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Azzardarsi ad amare: Piperita, un romanzo di Francesco Mila

“C’era, forse, qualcos’altro. Una cosa materiale e dura, nera e puntuta, depositata sul fondo di mia madre”.

Il romanzo d’esordio di Francesco Mila, Piperita, edito da Fandango Libri, sembra costruito intorno a un nucleo oscuro, un fondale di lago in cui sedimentano tutti i silenzi e i disagi di un’intera famiglia. Lapo, il protagonista che seguiamo lungo la sua infanzia e adolescenza, sua sorella Emma, il padre, Gioacchino, e la madre, Lucrezia, sembrano sempre sul punto di essere inghiottiti dal vortice di un dolore inesprimibile. Il lago dove la famiglia Callipo trascorre le vacanze è una presenza costante nella storia, insieme concreta e simbolica; intorno alle sue acque i due bambini, Emma e Lapo, crescono, giocano, si fanno male, iniziano a conoscere la vita, esplorandola anche nei risvolti più crudi.

La prima parte della vicenda è incentrata sull’infanzia di Lapo e Emma, sui loro tentativi di compensare le carenze del rapporto con i genitori tramite gesti di protezione l’uno verso l’altra. Sorprende, in questa fase della narrazione, l’energia sprigionata da Emma, la sicurezza ieratica con la quale racconta di aver osservato il mondo ancor prima di nascere, attraverso una finestra nel grembo materno. Lapo ed Emma si sostengono a vicenda, coprono le urla dei genitori raccontandosi delle favole inventate, ed è proprio la protagonista di una di queste storie nonché l’alter ego di Emma, la Piperita, “una specie di implacabile seienne bohémienne”, a dare il titolo al romanzo. L’autore è in grado di trasmettere la forza immaginativa propria dell’infanzia e la delicatezza e la premura che permeano il rapporto tra fratello e sorella. I paesaggi immaginari, le iperboli della loro fantasia aprono squarci nel grigio dei silenzi familiari, interrotti soltanto dalla tosse nervosa del padre e dalla madre che rumina un’insalata immaginando di stare a cena con Simon le Bon. 

Nel descrivere Lucrezia, Mila tratteggia la figura di una donna fragile, assente, che idolatra i divi di Hollywood, dorme con la mascherina per gli occhi come una caricatura di Audrey Hepburn, trascorre le giornate tra riviste patinate, estenuanti sessioni di aerobica e pulizie compulsive. Una madre che prende in considerazione il figlio soltanto per esaminarne i tratti del viso e vagliarne le possibili somiglianze con qualche attore, o per sottoporlo alla ennesima visione di Gioventù bruciata, sempre a patto che rimanga in silenzio. 

Piperita è un romanzo che si interroga sui legami viscerali del sangue, a partire da quello tra madre e figlio, due entità separate violentemente dal taglio del cordone ombelicale, che “da quel momento conservano una mancanza, una privazione reciproca e forse incolmabile”. Memorabili le pagine in cui Lapo osserva Lucrezia prepararsi per uscire la sera canticchiando Satisfaction dei Rolling Stones: “era allo specchio che offriva i suoi sorrisi più belli”. Lucrezia non è in grado di assicurare neanche una presenza fisica ai propri figli, poiché, dopo aver vagheggiato viaggi in California o a Cuba, decide di partire senza dare spiegazioni, provocando una ferita insanabile in Lapo e sconvolgendo Emma, che da questo momento si chiude in se stessa, progressivamente sparendo dalla narrazione.

Il padre Gioacchino è “un uomo per cui i sentimenti erano vizi, esagerazioni incompatibili con le cose”. Incapace persino di trovare il tempo per insegnare al figlio ad andare in bicicletta, preferisce dedicarsi alle sue adorate ortensie. Chiuso in un incomprensibile mutismo, quando si abbandona all’ascolto di brani di Pino Daniele sprofonda in una “anchilosi mentale”. Lapo prova per il padre qualcosa a metà strada tra l’affetto e il ribrezzo. Analogamente al modo in cui aveva tentato di comprendere sua madre spiandola attraverso porte socchiuse, Lapo esplora i ricordi di suo padre, rovistando tra scatole di lettere e foto impolverate, per cercarvi i frammenti di quella vita taciuta e tentare di figurarsi il passato prenatale in cui, forse, i suoi genitori si erano amati.

