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L’Italia è nata romana e cristiana: Gaio Giulio Cesare

Durante le Elezioni Europee dello scorso 26 maggio, tra i tanti candidati italiani dei tanti partiti, uno ha particolarmente colpito la mia attenzione (e quella di molti altri italiani).
Si tratta di Gaio Giulio Cesare Mussolini, un nome che riempie la bocca e rabbuia gli animi, in quanto proprio come suggerisce il cognome, è un pronipote del tristemente famoso Benito Mussolini, dittatore italiano dal 1922 al 1943.

Sentendo il suo nome non ho potuto fare a meno di pensare a come questo nome sia stato scelto, di come magari gli eredi di colui che voleva ergersi a novello Cesare d’Italia abbiano voluto omaggiare le nostre gloriose radici dando al proprio figlio il nome di uno dei condottieri più famosi della storia romana, precursore dell’impero e Pater Patriae per eccellenza.

E pensando a tutto ciò non ho potuto fare a meno di ridere internamente (e non) per una scelta così peculiare, perché tra tutti i grandi eroi di Roma hanno scelto uno dei personaggi più chiacchierati del I° secolo a.C. 

E no, non mi riferisco al suo aver conquistato la Gallia e aver attraversato il Rubicone, limes sacro, con il suo esercito scatenando una sanguinosa guerra civile, ma al fatto che i suoi soldati lo canzonassero bonariamente chiamandolo Regina di Bitinia, riferendosi alla sua chiacchieratissima relazione con Nicomede IV, re di Bitinia.

Questa non sarà la storia delle sue gesta già fin troppo famose e rielaborate, ma una breve introduzione all’uomo, la più grande e sottovalutata bisexual icon della storia.

Ma cominciamo da principio.

Il 12 o il 13 di Luglio del 100 o 101 a.C. (gli storici hanno difficoltà a collocare con esattezza la sua data di nascita, nel dubbio sappiamo solo che era del Cancro, n.d.a) nasce a Roma nel quartiere della Suburra Gaio Giulio Cesare, al secolo il Divo Iulio, da una antica famiglia patrizia, la gens Iulia, che vanta tra i suoi antenati nientemeno che Venere e Romolo.

Cresce nel periodo in cui imperversa il braccio di ferro politico e militare tra Lucio Cornelio Silla e Gaio Mario, che porterà poi all’elezione di Silla a dittatore a vita e alle prime di liste di proscrizione, pensate per purgare i suoi nemici politici e vendicarsi di Mario e dei suoi seguaci. Essendo nipote di Gaio Mario rischia la vita ma la scampa grazie all’intercessione delle vergini vestali e di suoi parenti molto potenti, come Aurelio Cotta.

Nutre forti ambizioni sin da giovane e dopo essere stato graziato con grossissime riserve da Silla, decide di apprendere l’arte militare al servizio del pretore Marco Minucio Termo.

Segue Termo in Asia e galeotto fu il praetor, lo manda in Bitinia in qualità di legato presso la corte di Nicomede IV. Vi resta più a lungo di quanto necessario e cominciano a girare voci su che tipo di relazione intercorresse tra il giovane e il sovrano, alimentate dal fatto che Cesare sia poi successivamente tornato nel regno con la scusa di dover ritirare del denaro.

Questo che per Svetonio è l’unica macchia della sua carriera militare, per tutta Roma è stata fonte inesauribile di battute e vere e proprie blastate ante litteram rivolte a Cesare da amici e nemici.

I suoi soldati lo acclamano come regina di Bitinia, Curione e Dolabella lo chiamano invece rivale  della regina di Bitinia, postribolo di Bitinia, sponda interna della lettiga reale. Il suo collega console, Bibulo, nei suoi editti esclama “la regina di Bitinia volle il re, ora vuole il regno”.

La mia preferita è senza dubbio l’elegante  alabarda – perché di frecciatina non si può parlare – che Cicerone gli lancia in occasione della spassionata difesa da parte di Cesare per Nisa, figlia di Nicomede, durante la quale ricorda i benefici avuti da quest’ultimo: “Passiamoci sopra, per carità, perché nessuno ignora che cosa hai avuto e che cosa gli hai dato!”. 

