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Voci che emergono: Celestraverde

Quando si va in ferie, nessuno vuole portare con sé il lavoro, e anche chi scrive non fa eccezione. Accade però che in piena vacanza io mi ritrovi seduto al tavolino di un bar con un paio di ciabatte imbarazzanti e un telefono che registra davanti. Succede l’imprevisto, succede che mentre sei impegnato a non fare niente una ragazza ti distolga dal flusso dei pensieri vaganti con un’interpretazione sconvolgente di “Come sabbia” di Simona Molinari, pezzo tanto di nicchia quanto tecnicamente complesso.
Quella ragazza è Celestraverde, all’anagrafe Roberta Penta, una carriera appena iniziata ma tutta la fame che serve per emergere, supportata da un talento cristallino che fin dal primo ascolto è impossibile non sentire.
Dopo un ascolto su Spotify, e un altro, e un altro, e un altro paio di dozzine, decido che non me ne sarei potuto andare dal villaggio senza aver saputo di più su di lei, e senza aver permesso ai lettori de La disillusione di conoscerla.

Da dove nasce il nome?
Tempo fa portavo un caschetto color verde acqua, solo che non era un colore omogeneo, dato che avevo
fatto diverse tinte, e quindi mia nonna mi disse che era color “celestraverde”.

Come definiresti la tua musica?
Una cosa complicata (ride, n.d.a.). Non è una cosa complicata spiegarla, ma proprio la mia musica lo è, perché se non è complicata non mi piace. Sono consapevole del fatto che non è semplice far piacere al pubblico testi
complessi, che se non leggi più di una volta fai fatica a capire. Questo un po’ mi differenzia dagli altri e
mi fa piacere, ma d’altra parte è un po’ uno svantaggio e questo me lo dicono tutti. Fin da quando ho
iniziato a scrivere alle superiori i miei professori mi dicevano sempre che il mio modo di scrivere è
barocco, oscuro e strano.

Immagino dunque nasca prima il testo e poi la melodia.
Più o meno sì. Abbozzo delle frasi, poi se mi viene in mente una melodia continuo, altrimenti rimando.
Sono piena di bozze.

Quali sono i generi musicali che fanno da guida al tuo processo creativo?
A me piace il blues, ma in realtà mi sento più indie. Sono molto perfezionista, una cosa che non deve
assolutamente esserci è la monotonia, e il blues a volte vi tende. A dirla tutta, io impazzisco per i Pink
Floyd. Non esiste un rock come il loro, quello dei Pink Floyd è un genere a sé.

Lavori da sola?
No. Io scrivo, butto giù le melodie e mio padre le arrangia.

A quale artista somiglia Celestraverde?
C’è troppa contaminazione. Mi hanno detto Simona Molinari per quanto riguarda “Bicchieri di vetro” (il secondo singolo di Celestraverde, n.d.a.). Qualcuno trova nella mia voce qualcosa di Elisa o di Giorgia, ma per quanto riguarda i pezzi in sé per sé non mi viene in mente nulla.

Che impatto ha avuto la quarantena su di te?
Bicchieri di vetro è nata proprio in quarantena: ho iniziato a scriverla il primo giorno di quarantena e l’ho
finita proprio negli ultimi giorni. Poi c’è un altro pezzo che in quei mesi ho definito, perché
fortunatamente dal momento in cui mio padre non lavorava era disponibile e a mia completa disposizione,
e ne ho approfittato.

Deve ancora uscire?
Sì, deve ancora uscire. Si chiamerà “Sulla soglia di una porta chiusa.”

È già particolare il fatto che tu sia riuscita a scrivere. Ho notato che molti artisti hanno avuto un
forte blocco in quel periodo.

Ha inciso più sulla mia persona che sulla mia scrittura. Devo ancora elaborare quello che è cambiato di
me, devo ancora riuscire a metterlo per iscritto. Ho sempre la paura di non sfruttare al meglio ogni singolo
momento della mia vita, il tempo per scrivere lo trovo raramente, ho dovuto approfittarne.

Come e quando è nata la tua passione per la musica?
Mio padre canta e suona, quindi mi ha trasmesso questa passione fin da subito. Ho iniziato a studiare
canto a undici anni, però non mi ci sono buttata subito a capofitto, inizialmente la prendevo come una
questione tecnica, non emotiva, anche forse a causa degli insegnamenti di mio padre, che è molto fissato
con le capacità tecniche e con l’impostazione. Quando poi ha iniziato a vedere che stavo diventando brava
ha iniziato a dirmi “Eh però l’emozione…”. La tecnica è il mezzo che noi cantanti abbiamo, senza quella è difficile comunicare le emozioni, questo è quello che ha sempre voluto comunicarmi. Ho
iniziato a scrivere canzoni in realtà da pochissimo, sarà un anno e mezzo.

