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Slut-shaming: cosa vuol dire essere una donna sessualmente libera in Italia?

In una società come la nostra, fare sesso ti può costare addirittura il lavoro. Se sei donna, ovviamente. Se decidi di prendere in mano la tua sessualità e rompere gli standard sociali, la cultura patriarcale decide di schiacciarti perché diventi una donna scomoda, sfavorevole allo status quo. In una società basata sui doppi standard, questo non succede anche agli uomini. E quello che è avvenuto a un docente dell’Accademia delle belle arti di Urbino ne è l’ennesima conferma. L’uomo, infatti, è stato accidentalmente ripreso mentre faceva sesso durante la DAD, credendo di non essere inquadrato dalla telecamera. L’insegnante, dopo l’avvenimento, ha deciso di dimettersi. In seguito, il direttore dell’Accademia ha dipinto l’uomo come un docente molto stimato dagli studenti, un critico competente nel mondo dell’arte e ha aggiunto che non sarebbe giusto ricordarlo solo per questo avvenimento. L’opinione pubblica si è stretta al fianco del professore. Tutto giusto, se non fosse che alla maestra di Torino vittima di un reato (eh già, il revenge porn è un crimine) è stato riservato il licenziamento con la gogna mediatica in omaggio.

È da millenni che le cose vanno avanti così. Agli albori del patriatcato venne stabilito che, per assicurarsi la certezza della propria paternità, le donne dovessero limitare al massimo i propri rapporti sessuali. E queste limitazioni si sono inasprite con l’avvento del cristianesimo. Non a caso, la Bibbia è intrisa di misoginia, pienza zeppa di versi che ricordano ossessivamente alle donne di tenere le gambe chiuse e di aprirle solo e soltanto per procreare, assolutamente solo dopo il matrimonio (dopo tutto, che donna sei se non ti sposi e non sforni quanti più figli possibili, eh?). In realtà, la Bibbia vieta i rapporti sessuali al di fuori del matrimonio e non a scopo procreativo anche agli uomini. Inutile dire, però, che gli uomini, essendo al comando della società, trovavano molto più facilmente delle scappatoie a una sessualità così opprimente e repressiva. Nel corso dei secoli, alle donne venne imposto di custodire gelosamente la loro verginità prima del matrimonio. Una donna che aveva rapporti sessuali fuori o prima di sposarsi era inevitabilmente perduta. Oltretutto, il matrimonio era anche l’unico modo, per le donne, di poter vivere nella società. Dunque, la verginità intatta era l’unico bene che possedevano le donne. Questa sorte accomunava sia le donne più benestanti, sia quelle facenti parte di categorie sociali meno abbienti. E da qui sono nati i falsi miti sulla verginità femminile, giunti fino a noi: la donna deve rimanere vergine, perché la verginità è simbolo di purezza e castità. E quest’imposizione ci è stato appioppata per secoli, perché si credeva che una donna fosse più virtuosa se si “preservava”. Tutto questo, mentre gli uomini avevano mille relazioni extraconiugali e fuggivano ogni notte nei bordelli per giacere con quelle donne “perdute” che desideravano ma allo stesso tempo disprezzavano. Per tanto tempo si è creduto che le donne non provassero nessun desiderio sessuale e che non raggiungessero orgasmi: insomma, la sessualità femminile è sempre stata dominata dal patriarcato, progettata ad hoc per soddisfare i bisogni dell’uomo e vissuta passivamente.