Divenendo sempre più deboli i legami che uniscono i componenti della famiglia Callipo, irrompono nella storia altri due personaggi fondamentali per la crescita di Lapo: Amedeo e Greta. Il primo, istrione e ribelle, lo conduce per mano attraverso i riti di passaggio dell’adolescenza: dalle prime canne ai rituali del corteggiamento, Amedeo apre Lapo alla vita fuori da sé e dal dolore che custodisce. L’autore, con le sue parole, trasmette bene l’affilarsi dei sensi dei due giovani tra le luci del Piper, gli occhi di Lapo che si soffermano a descrivere le ragazze: “slanciate, fra la calca, sgomitavano voltandosi per assestare schiaffi o per lasciarsi baciare”. 

Greta, fin dal primo incontro con Lapo, tenta di far crollare la barriera di timidezza e riserbo che il protagonista ha eretto intorno a sé, lo introduce all’amore e tenta di comprenderlo ed accettarlo anche nelle sue debolezze. La paura profonda di Lapo è di condividere con Greta la medesima sorte di abbandonati, di far parte di quella schiera di persone guaste, irrimediabilmente mutilate negli affetti, ormai condannate a infliggere agli altri ciò che è stato fatto loro. Anche Greta ha le sue cicatrici, eppure è in grado di spiazzare Lapo con i propri inesausti tentativi di comprenderlo, di accettarlo. Lapo non riesce a comprendere come possa piacere a Greta nonostante non assomigli per niente a James Dean. Piperita ci ricorda che una componente importante dei dolori che si provano durante l’adolescenza consiste in una vergogna indefinita, quasi un fisiologico senso di inadeguatezza che porta a chiudersi in sé e nascondersi dietro ad una posa. 

Francesco Mila, nato nel 1996, con questo romanzo ci fa rivivere una fase, quella dell’adolescenza, ancora non così distante da lui da apparirgli sfocata, per mezzo di una prosa essenziale ed evocativa che non sfocia mai nel patetismo, neanche quando sfiora temi delicati, quali i disturbi alimentari o l’abuso di psicofarmaci. Attraverso gli occhi del protagonista intravediamo gli abissi a cui portano il silenzio e l’abbandono, fondali in cui rischia di rimanere per sempre, magari in compagnia dei bambini-lisca, gli abitanti del lago creati dalla fantasia di Lapo ed Emma. Ma, toccato il fondo, partecipiamo al suo disperato bisogno di risalire in superficie, di crescere, di tendersi verso l’altro e azzardarsi ad amare.

Massimiliano Davies

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“Quello che non ti dicono”: una storia che non cerca colpevoli

Carlo è un bambino prodigio, nato in una delle famiglie più ricche di Milano, i Saronio. Suo  padre, un uomo di vecchio stampo, ha creato una fortuna durante il periodo fascista, costruendo  un’enorme industria chimica che a distanza di anni ha causato danni ecologici irreparabili. Il  giovane trascorre la sua infanzia all’interno dell’élite lussuosa di corso Venezia e non conosce i  benefici sociali del frequentare una scuola pubblica. Fin da piccolo vive come chiuso in una teca di  cristallo. Con il passare del tempo Carlo manifesta una crescente genialità alla quale associa un bisogno sfrenato di libertà; desidera spogliarsi del “senso di colpa” per essere nato in una  famiglia agiata e si attiva per aiutare i poveri e i diseredati. Non è facile, però, allontanarsi del  tutto dalle proprie origini; cercare una propria identità non rappresenta un’impresa facile,  soprattutto per chi, come lui, vive nell’Italia degli anni ’70, segnati dalla comparsa del terrorismo.

Il drammatico epilogo della sua storia sarà riposto per anni nel dimenticatoio.  Tuttavia, nessun racconto può vivere troppo a lungo rinchiuso nel fondo di un baule; prima o  poi ci sarà sempre qualcuno che troverà la chiave per riportare alla luce vecchie verità o  scoprirne delle nuove. Il mondo è forse collegato da un filo invisibile che, come in una perfetta  ragnatela, intreccia le storie di ognuno di noi. È così che un giornalista alla ricerca costante di  nuove curiosità da svelare, un missionario e una donna orfana di padre in cerca di risposte, si  incontrano nel mezzo del cammino della vita. Tutto inizia una mattina di ottobre del 2019 quando, in uno dei tanti messaggi Facebook, ne appare uno indirizzato ad un famoso giornalista.

