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One World, One Health

La pandemia da Covid-19 ci spinge ormai da più di un anno a riflettere sul nostro rapporto con l’ambiente, a immaginare le nostre attività ed a mettere in discussione il nostro modo di agire all’interno del mondo fino ad oggi.

Passata anche la giornata della Terra, è chiaro ormai come la questione ambientale e di un antropocentrismo esasperato siano centrali nel nostro Presente ed enormemente cruciali nell’immaginare il futuro.

Persi nell’evoluzione della diffusione della pandemia, concentrati oramai sui suoi riflessi politico-sociali, abbiamo totalmente accantonato le discussioni che accompagnavano la prima fase della diffusione del virus, quando ci interrogavamo Sulla sua origine, sull probabile origine animale e sul rapporto malsano che l’uomo ha instaurato con la Natura, invadendo sempre di più spazi incontaminati, abitati da altri esseri viventi, sotto il passo incalzante dell’urbanizzazione sfrenata.

In un suo famoso libro “Spillover”, tornato alla ribalta proprio allo scoppio della Pandemia, lo scienziato David Quammen già preconizzava una pandemia zoonotica, ovvero causata da un così detto “salto di specie”, il passaggio di un virus da un animale all’uomo. Un processo che, soprattutto negli ultimi anni caratterizzati dall’espansione umana pressoché totale all’interno dell’ambiente naturale, rischia di subire una decisa accelerata, lasciandoci l’inquietante presagio che Covid-19 sia solo il primo di una serie di virus che potrebbero scatenarsi a partire da questa situazione.

Già da alcuni anni, proprio in risposta a fenomeni come questo, è stata sviluppata una visione omnicomprensiva, olistica di modello sanitario denominata “One Health” , nella quale la salute viene considerata come un complesso eco-sistema nel quale la salute umana, quella animale e le condizioni ambiente hanno lo stesso grado di importanza. Si tratta di una concezione multidisciplinare e particolarmente raffinata nella quale gli indicatori del grado di Salute sono molti e contemplano dati sociologici, economici, veterinari, medici e così via.

La visione “One World, One Health”, un unico mondo un’unica salute, oggi dovrebbe essere la base fondamentale sulla quale andremo a ricostruire la nostra società, fino ai suoi livelli più bassi e vicini alla nostra quotidianità dopo il periodo segnato dalla pandemia. Il nostro Sistema Sanitario Nazionale, già riconosce come visione centrale quella del “One Health”, ma c’è bisogno, che nel pieno spirito del concetto, sia la politica tutta, ad ogni livello, ad adottare tale mentalità come timone nella propria azione di governo ed amministrazione.

La pandemia ha scoperto tutte le carte: la salute è una questione centrale per la prosperità e lo sviluppo dell’umanitá, solamente mettendola al centro del dibattito politico potremo costruire un mondo migliore. “One World, One Health” dovrà diventare lo slogan degli anni a venire, riconoscendo che senza un impegno di salvaguardia sociale, ambientale ed animale, non potremmo dirci veramente in salute.

Lorenzo Giardinetti

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L’importanza della temporalità: chi fuma sta peggio o chi sta peggio fuma?

“Il fumo mette a rischio anche la salute mentale, depressi e meno vitali”. Questo è il titolo dell’articolo pubblicato qualche giorno fa da ANSA.it nella sua rubrica Ansa Salute. L’articolo riporta i risultati di uno studio sul fumo e la salute mentale sugli studenti di due università serbe.

Lo studio è interessantissimo, specie in termini di analisi adottata, e l’articolo di Ansa riporta qualche dato. Ma va fatta, visto il fine divulgativo, una precisazione. Il titolo scelto da Ansa è impreciso, e potenzialmente ingannevole. Considerando che ci sono evidenze sul fatto che tante persone si fermano al titolo, il fatto che nel corpo vi siano chiarimenti non è necessariamente sufficiente a compensare.

Lo studio in questione è di tipo cross-sectional (o trasversale), ovvero basato su dati raccolti in un solo istante. Non vi è alcuna informazione temporale, e conseguentemente non è stato possibile per gli autori investigare il rapporto temporale, necessario per poter avanzare l’ipotesi (ragionevolissima) che vi sia un rapporto causale fumo -> salute mentale.

Perché è importante l’aspetto temporale? Perché un fattore, per poter esser riconosciuto come causa di un altro fattore, deve manifestarsi prima del suo effetto.