I retaggi patriarcali non si decostruiscono in due giorni e infatti oggi, sebbene la situazione sia nettamente migliorata già rispetto al secolo scorso, c’è ancora molto da fare. La sessualità maschile non viene mai stigmatizzata e anzi, viene continuamente incoraggiata. Spesso, all’interno delle cerchie di amici al maschile, il valore di un uomo viene misurato anche in base alla quantità di sesso che fa: più donne per fare sesso “conquista” e più sarà stimato dai suoi pari. E ho parlato di conquista e di donne perché si tratta rigorosamente di relazioni etero in stile uomo predatore – donna preda. Tutto ciò avviene fin dalla giovane età: ragazzini appena adolescenti che si vantano delle loro esperienze sessuali (non) fatte per apparire più interessanti agli occhi degli amici. Un uomo che non rientra all’interno di questi standard sperimenta una buona parte delle pressioni che il patriarcato esercita anche sugli uomini. Per quanto la riguarda la sessualità femminile, vale tutto il contrario: si comincia da giovanissime quando realizziamo che nostro fratello minore può portare liberamente le ragazze a casa e noi invece dobbiamo stare attente a non farci scoprire quando frequentiamo un ragazzo. Poi, quando ancora siamo ancora totalmente inconsapevoli di cosa ci aspetta, i parenti cominciano a dire “ah, a 16 anni la rinchiudi in casa!”. Alle medie ti fidanzi con un ragazzo più grande e via, slut-shaming a non finire dai tuoi compagni. Durante l’adolescenza, subiamo tante di quelle offese legate alla nostra vita sessuale, che dopo un po’ la parola “troia” diventa parte della quotidianità e non suona nemmeno più così offensiva. Ci viene insegnato a distinguere le “sante” dalle “puttane”: le prime sono le donne di serie A, quelle meritevoli di rispetto. Le ultime, secondo i discutibilissimi standard della società, sono le donne sacrificabili, quelle che hanno deciso di non piegarsi al patriarcato, dunque anche coloro che vivono la sessualità attivamente e in modo consapevole. Anche le donne che decidono di mandare un video intimo al proprio fidanzato.

Queste differenze si riflettono sia sulla vicenda del docente di Urbino, sia su quella della maestra d’asilo di Torino. L’uomo ha deciso di dimettersi volontariamente, eppure nessuno gli è andato contro: il direttore stesso lo ha (giustamente) difeso, al contrario della direttrice di Torino che ha immediatamente deciso di licenziare la maestra. La notizia dell’insegnante scoperto a fare sesso in DAD in realtà non ha fatto molto scalpore, non ha indignato nessuno. Nessuno ha mai detto “non posso affidare i miei figli a un uomo che fa sesso”. Mentre per la maestra non è stato così, nonostante lei sia stata vittima di un reato: sono piovute critiche (a lei), slut-shaming, victim blaiming e il licenziamento. Nessuno ha deciso effettivamente di colpevolizzare il suo ex e tutte le persone che hanno continuato a far girare il suo video privato. Quella donna è stata violata prima dal suo compagno, poi da tutte le persone che l’hanno stigmatizzata per aver deciso di vivere la sua vita sessuale come meglio credeva.  Questo succede ancora oggi, perché in realtà una donna non è mai totalmente libera di usufruire del proprio corpo. È come se il nostro corpo non ci appartenesse ma fosse di proprietà della società, che ci impone di usarlo in modo da non risultare scomoda a nessuno. Usare il proprio corpo andando controcorrente significa inevitabilmente andare incontro alla rabbia misogina del patriarcato. Il docentedi Urbino ha deciso autonomamente di dimettersi, ma non ha subito nessuna conseguenza a livello sociale. Al contrario, la maestra di Torino è stata per settimane sulla bocca di tutti, subendo i peggiori insulti dalle stesse persone che minimizzavano il gesto del suo ex a goliardata: sì, lui ha sbagliato, ma lei? Perché le ha mandato quel video? Doveva aspettarselo. Purtroppo slut-shaming e victim blaiming nel 2021 sono ancora all’ordine del giorno, sono esperienze che accomunano tutte le donne e le survivor. Gli stessi media hanno dato molto credito alla vicenda della maestra di Torino, dando voce a tutti i soggetti della vicenda che la colpevolizzavano tranne che a lei, la vera vittima di tutto, e di fatto alimentando un sistema che letteralmente si nutre dell’odio per le donne.