“Buonasera Dott. Calabresi, la leggo con piacere, perché sono legato a lei dalla perdita di una  persona cara a causa del terrorismo. Mi chiamo Piero Masolo, sono prete missionario del Pime in Algeria, sono nipote di Carlo Saronio, rapito e ucciso il 15 aprile 1975. Mi piacerebbe poterle  inviare una mail per chiederle consiglio su come celebrare l’anniversario dello zio. La ringrazio di cuore”.

È così che nasce dalla penna di Mario Calabresi “Quello che non ti dicono”. Un  racconto in stile giornalistico che senza giudicare i fatti storici, nè proferire giudizi morali, mira a trovare delle risposte per colmare il senso di vuoto del nipote. Piero, non incontrerà  mai suo zio, mentre sua cugina Marta, figlia di Carlo, non riuscirà a conoscere il proprio  padre. “Mentre lui se ne andava, lei stava arrivando, non si sarebbero mai incontrati”. Carlo  Saronio, infatti, protagonista fantasma dell’inchiesta, venne assassinato per errore nel lontano 1975, in un fallimentare tentativo di rapimento da parte dei movimenti sovversivi dell’estrema  sinistra dell’epoca. In quegli anni, l’Italia intera si vedeva divisa tra diverse forze extraparlamentari, di destra e di sinistra, il movimento delle Brigate Rosse iniziava a dilagare  e a insinuarsi in diversi comitati ed associazioni operaie, in concomitanza con oscure forze miranti a cancellare lo stato di diritto, anche ricorrendo all’utilizzo della violenza con estorsioni e  rapimenti. Fu’ uno dei periodi bui della storia italiana in cui al desiderio di cambiamento pacifico della massa dei giovani italiani si contrapponeva una parte che esprimeva i propri ideali attraverso  l’uso della criminalità e il desiderio di seminare paura. Si moriva e si uccideva per ideali apparentemente libertari.

Ora può sembrare follia, ma negli anni ‘70 vi erano sempre ordigni pronti ad esplodere e i rapimenti erano all’ordine del giorno, come quello del giudice Mario Sossi, “processato e condannato a morte ma poi liberato” dalle Brigate Rosse. Erano gli anni di Toni  Negri, Oreste Scalzone e Franco Piperno, fondatori di “Potere Operaio”, organizzazione  extraparlamentare di sinistra, in vita tra il 1969 e il 1973. Intorno a queste figure si aprirono scenari  di lotta armata che si voleva rifare a quella dei Tupamaros uruguaiani, un’organizzazione  guerrigliera di ispirazione comunista. In tale panorama, si colloca in maniera sorprendente la storia  di Carlo Saronio. Il suo desiderio di distanziarsi dall’ambiente familiare e di dare voce all’altro Sé, lo porteranno a frequentare quegli ambienti ricolmi di speranze, ma anche di disperata violenza. La sua personalità è circondata da linee d’ombra, ma anche spiragli di luce che lo porteranno a creare  una storia d’amore indissolubile con la fidanzata Silvia, a frequentare gli ambienti difficili e bisognosi di Quarto Oggiaro, a dedicarsi costantemente alla ricerca in ambito scientifico. Un ragazzo con un’anima generosa, ma allo stesso tempo famelica di ribellione. Si ritroverà coinvolto  nelle vicende di quegli anni perché, bisogna ammetterlo, il luogo e l’epoca in cui si vive può  profondamente incidere sul corso della propria vita. Nel cercare un tentativo di “espiazione” entrerà  in contatto con Carlo Fioroni, militante della sinistra extraparlamentare e mandante del suo  rapimento. Una storia di un tradimento all’interno di un’amicizia a metà tra gli ideali di rivoluzione  e il desiderio di potere.

Nel libro Calabresi non fa emergere né santi né carnefici, né vittime e  né colpevoli, poiché già individuati dai processi storici ormai chiusi e sepolti in vecchi faldoni. Esiste unicamente il desiderio di indagare sulla figura di Carlo e sulle diverse motivazioni che  lo hanno portato a ritrovarsi in una strada senza via di fuga. Un tentativo, dunque, di offrire a sua figlia Marta l’immagine di un uomo con le proprie passioni e paure, che vada al di là di  una semplice fotografia.

Irene Pulcianese