Potrei passare passare ore a riportare tutti i sagaci riferimenti alla sua (supposta?) relazione, ma vi basti sapere che morto Nicomede, la Bitinia viene lasciata in eredità proprio a Roma. 

Ma com’era quest’uomo stupefacente che suscitò tanto scalpore? 

Sempre Svetonio – che è stato un po’ l’Alfonso Signorini della Roma Imperiale – ce lo descrive come un uomo alto, dalla carnagione chiara e dai languidi occhi neri, con una calvizie che lo ha crucciato per tutta la vita, tant’è che nelle statue che ci sono arrivate possiamo chiaramente notare il riporto sul suo capo, segno distintivo di tutti i suoi ritratti dal più antico al più recente.

Curava molto la sua persona, tagliando con cura barba e capelli e facendosi persino depilare, e dopo i suoi trionfi, tra le tante onoreficenze che gli vennero concesse e dal popolo e dal senato apprezzò particolarmente quella di poter indossare una corona d’alloro in testa, ottima sia per la sua autostima sia per nascondere la sua calvizie.

Amava il lusso e l’eleganza, per questo indossava il laticlavio¹ con frange fino alle mani e si cingeva sopra di esso con una cintura un po’ allentata in vita e portava con sé pavimenti a intarsio e a mosaico fissati su dei pannelli, in modo tale da averli anche durante le campagne militari.

Non badava a spese per circondarsi degli schiavi più belli e colti (ma si vergognava delle grosse cifre che spendeva, tanto da non farle annotare) e vantava molteplici amanti, uomini e donne, in particolare tra le matrone dei personaggi più importanti dell’epoca anche di suoi avversari politici.

Uomo rigoroso ma generoso, Cesare dispensava doni cospicui a chiunque, dal più ignorato schiavo a importanti membri del Senato, si premurava di accogliere nel più sontuoso dei modi chiunque, da re a liberti, sobbarcandosi le spese di propria tasca (e contraendo perciò numerosi debiti). Concedeva inoltre prestiti senza o a basso interesse, tanto da diventare la speranza di tutti i disperatissimi di Roma.

I suoi affetti erano quelli ricevere più cure: se foste stati amici di Cesare,  vi avrebbe ricoperto di doni (come tutti) e premure; se foste stati suoi nemici, poiché non portava mai forti rancori salvo casi molto particolari, avreste potuto godere della sua generosità senza problemi.

Se invece foste stati suoi amanti vi avrebbe ricoperto di ricchezze, come accadde a Servilia, madre di Bruto che ricevette oltre ad una perla di sei milioni di sesterzi e una serie di proprietà di grande valore a costi irrisori. 

Insomma, sarebbe stato il daddy perfetto in questo periodo di crisi e tasse universitarie.

Durante le celebrazioni dei suoi trionfi di guerra, condonò l’affitto dei romani per un anno, distribuì carne e offrì banchetti sempre più maestosi e ricchi, per gli spettacoli ingaggiò i migliori gladiatori, organizzò naumachie e rappresentazioni teatrali di alto livello, viziando Roma per un po’ di tempo. 

Oltre a questa generosità però non bisogna dimenticare che si sta parlando di colui che fece mettere un suo ritratto tra gli dei, si fece dedicare da vivo un mese (Luglio per l’appunto), una portantina e un carro per portare la sua immagine durante le cerimonie del circo, altari, templi e l’appellativo “padre della patria”.

Quando ottenne la provincia della Gallia, forte dell’appoggio dei suoi parenti e del popolo, si vantò nella Curia di come fosse riuscito ad ottenere ciò che volesse nonostante le lacrime dei suoi nemici e che da allora avrebbe potuto marciare sulle loro teste. Quando un senatore  gli fece notare che per una donna ciò non sarebbe stato tanto facile, il Divo esclamò che Semiramide aveva già regnato in Siria e le Amazzoni avevano dominato gran parte dell’Asia!