I doppi standard sono una diretta conseguenza del patriarcato, e finché le donne continueranno ad essere discriminate per la loro vita sessuale, la situazione non cambierà. Lo stigma sociale per una donna sessualmente libera è ancora alto, lo abbiamo visto con la maestra di Torino e lo subiamo ogni giorno sulla nostra pelle. È un meccanismo subdolo che discrimina pesantemente le donne, le fa sentire in colpa e sporche, le colpevolizza di provare il più umano dei desideri. La sessualità libera, se praticata in modo consapevole e totalmente consenziente, può essere considerata un atto politico. E ora vi lascio con una riflessione molto cruda: Silvio Berlusconi è diventato Presidente del Consiglio e Donald Trump Presidente degli USA. Entrambi alle loro spalle avevano vari scandali riguardo la loro vita sessuale. Però questo non ha impedito loro di continuare sia l’attività imprenditoriale che quella politica. Ne sono usciti puliti, zero conseguenze sociali, e anzi, lì fuori c’è molta gente che li stima anche perché manifestano la tipica immagine del macho che esprime la sua mascolinità attraverso il sesso. Una maestra a Torino invece ha subito uno slut-shaming pesantissimo e ha perso il suo lavoro per aver mandato un video intimo al suo ragazzo. Credete che se ci fosse stata una donna al posto di Trump o Berlusconi, avrebbe governato ancora a lungo?

Giorgia Brunetti

In copertina: fotografia di Deborah Perrotta, si ringraziano Sara Quercioli e Andrea Macchi per aver prestato i loro volti.

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Revenge porn: mettiamo a nudo la questione

Durante la Prima Guerra Mondiale, gli innamorati si scambiavano epistole, oggi ci inviamo i nudes. Dall’avvento dei social network, e in particolare delle app di messaggistica, non solo il modo di comunicare è stato totalmente rivoluzionato, ma anche l’espressione della propria sessualità ha subito profondi cambiamenti. Già, è finito il tempo delle lettere e dei pomeriggi passati attaccati alla cornetta del telefono fisso: oggi abbiamo il sexting. Il sexting consiste nello scambiarsi messaggi “hot” e materiale erotico (foto/video). Equivale, quindi, a fare sesso virtualmente. Dunque, allo stesso modo del sesso, è un momento intimo condiviso tra due persone consenzienti (o più di due, nel caso dei rapporti poliamorosi). Purtroppo, però, nel sexting non sempre tutto fila liscio come l’olio, soprattutto se si è donne. Essere una donna sessualmente libera nel 2020, in Italia, è ancora un taboo. Proprio per questo motivo la libertà sessuale può essere considerata un atto di rivoluzione politica.

Siamo a Torino. Una maestra d’asilo e un calciatore iniziano a frequentarsi, finché si viene a creare il contesto ideale per il sexting e la ragazza decide di inviargli un video intimo. A quel punto, il ragazzo invia il video sul gruppo di calcetto. Il video finisce tra le mani della moglie di uno dei ragazzi del calcetto, che riconosce la donna (era l’insegnante di suo figlio). Dopodiché, il video fa il giro del mondo e arriva nelle chat delle altre mamme. La maestra riceve minacce e intimidazioni dalle mamme. Al culmine di tutto ciò, la preside riceve il video e licenzia la ragazza.