In questo caso specifico, chi fuma sta peggio, o semplicemente chi sta peggio ha più probabilità di iniziare/continuare a fumare?

Chi fuma sta peggio o chi sta peggio fuma?

Allo stato attuale, è ragionevole pensare che il rapporto sia bilaterale ed entrambe siano corrette. Ma basandoci su questo studio possiamo solo dire che fumare è associato allo sperimentare un minore benessere mentale. così come il contrario. Il rischio, che va inteso in senso statistico, non implica la causalità. Scrivere un titolo affermando che il fumo “mette a rischio” la salute mentale rischia di ingannare il lettore facendo implicitamente passare che l’associazione sia causale.

Il concetto che sarebbe dovuto passare, è che “essere un fumatore riduce la probabilità di trovarsi in uno stato di benessere mentale”, e viceversa “trovarsi in uno stato di benessere mentale riduce le probabilità che la persona sia un fumatore”.

Infatti, il sulla base di questo studio avremmo potuto affermare anche il contrario, con la stessa identica validità.

Per poter avanzare l’ipotesi di causalità sono necessari studi longitudinali, che studiano il rapporto tra i due fattori (fumo e benessere mentale) nel tempo. Trovando queste evidenze si dovrà poi passare ad indagini di diverso tipo, per capire ad esempio se vi siano pathway molecolari o se invece il fumo sia una variabile “confondente”, associata ai vari fattori che influenzano negativamente il benessere mentale.

Fabio Porru

SITOGRAFIA:

Yes, you can. “Un’ode pindarica su uno stanco, anziché un vincitore!”

Qualcuno ha detto che non ci sono poteri buoni. L’accettazione di qualsiasi forma di potere e delle condizioni proposte o imposte presuppone un dovere di coloro che partecipano al patto, quello di sottostare ai vincoli imposti dall’accordo. Il dovere si esprime quindi in senso di negatività, di qualcosa che faccio perché non posso non farlo, e viene percepito come un elemento altro da me che io recepisco e accetto.

In una logica di comprensione della realtà o di modifica della stessa, però, non solo esistono poteri meno buoni di altri ma soprattutto ogni forma di potere funziona su delle logiche che cambiano nel tempo e nello spazio e che quindi vanno analizzate e capite.

A questo scopo, ci viene in aiuto il dibattuto lavoro di un filosofo contemporaneo Byung-Chul Han, il quale trasferitosi dalla Corea in Germania all’inizio degli anni ’90, si inserisce in un filone di critica intellettuale dell’odierna società capitalistica e neo-liberale, attraverso categorie della filosofia foucaultiana e post-foucaultiana, che utilizza e supera, ricorrendo a concetti che hanno a che fare con discipline che comprendono l’etica, la filosofia sociale e fenomenologica, la teoria culturale e dei media, il pensiero religioso e l’estetica.

Secondo la lettura che Byung-Chul Han fa sulla nostra contemporaneità, la differenza tra il capitalismo neoliberista e qualsiasi altra forma organizzativa precedente è stata passare dal paradigma del dovere a quello del potere, trasformando un’energia negativa in una positiva che narra la vita e la società come una promessa di infinite possibilità che alla fine illude, deprime e sfinisce l’uomo.

L’uomo del nostro tempo, non fa perché deve, fa perché può ed è abituato a pensare che questa strada di infinite possibilità sia una promessa di realizzazione e di felicità. Interiorizzando questa logica, per cui nessuno ci obbliga a rincorrere l’infinito e la perfezione e il di più, l’uomo diventa l’unico responsabile del proprio successo e anche del proprio fallimento con la forte convinzione che non esistano limiti alla propria felicità o fortuna.

La figura di persona di successo, il modello di realizzazione associato al concetto di perfezione, è quella di una persona votata al concetto di poter fare, veloce nel farlo, capace di occuparsi di tante cose nello stesso momento e che in una sorta di ritmo che non ammette differenze, attraversa tutte le tappe della vita così come è funzionale all’organizzazione socio-economica della nostra società. Il paradosso si esprime nell’imperativo “Sii libero!”.

Non è un caso il fatto che il nostro tempo venga sempre più spesso associato al tempo delle malattie mentali, agli esaurimenti, alla depressione e alle malattie neuronali che per quanto diverse tra loro hanno in comune una struttura post-immunologica: non sono malattie provocate dal diverso, ossia da un attacco esterno sia esso batterico o virale, ma dall’eguale, ovvero dal nostro stesso corpo, dalle nostre stesse convinzioni, dal nostro stesso spirito.