“Donna” come offesa? Non in questa casa. 

Alla fine della sua carriera, quando i suoi poteri erano troppi tanti anche per i suoi sostenitori, quando l’accentramento di tutte le cariche sulla sua persona e la dittatura a vita faceva temere per le sorti della Repubblica, i suoi nemici cominciarono a raccogliersi e a meditare di ucciderlo, convinti che ciò li avrebbe resi eroi.

Così non fu, il 15 marzo del 44 a.C. Cesare viene ucciso nella Curia davanti alla statua di Pompeo, i suoi uccisori uccisi nel corso dei due anni successivi e le Idi di Marzo sono diventate nel calendario romano Il Giorno del Parricidio

E poiché un uomo del genere non poteva andarsene in sordina, le cronache del tempo riportano che dopo la sua morte, splendette una stella in cielo per una settimana, avvenimento visto dai romani come la testimonianza che Cesare fosse stato effettivamente accolto tra gli dei.

La modestia non l’ha mai accompagnato né da vivo né da morto, divenendo il primo romano dopo Romolo ad essere divinizzato.

Il suo tempio venne fatto costruire nel 42 a.C. ed è ancora oggi visitabile, sebbene sia ormai un rudere, nel sito archeologico dei Fori Romani e sulla sua tomba si possono trovare monete e fiori dei suoi più recenti ammiratori.

Annabella Barbato


¹ laticlavio tunica bianca bordata di porpora indossata dai senatori romani

Bibliografia 

  1. Gaio Svetonio Tranquillo, Vite dei Cesari, trad. di F. Dessì, introduzione di Settimio Lanciotti, Collana Classici greci e latini, 2 voll., BUR, Milano
  2. Plutarco,  Vite Parallele: Alessandro e Cesare, trad. e note di Domenico Magnino, introduzioni di Domenico Magnino e Antonio La Penna, Collana Classici greci e latini, BUR, Milano

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Lettera a una bandiera

Ciao Danie’,
era già da un po’ de tempo che temevo ‘sto momento, ma speravo arrivasse il più tardi possibile; invece eccoce, qua, prima del previsto, a dove’ vive’ ‘st’artro lutto.
Sì, perché pe’ noi è un lutto vede’ uno de noi trattato così. Non te lo meritavi Danie’: uno come te, che ha dato tutto pe’ ‘sta maglia e ‘sta città – cuore, testa, faccia, ossa, muscoli e cartilagini varie – non se merita de esse’ cacciato così da casa propria; perché la Roma è casa tua, come hai detto te, e sempre lo sarà.

Hai passato anni ad aspetta’ quella fascia de capitano: sempre senza ‘na parola fuori posto, sempre innamorato de ‘sta maglia, de ‘sta città, dei suoi tifosi e dei suoi colori; in cambio, spesso e volentieri, certa gentaglia t’ha tirato in faccia tanta merda – non se lo dimenticamo: ma tu, sempre leale, verso ‘sti colori e ‘sta città che tanto ami, non te sei mai spostato. Hai sopportato e hai supportato, sempre, la Roma.

E hai pure sbagliato Danie’, mica ‘na volta sola: se lo ricordamo tutti; ma hai chiesto sempre scusa, te sei preso le responsabilità tue e te sei rialzato, sopportando tutta la merda che te tiravano addosso. E per questo che t’avemo amato e t’amamo ancora così tanto, Danie’: perché sei sempre stato ‘n omo, un grand’uomo, non te sei mai nascosto e c’hai messo sempre la faccia, pure nelle situazioni più difficili. C’hai fatto ride’, c’hai fatto piagne’, c’hai fatto ‘ncazza’: insomma, c’hai fatto vive’, c’hai fatto emoziona’. La tua grandezza più grande è stata e sarà sempre quella de esse’ uno de noi: uno che soffre, sbaglia, se incazza, gode, smadonna pe’ ‘sta maglia e ‘sti colori; uno che non la molla mai la sua Roma, qualsiasi cosa accada.