Questa storia è tragica ed emblematica per la questione “revenge porn” se la si osserva sotto vari aspetti. Sì, perché appena dopo la vicenda, varie testate giornalistiche hanno postato la notizia sui social e sono fioccati commenti in stile victim blaiming nei quali i vari “tuttologi del web” si sono sentiti in diritto di esprimere il loro disappunto nei confronti della maestra che secondo loro “se l’è cercata”. E non solo: basti pensare alle mamme e la preside che, in barba alla solidarietà tra donne, hanno deciso, rispettivamente, le prima di diffamarla e la seconda di licenziarla. Ma non finisce qui: l’avvocato del ragazzo che ha diffuso per primo le foto ha minimizzato la questione a “un gesto fatto senza voler ferire”. E infine, ciliegina sulla torta: La Stampa dà voce a uno degli accusati, presente nel gruppo di calcetto, che afferma che “se mandi filmati osè devi mettere in conto il rischio che qualcuno li divulghi”; e ancora “non posso tollerare che chi si occupa dei miei figli faccia determinate cose” (cioè, quali cose? Sesso? Se il signore la pensa così, forse non dovrebbe nemmeno averli, dei figli…). Sempre lo stesso accusato ha semplificato il tutto a un semplice atto di “goliardia”.

“Boys will be boys but girls will be women”

Goliardia. Non è la prima volta che si abusa di questo termine quando non si riesce a capire la gravità e la matrice culturale del problema che si ha di fronte. Infatti, uno dei punti cardine del patriarcato è proprio aspettarsi che gli uomini siano eterni bambinoni, in modo da poter giustificare qualsiasi loro azione, anche le più sconsiderate, come in questo caso. Il famoso “boys will be boys”. Mentre dalle donne, fin dalla tenera età, ci si aspetta compostezza e maturità. Non è un caso che, quando una donna ha le sue prime mestruazioni, le venga detto “ora sei diventata signorina!”: per lei finisce l’infanzia, è tempo di maturare e di cominciare ad addossarsi tutte le colpe degli uomini. Ed è esattamente la situazione che ritroviamo analizzando la vicenda di Torino: una donna, padrona della sua sessualità, subisce una violenza di genere, ma il suo carnefice viene deresponsabilizzato. Lui può permetterselo, perché essendo nato uomo può continuare ad incarnare l’eterno bambinone immaturo e senza responsabilità sopracitato, mentre lei si merita la gogna per aver sfidato le regole della sessualità femminile imposte dal patriarcato. Questo è, dunque, ciò che viene chiamato “victimg blaiming”, ovvero la colpevolizzazione della vittima. Meccanismo subdolo che, non di certo per caso, viene adottato dall’individuo medio per approcciarsi ai casi di violenza di genere, in particolare quando si tratta di abusi e molestie sessuali. Chiedetevi se applichereste mai il victim blaiming ai casi di omicidio o furto: ovviamente non lo fareste, perché è un meccanismo nato apposta per umiliare e condannare le donne nonostante siano loro ad aver subito una violenza. Il victim blaiming è efficiente allo status quo, quindi va abolito e sradicato.

Non siamo state create dalla costola dell’uomo

In Italia, il revenge porn è diventato reato dal 19 luglio 2019, la pena prevede la reclusione da uno a sei anni e una multa da 5000 a 15.000€. Il carnefice ha risarcito la donna e ora sconterà un anno di lavori socialmente utili. Purtroppo, sarà la vittima a pagare il prezzo più alto della “goliardata” machista del suo ragazzo. E non finisce qui, perché il suo ragazzo, gli amici del calcetto e le altre mamme non sono state le uniche persone a violare la sua privacy: è proprio in questi giorni che gli oggetti di ricerca in tendenza su PornHub sono “maestra d’asilo” e “maestra italiana”. Questo significa che un numero copioso di utenti della piattaforma di porno mainstream più famosa al mondo ha digitato più volte sulla barra di ricerca il suo nominativo alla ricerca di un video condiviso non consensualmente. E questo deve far riflettere, perché su PornHub si trovano video di ogni tipo e per tutti i gusti, quindi se migliaia di persone hanno deciso di cercare un oggetto specifico – che, ribadiamo, era un video condiviso senza il consenso della protagonista – significa che la violenza di genere reale li eccita più della finzione. Perché guardare un video privato, proibito, su cui la persona che l’ha girato non ha più il controllo, fa sentire potenti quegli uomini piccoli, con un ego fragile, che credono che le donne siano degli oggetti sessuali creati per il loro piacere. Cosa credete abbia spinto il carnefice della storia di Torino a condividere il video della sua ragazza? Lui voleva esporla ai suoi amici come se fosse un trofeo – appunto, un oggetto – per potersene vantare. È sempre stato così, fin dall’alba dei tempi. Non è un caso che Eva sia stata creata dalla costola di Adamo: lei era il suo oggetto, nata solo ed appositamente per soddisfare i suoi bisogni e piaceri, per fargli compagnia. Anche durante le guerre avviene un fenomeno crudele: gli stupri di guerra. Il popolo vincitore, per affermare il suo potere sui vinti, compie degli orribili stupri a danno delle donne del popolo sconfitto (non solo, spesso anche a danno di bambini e uomini). E questo perché? Perché lo stupro è un mezzo di affermazione della propria autorità (solitamente maschile, ma non solo) su una persona che si trova più in basso nella gerarchia sociale (nella maggior parte dei casi donne, ma spesso anche altri uomini). Dunque, nel revenge porn, come nello stupro, la vittima diventa un oggetto agli occhi maschili. Che sia un oggetto da umiliare o da esporre come un trofeo, in entrambi i casi subentra la forte disparità di potere sociale tra uomini e donne.