Byung-Chul Han, utilizza la metafora immunologica nel suo “La società della stanchezza” per spiegare come quell’energia positiva, l’energia del potere sia lo strumento di controllo più potente che ci sia, e che proprio la nostra società contemporanea votata al profitto e al progresso adopera. Questo mette in atto un meccanismo di sfruttamento estremamente intelligente, quello dove padrone e lavoratore o più in generale vittima e carnefice coincidono.

La negazione del limite e del finito caratterizza la narrativa e i tutti i campi della nostra società ma è profondamente illusoria. E’ agli occhi di tutti che la comunicazione online ha svuotato di significato la percezione delle distanze o che la produzione a basso costo permette l’illusione di un consumo infinito.

In alcuni casi, l’eliminazione del limite è meno chiaro, eppure l’asservimento alla funzione del potere è estremamente profondo. La difesa della nuda vita e la trasformazione della salute in quanto tale in valore assoluto, per esempio, è manifestazione della negazione del limite della morte.

Nella nostra realtà, la morte non viene accettata ma evitata a tutti i costi. Se questa logica ci rende apparentemente liberi, ci condanna ad una mania di onnipotenza che ci fa temere la morte al punto da diventare schiavi di questa paura e di vivere in una modalità di difesa della nuda vita invece che di valorizzazione della stessa. Il sentire di poter vincere la morte è funzionale alla logica neoliberista perché coincide con la negazione della perdita assoluta e con il mito del progresso infinito.

Aristotele già lo aveva detto che l’accumulazione del guadagno finisce per trascurare la buona vita in favore della nuda vita. L’etica protestante gli ha trovato una giustificazione in senso di sacrificio. La nostra contemporaneità lo innalza a valore assoluto per cui l’uomo utilizza il mito della buona salute per difendere la nuda vita a tutti i costi, asservendosi così al lavoro.

Ma persino l’eros è vittima di questa illusione di superamento del limite. Persino l’eros, è diventato strumento di autosfruttamento nella illusione di libertà. Nel saggio “Eros in agonia”, Byung-Chul Han spiega come l’Eros presupponga un superamento dell’individuo, l’accettazione della finitezza dell’Io e l’incontro con l’Altro, oltre una logica di possesso.

Per quanto non sempre chiaro, l’amore e l’eros si basano su una logica di relazione e la relazione è possibile solo se resiste una distanza e una differenza tra io e l’altro. L’eliminazione del limite tra l’io e l’altro uccide l’Eros e lo piega a strumento di consumo di corpi e anime, a logiche di prestazione e di accumulazione, all’ottimizzazione del proprio guadagno e all’eliminazione del rischio che presuppone l’incontro con l’altro, cose che niente hanno a che fare con l’Eros.

Il risultato di tutto ciò è la generazione di una società di persone sole, frustrate, depresse, incapaci di amarsi, incapaci di mettersi in relazione con l’altro, votate solo all’accumulazione e al consumo dell’esistenza, delle distanze, delle velocità e della difesa della propria vita.

Se su un piano di prassi, separare le categorie dell’Io e degli altri, o i piani di privato e pubblico non ha senso ai fini di un’azione di cambiamento efficace, ai fini dell’analisi non solo è utile farlo ma diventa essenziale partire dal discorso dell’autosfruttamento per capire come funziona il nostro sistema di potere.

Byung-Chul Han viene spesso criticato per il fatto di limitarsi ad un piano di analisi che innesca un sistema di colpevolizzazione degli sfruttati che per di più nei suoi scritti sembrano coincidere con una classe medio-borghese. Ma nell’analisi è indispensabile capire come ogni logica di potere che osserviamo all’esterno, altro non è che una proiezione di quello che succede quotidianamente nella nostra testa e sul nostro corpo per nostra stessa mano. Porre l’accento sul fatto che questa logica sia, almeno in parte, trasversale alle diverse classi sociali non deve sostituire ma integrare quelle analisi che tendono a sottolineare la specifica condizione in cui versano le diverse classi sociali.

Combattere la società della stanchezza presuppone una forte lavoro di analisi e messa in discussione dei nostri stessi comportamenti e credenze che si legano strettamente agli obiettivi che ci poniamo nella nostra vita personale e al modo in cui tentiamo di raggiungerli.