Sei molto prolifica però.
Ma scrivevo altro già da tempo. Per me è sempre stato difficile mettere ciò che scrivo in musica. Ho
sempre scritto periodi lunghissimi, uso termini lunghi, il che non va sempre bene. Perché ci piace scrivere in Inglese? Perché le parole sono più corte, sono più facili da inserire in una canzone.

Quali sono i tuoi progetti per il futuro?
Crescere. Mi sono iscritta a un’accademia di musical, la Gypsy Musical Accademy di Torino, ho fatto il
provino in quarantena. Lì mi cimenterò anche in cose che per il momento non ho ancora fatto a pieno,
come la recitazione, ed è un mondo che mi piace particolarmente. Curerò ulteriormente la mia voce, sento
di poter imparare ancora tanto. E poi la danza, con la quale ho avuto il primo approccio qualche anno fa
studiando hip hop, ma per poco. Voglio continuare a scrivere, anche se dovrò trovare qualcuno a Torino
che possa aiutarmi ad arrangiare i pezzi, il che mi preoccupa, perché sono abituata al supporto costante e
al giudizio di mio padre.

L’esperienza del villaggio turistico incide sul tuo percorso artistico? Se sì, come?
Già il fatto stesso di poter salire su un palco per me è una cosa importantissima, il palco è casa mia.
Giuseppe (il capoanimatore, n.d.a.) mi sta dando tante lezioni di vita, lui non è quel tipo di persona che se
sei bravo ti lascia stare, no, troverà sempre qualcosa che non va del tutto bene e va perfezionata. Non lo
prendo solo come un percorso lavorativo, bensì come un’opportunità di crescita. Io sono molto timida,
poter approcciare con più persone, esservi anche in un certo senso costretta, mi fa bene.

Il tuo ultimo brano, “Sembro così libera”, si discosta per atmosfera dai precedenti. Come nasce
questo brano?

“Sembro così libera” è il mio ultimo brano uscito, ma in realtà è il primo: è il primissimo testo che io
abbia scritto. Poi l’ho dovuto completamente modificare. Io in realtà questo brano l’ho snobbato per un
sacco di tempo, non mi piaceva, non lo volevo più continuare. Poi quando l’ho ripreso l’ho rivoluzionato
completamente, prima era più arrabbiato, in contrasto con la musica che è più tranquilla e quasi allegra.
Ai tempi mi trovavo in un’accademia, di quelle che si frequentano saltuariamente, e questo pezzo nacque
in una camera d’hotel, insieme a una mia amica che una sera prese la chitarra e mi disse “Scriviamo una
canzone”. Al che io le feci: “Guarda che io non so scrivere canzoni, non l’ho mai fatto”. Lei, che invece
aveva già scritto diverse cose, mi disse: “Se hai già scritto qualcosa, tiralo fuori e vediamo di metterlo in
musica”. Io di solito scrivo i testi e subito mi viene in mente la melodia, questa volta invece le parole sono
andate a inserirsi una melodia che stava nascendo a parte. Forse è il brano che sento meno mio, perché
nonostante riprendendolo e rivoluzionandolo io lo abbia avvicinato a me, l’ho scritto tempo fa, e all’epoca
ero una persona diversa.

Qual è quello che senti più tuo invece?
“Mare di polvere”, tutta la vita.

Perché?
Prima di decidere se continuare una canzone che scrivo così di getto mi interrogo tantissimo, invece per
quanto riguarda “Mare di polvere” sono stata convinta fin da subito. Io scarto moltissimo di ciò che
scrivo, perché a volte mi ricordano altro, e mi dà fastidio, o mi ricordano altri miei pezzi, e mi dà fastidio,
o mi ricordano pezzi altrui, e mi dà fastidio.

L’ispirazione da dove nasce? Ci sono momenti in cui decidi di scrivere o sono momenti estemporanei?
È raro che io decida quando scrivere, è una cosa che ti travolge, non la puoi programmare, sennò non ti
viene. Mi succede spesso durante le conversazioni, o quando scopro un nuovo termine, o leggo qualcosa
di qualcun altro, perché sono le parole a innescare il processo.

Paolo Palladino

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