Sorelle di genere, nemiche per scelta

Questa vicenda si differenzia dalle altre violenze di genere per un particolare: i carnefici non erano tutti uomini. Infatti, dopo che il video della maestra è stato inoltrato nella chat del calcetto, è finito tra le mani di una delle mamme dei bambini a cui insegnava. Lei l’ha inoltrato alle altre mamme, che l’hanno minacciata. In qualche modo, il video è arrivato nella chat della preside che ha deciso di licenziarla. Oggi si dice spesso che “le peggiori nemiche delle donne sono altre donne” e questa storia sembrerebbe confermarlo. Ma è davvero così? Sebbene molte persone credano che la competizione femminile sia innata, la realtà dei fatti è un po’ più complessa: siamo tutte e tutti immersi nella cultura patriarcale, ne subiamo una profonda influenza fin dalla nascita, fin da quando, appena nati, ci fanno indossare la tutina del colore stereotipicamente associato al nostro genere, dando per scontato che, crescendo, rispetteremo aspettative e ruoli di genere ben precisi. Alle bambine viene insegnato fin da piccole a competere fra di loro per l’attenzione maschile. Si sente spesso dire, ad esempio, che nelle classi scolastiche di sole donne c’è bisogno di un uomo che si ponga come mediatore di eventuali litigi femminili. Veniamo bombardate di concetti simili, da sempre. Ci convincono che saremo qualcuno solo se otterremo il consenso maschile, ed è questo che ci porta a competere fra di noi. La misoginia interiorizzata dalle donne è un meccanismo di adattamento alla società che le porta a denigrare ad altre donne, in modo da affermarsi su di loro e avvicinarsi il più possibile al genere maschile e da accedere ad alcuni privilegi. Il femminismo mira a smontare questa concezione errata delle donne competitive, perché non è quello che siamo, bensì quello che vogliono che noi siamo. La competizione tra donne è funzionale al mantenimento del patriarcato, perché è un metodo implicito per continuare a colpevolizzare il genere femminile. Ne è la conferma il fatto che si crede senza pensarci due volte allo stereotipo delle donne nemiche e competitive fra loro, ma quando si sposta il focus sulle responsabilità maschili si manifestano le prime esitazioni. Nessuno si sognerebbe mai di dire che gli uomini sono i nemici delle donne, e anzi, in tal caso si urlerebbe immediatamente al “sessismo inverso”: eppure i dati ci dicono che la violenza sulle donne perpetrata da uomini è un fenomeno sociale. Ovviamente, i nemici delle donne non sono gli uomini. È innegabile, però, che gli uomini abbiamo un maggior potere sociale: per questo, se fossero loro ad esporsi contro il patriarcato sarebbero paradossalmente più credibili di noi donne.

