende così vita #NonSeiLibero, un movimento la cui idea alla base è quella di evidenziare come alcuni comportamenti, oggi molto diffusi su internet, possano avere delle conseguenze (per sé e gli altri) e talvolta essere soggetti a penalizzazione. Il claim della campagna fa riferimento ad una limitazione della libertà proprio per ricalcare l’esistenza di policy e norme che regolano i social network e in generale quasi tutto il mondo virtuale; ma non solo, è infatti necessario ribadire come l’abuso di libertà e il suo uso sconsiderato possano intaccare il benessere mentale degli utenti che ne sono vittime. 

L’obiettivo è dunque quello di accogliere e riunire coloro che si occupano di queste tematiche da tempo sotto la bandiera dell’hashtag #NonSeiLibero, al fine di creare una rete che condanni atteggiamenti e comportamenti discriminatori e nocivi sul web—ma che al contempo sia promotrice di una cultura positiva e responsabile, anche e soprattutto nell’ambito della sessualità. 

Pensiamo infatti che sia utile creare una rete di informazione che non si occupi solo delle restrizioni e dei limiti ma che promuova anche le potenzialità e le libertà di un utente, di una persona. 

Pertanto, un’altra finalità del progetto è introdurre il concetto di un uso consapevole ed etico del web con l’intento di incentivare la messa in atto di comportamenti genuini e propositivi e di alleggerire l’assurda colpa che solitamente pesa sulle vittime di abusi virtuali. 

Questa è la ragione che ci ha spinto a voler lanciare una campagna di sensibilizzazione sul tema del revenge porn, portando la riflessione su quali comportamenti rientrano in questo fenomeno che, dal 2019, è stato disciplinato dall’art.612–ter del Codice penale. 

Il lockdown che ci costringe in casa in questo periodo, ha limitato drasticamente le relazioni umane, relegandole quasi integralmente alla sfera virtuale. Ci accorgiamo così di quanto internet, e in particolare i social, siano ormai parte del nostro mondo comunicativo e relazionale. Proprio in questo momento è importante riflettere su cosa significano le parole “consenso” e “fiducia” nella rete e del ruolo che ha nelle relazioni interpersonali, amorose, amicali e occasionali. Ognuno dovrebbe poter essere libero di vivere la propria sessualità come desidera ed è per questo che, dopo tali avvenimenti, è importante fermarsi per riflettere e discutere di questi temi. 

È dunque fondamentale sottolineare come il caso Telegram rappresenti solo una delle tante forme di abuso virtuale esistenti oggi: sintomi di una cultura ancora acerba che necessita di un cambiamento radicale e, proprio per questo, di un’ampia informazione a riguardo. 

Infine, ci teniamo a sottolineare la natura umana di questo progetto: #NonSeiLibero è il risultato della comunione di ideali e pensieri di un gruppo di giovani e proprio per questo non ha pretesa altra se non quella di parlare direttamente alle persone e far sì che il messaggio sia il più possibile diffuso e, perché no, accolto. 

Siete quindi invitati a firmare insieme a noi questo Manifesto non solo per condividere un post ma anche sostenere un’idea di cambiamento.”

Giulia Olivieri
Lorenzo Ritorto
Alma Novelli
Eugenia Jona

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Sito: www.nonseilibero.it
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