Il concetto di stanchezza diventa in questo senso uno strumento di comprensione molto potente. Infatti, la stanchezza può svuotarci o nutrirci ma questo non dipende dalla quantità di sforzo che abbiamo fatto ma piuttosto dalla qualità. La stanchezza che deriva da una lunga giornata di attività in una condizione di connessione con sé stesso e con il mondo, forse ci farà buttare a letto la sera senza più energie ma è in realtà una stanchezza che ci nutre e rigenera. La stanchezza che invece deriva da una condizione di isolamento, alienazione o rincorsa, è una stanchezza che ci opprime, svuota e distrugge.

Vale la pena sprecarci un po’ di tempo a riflettere sulla qualità e l’origine della nostra stanchezza, magari sottraendoci dal fare qualcosa che proprio potevamo fare ma che alla fine era meglio non fare.

Francesca Di Biase


Fonti

  • Byung-Chul Han (2012). La società della stanchezza. Gransasso nottetempo.
  • Byung-Chul Han (2013). Eros in agonia. Figure nottetempo.

Restare in forma senza fare jogging: si può, imparando una nuova lingua



“Non ho tempo”, “non ho soldi”, “non fa per me”, “non conosco la grammatica italiana, figuriamoci quella di una lingua straniera!”: queste sono solo alcune delle scuse più frequenti che usiamo per rifuggire lo studio di una lingua straniera e tentare di giustificare la nostra pigrizia nell’imparare qualcosa di nuovo. Eppure, studiare una nuova lingua apporterebbe molteplici benefici non solo al nostro cervello, ma anche alla nostra salute psicofisica. Può sembrare insolito, ma è stato appurato che immergersi nello studio di una lingua sconosciuta aiuta a rimanere sani e in forma: il bilinguismo, oltre a rafforzare e migliorare la memoria, ritarda di circa cinque anni la comparsa dei primi sintomi del morbo di Alzheimer. La Professoressa Ellen Bialystok dell’Università di York a Toronto, che studia da anni l’impatto delle lingue sul cervello umano, ha constatato col suo team di ricerca che, tra circa duecento pazienti affetti da Alzheimer, coloro che hanno parlato due lingue per la maggior parte della propria vita hanno saputo fronteggiare meglio la malattia grazie a una riserva cognitiva che ha ritardato i primi sintomi (perdita di memoria e confusione), rispetto a chi, invece, ne ha padroneggiata solo una. Infatti, una persona bilingue ha un sistema di controllo esecutivo sempre attivo: il bilingue deve sempre compiere una scelta lessicale in base al proprio interlocutore. L’esercizio costante di questa area del cervello permette al bilingue di riuscire meglio in alcuni compiti, fare più cose contemporaneamente o passare velocemente dall’una all’altra. Difatti, studiare una lingua straniera è considerata una buonissima palestra per la mente anche perché modifica effettivamente il cervello, che, grazie all’allenamento, cresce. Imparando una nuova lingua, il cervello tende a moltiplicare il numero di connessioni tra le cellule nervose: maggiori sono queste, migliore sarà l’agilità della mente di immagazzinare informazioni, ricordi e dati ed elaborarli. E non solo: parlare in un’altra lingua migliora la creatività, affina l’udito, potenzia l’attenzione e la capacità di prendere decisioni. È inoltre dimostrato che la lingua parlata ha effetti sul comportamento e sul modo di concepire il mondo: imparando un’altra lingua si diventa più tolleranti e comprensivi nei confronti del diverso, ci si apre a nuovi orizzonti e nuove vedute, si conoscono nuove culture e nuovi modelli di vita e di pensiero, anche grazie alla possibilità di viaggiare più spesso e facilmente, avendo il vantaggio di poter comprendere ed essere compresi. Ampliando le nostre conoscenze e migliorando le nostre capacità di comunicazione, aumenteranno automaticamente anche la nostra autostima e la fiducia nelle nostre potenzialità: un toccasana, quindi, per le persone insicure, timide e indecise.
Un ultimo punto a favore dei giovani che si avvicinano allo studio delle lingue è ovviamente costituito dalla maggiore facilità nel trovare un’occupazione vantaggiosa: se state progettando di intraprendere una carriera importante e redditizia, è importante che sappiate almeno due lingue. A seguito del processo di globalizzazione, infatti, la maggior parte delle aziende opera sempre di più a livello internazionale e richiede che i propri dipendenti abbiano ampie competenze linguistiche.
Dunque, what are you waiting for?

 

Francesca Moreschini