Né la prima né l’ultima vittima

Non è la prima volta che immagini private e intime vengono diffuse senza il consenso delle proprietarie. Pochi mesi fa è scoppiato lo scandalo dei famigerati gruppi su Telegram. In queste chat, gruppi di migliaia di uomini (e spesso anche donne) si scambiavano materiale pornografico non consensuale come se si trattasse delle figurine dei Calciatori Panini. Donne, inconsapevoli, che subivano veri e propri stupri virtuali. Su quei gruppi potrei essere finita io, o qualche mia amica, ed è uno dei prezzi da pagare per essere donne in una società patriarcale e misogina. E non è tutto: molte delle foto che venivano condivise erano semplici post presi da Instagram o dagli altri social network (che, oltretutto, in alcuni casi venivano spogliate con dei programmi appositi). Questo la dice lunga su come non siano la libertà sessuale e la nudità ad istigare gli uomini ad oggettificare le donne: nudes e foto di volti condividevano lo stesso oscuro destino sui gruppi di Telegram. La vicenda di Telegram mi colpì molto per un particolare. Gli uomini sui social continuavano a scrivere imperterriti “Not all men” in risposta alle femministe. La prima cosa che pensai è “non tutti gli uomini sono coinvolti e non tutte le donne sono finite sulle chat di Telegram. Eppure, molte di noi sono spaventate tanto da renderlo un problema di genere. Perché gli uomini non fanno lo stesso? Perché al posto di deresponsabilizzare e difendere a spada tratta il proprio genere di appartenenza non provano ad interrogarsi sul perché così tanti uomini – così tanti da rendere la violenza sulle donne un fenomeno sociale – si comportino in un certo modo?”

Ritornando al termine “goliardata”, è d’obbligo accennare il caso di Tiziana Cantone, ennesime vittima di revenge porn, la cui storia è terminata con il suicidio. Il ragazzo che ha deciso di gettare la maestra in pasto allo stigma sociale, ha mai pensato al dolore e al trauma psicologico che potrebbe averle causato? Se davvero le sue intenzioni fossero state goliardiche e innocue (“senza voler ferire” come ha dichiarato l’avvocato del diavolo), avrebbe quantomeno provato a fare un paragone con il caso Cantone. Perché una goliardata non ha nessun impatto psicologico e sociale sulla tua vita, il revenge porn sì.

Giorgia Brunetti

Fonti:

Primo comandamento: non rimanere incinta

Prima che l’attenzione mediatica fosse totalmente fagocitata dal covid due notizie avevano particolarmente attirato la mia attenzione: la prima riguarda le dichiarazioni di Matteo Salvini sulle donne richiedenti aborto che, a suo dire, intasavano i pronto soccorsi, la seconda riguarda un breve articolo di Milena Gabbanelli per il Corriere della Sera che sparava dati a tutto spiano sull’incredibile aumento di richiesta di pillola del giorno dopo, farmaco richiesto sopratutto dalle giovanissime. In entrambi i casi nella notizia non c’era nessuna contestualizzazione, nessuna analisi sociale, solo dati. Da entrambi i lati con stili e modi diversi si punta il dito su chi una gravidanza non la vuole e ricorre a metodi dell’ ultimo momento per evitarlo, si punta il dito con la supponenza dell’adulto che dall’alto dell’età sa che non si dovrebbe arrivare a tanto e che la contraccezione è una cosa seria. Nessuna riflessione sul perché questo accada? I diversi media stimolano solo una colpevolizzazione strisciante o palese per la ragazza X (noi la chiameremo Maria) che è andata a comprare la pillola.

È facile sparare a zero su Maria, più difficile è interrogarsi seriamente sul perché di tutto ciò.