Ed è pure pe’ questo che non t’ ‘a dovevano fa’ ‘na cosa del genere, anzi, non c’ ‘a dovevano fa’: stanno a manna’ via non solo un grande giocatore, ma soprattutto un gran tifoso, un pezzo de core d’ ‘a Roma, ‘sto core malandato, maltrattato, ma che batte, sempre, e non se spegne mai. Perché non bastano i sette a uno, i ventisei maggio – e questo, fidate, sarà molto peggio – le prese pe’ ‘r culo, le coppe vinte dall’artri, le plusvalenze e l’allenatori cambiati come pedalini a spegne’ ‘st’amore che c’avemo pe’ ‘sta maglia e pe’ ‘sti colori.

Esse’ de Roma e, soprattutto, esse’ romanisti, è ‘n artra cosa. Non lo pò capì nessuno che vor di’ pe’ noi, Danie’, ‘sta maglia: questi se pensano che è solo ‘n gioco, ‘no sport; anzi, te dirò, pe’ questi è ormai solo ‘n business, nient’artro.

E quando me ce fermo a pensa’, ogni tanto, me viene quasi da di’ che esse’ romanisti è ‘na maledizione, ‘na prova da sconta’ pe’ vede quanto sei forte, quante ne riesci a sopporta’, prima de cade’ giù al tappeto. Ma poi me vengono ‘n mente le parole tue, dopo Roma-Chelsea dello scorso ottobre¹, e capisco che sto a pensa’ ‘na stronzata. Dobbiamo sempre ringrazia’ de esse’ romanisti, pure dopo i sette a uno: perché noi romanisti sapemo soffri’, traballamo, cademo, ma poi se riarzamo, sempre, sempre fieri de tifa’ e ama’ così tanto ‘sta maglia e ‘sti colori.

Ma questa è ‘na botta brutta Danie’: vedette manda’ via così è un colpo ar core. Va bene non vince’, va bene vede’ sempre la squadra smontata e rimontata ogni anno, va bene tutto: ma le bandiere nostre non le dovete tocca’. Tu e Francesco – per la generazione mia – Giuseppe, Bruno, Giacomino, Agostino, Amedeo e tutti l’artri siete il nostro vanto, il nostro orgoglio, la nostra unicità, il nostro trofeo più grande e che nessuno ce pò toglie.

A Roma, un tempo, se usava tratta’ i veterani de mille battaglie in altro modo, non certo così, a caccialli via, a mannalli in pensione e rottamalli come ferri vecchi; ma ‘sti quattro cialtroni, sicuro, la storia de Roma manco sanno che è.

Io davvero spero che in queste due settimane qualcosa cambi e che ‘sta lettera sia soltanto ‘na dichiarazione d’amore fine a se stessa; perché la nostre, quella tua co’ ‘sta maglia, quella nostra co’ ‘sti colori, quella nostra verso de te e viceversa, so’ tutte splendide storie d’amore. Ed è vero che purtroppo tutte le storie d’amore, prima o poi, finiscono: non ce se pò fa niente; la nostra e la tua, però, non è giusto che finiscano così, se meritano un altro finale.

Per ora, ciao Danie’. Buona fortuna e arrivederci. Roma t’aspetta sempre, a braccia aperte: perché, come t’ha detto un romanista de Rio de Janeiro² – perché la Roma è ‘na grande famiglia e se sei romanista pe’ davvero, pure solo pe’ ‘n giorno, lo sarai pe’ sempre – non c’hai bisogno de’ un contratto pe’ esse’ il capitano della nostra Roma.

 

Danilo Iannelli


¹ https://www.ilromanista.eu/stagione-2017-2018/champions/1066/roma-chelsea-de-rossia-dobbiamo-ringraziare-di-essere-romanisti-anche-dopo-i-7-1-

² https://sport.sky.it/calcio/serie-a/fotogallery/2019/05/14/de-rossi-lascia-la-roma-reazioni-social.html#10

 

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