La risposta è semplice ed è da ricercare in ciò che viene inculcato a Maria fin dalla più tenera età: non restare incinta prima dei 30 anni o la tua vita sarà rovinata, non troverai lavoro, non ti laureerai, avrai difficoltà relazionali… Allora la ragazza di 16/18/22 anni che fa? Fa di tutto per non restare incinta pensando che quello possa essere l’unico problema serio che possa incidere sulla sua vita. Ma è più un problema avere un figlio o l’HIV? Ed ecco qua la domanda con cui non ci si confronta mai.

Se il problema della ragazza è avere un figlio non si preoccuperà più di tanto se deve ricorrere alla pillola del giorno dopo. La pillola risolve il problema, la butti giù e via, hai risolto, tua mamma non si incazza e non diventi lo zimbello del paese. Il primo comandamento trasmesso alle giovani italiane non dovrebbe essere: “non procreare!” ma “sii sana!”.

Delle malattie sessualmente trasmissibili invece in Italia non si parla mai: in famiglia è un tabù, la scuola non si assume questa responsabilità e la comunicazione istituzionale è prossima allo zero. Per quanto tempo vogliamo rimanere così ipocriti? Cosa ci si aspetta dalla diciottenne/ventenne in questione? Che non abbia rapporti sessuali? Che scelga un uomo anch’esso illibato e ci rimanga legata a vita? Magari la nonna di Maria a vent’anni aveva già due figli, ma non era certo tacciata di essere una poco di buono. Avere una vita sessuale è normale come dovrebbe essere normale essere pienamente informati su rischi che si corrono… e invece no: buona parte dei ragazzini non sa nulla. Poche informazioni ovattavate fintate per caso da film, libri, conversazioni a mezza bocca dai più grandi. Io stessa ho sentito un ragazzo di ventiquattr’anni, figlio di medici, chiedere con candore: “Ah ma con l’AIDS non si nasce?”  

In molti licei si fanno iniziative su qualunque cosa: la mafia, i tumori al seno, i tibetani, i minatori del Kosovo… ma raramente qualche professore si prende la briga di sfiorare lo spinoso argomento delle malattie sessualmente trasmissibili. Eppure queste esistono, sono in crescita e nella buona parte dei casi la trasmissione è eterosessuale.

Se si riuscisse ad educare correttamente i più giovani su quale è il vero rischio di un rapporto non protetto di certo si ridurrebbero anche le gravidanze non desiderate, ma non solo. L’informazione sulle modalità di contagio, la diagnosi, le manifestazioni delle diverse malattie garantirebbe una prevenzione diffusa ed eviterebbe anche di stigmatizzare il malati come ancora troppo spesso avviene.

Il malato, infatti, potresti essere tu, il tuo vicino di casa o Maria, la quale pensando che due giorni prima del ciclo non sarebbe mai potuta rimanere incinta o non sapendo che si poteva ammalare poiché convinta che HIV fosse una malattia congenita, africana o scomparsa da decenni adesso sarà per sempre malata. Sulla Maria di turno sarà sempre facile puntare il dito, perché è giovane, perché è rimasta incinta, perché è malata. Eppure la colpa non è sua, ma della società che l’ha lasciata ignorante, di quella società che però continuerà a darle della poco di buono.

Eleonora Ciocca

La disillusione | Educazione sentimentale e di genere

Sabato 3 agosto si è svolto il quinto e ultimo appuntamento con La disillusione – le realtà in un mondo che cambia, ancora una volta nella location di Parco Schuster. Questa volta l’incontro verteva sull’educazione sentimentale e di genere. Gli ospiti sul palco (presentati dalla nostra Jovana Kuzman) sono stati: Andrea Maccarrone, attivista LGBTQI+; Maria Grazia Bonaldi, per l’associazione AGEDO ROMA – NO all’omotransfobia; Roberto Tufo, attivista per Unione degli Studenti; Gianfranco Goretti, presidente dell’Associazione Famiglie Arcobaleno.

Dopo una breve introduzione, con la visione del video del Pride 2019 (di Niccolò D’Alonzo) e il ricordo dei 50 anni dei moti di Stonewall, l’incontro è cominciato con l’intervento di Andrea Maccarrone.
Un intervento che si è focalizzato soprattutto sull’educazione di genere a scuola, partendo da una critica del sistema scolastico: sistema che dovrebbe formare in maniera più consapevole la società, partendo anche da una maggiore attenzione riguardo l’educazione sessuale. La questione più importante nell’intervento di Andrea Maccarrone si basa su un rapporto sano con la propria identità: evitare di nascondersi, sapendosi accettare per poter convivere meglio, oltre che con se stessi, anche con gli altri. In Italia la sessualità, e soprattutto l’omosessualità, vengono marchiate come tabù: negative, sospette. Lo scopo dell’educazione sessuale è proprio quello di conoscersi e conoscere gli altri, uscendo da determinati schemi e stereotipi. Da qui la menzione prima al genere intersessuale (genere che non si associa univocamente né a quello maschile né a quello femminile), poi un occhio di riguardo per l’emancipazione femminile: è necessario liberarsi dagli schemi che vedono la donna penalizzata nella realtà domestica e lavoratrice (violenza che ha una matrice psicologica prima ancora che fisica). Per Maccarrone, quindi, la soluzione sarebbe educare alle differenze, emancipando l’individualità da schemi precostituiti: la conoscenza è il vero antidoto all’odio.

Successivamente è stato il turno di Maria Grazia Bonaldi, rappresentante dell’associazione AGEDO. Associazione che, attiva sul territorio nazionale da ben 25 anni e con sedi in circa 25 città, si occupa di sostegno, informazione e confronto per i genitori dei ragazzi omosessuali. La nascita di questa associazione si deve proprio al bisogno dei genitori: per non sentirsi soli, per capire che non hanno sbagliato nulla, contrastando la dilagante ignoranza e disinformazione sull’argomento.

Roberto Tufo, invece, si focalizza nuovamente sull’ambiente scolastico e sul paradosso più grande: il fatto che la scuola non debba avere tabù su argomenti che riguardano tutti. Infatti, non si trova mai il tempo per confrontarsi su tematiche sociali: non c’è mai il tempo per parlare di sessualità e relazione all’affettività. Una critica velata anche al corpo docente: il più delle volte schivo e assente su determinate tematiche (molte volte anche in casi di violenza). Breve accenno, poi, all’opuscolo “che cos’è l’amor” sul sito dell’Unione Studenti: riguardante vari temi fra cui l’autoerotismo (soprattutto femminile), violenze di genere, coming out. L’obiettivo ultimo di questa iniziativa, conclude Tufo, è liberare le menti dei ragazzi da determinati stereotipi e tabù.

La parola passa, infine, a Gianfranco Goretti, che spiega come è nata e come agisce l’Associazione Famiglie Arcobaleno. Nasce nel 2005 per la volontà di una decina di coppie omogenitoriali di Milano con bambini di 1 o 2 anni, per confrontarsi e aiutarsi tra loro in un paese che, all’epoca, oltre a non avere diritti, non conosceva ancora nessun dibattito per le coppie omogenitoriali. Merito dell’Associazione, secondo Goretti, è stato proprio quello di creare dibattito e risvegliare quel desiderio sopito di genitorialità per tante coppie omosessuali (segno anche di una crescita di possibilità per l’individuo che, ai tempi di Goretti, quando aveva 14 anni, si limitavano alla clandestinità). Conquiste che, ribadisce Goretti, sono esclusivamente merito del movimento LGBTQI+,  in un paese che, oltre alla legge 40/2004 sulla fecondazione assistita e la Cirinnà del 2016 sulle unioni civili (aspramente criticata, peraltro, dallo stesso Goretti, poiché tra le altre cose non viene riconosciuta la stepchild adoption), non ha trattato alcuna legge riguardo i diritti degli omosessuali. Intervento finito, poi, con una stoccata al Ministro della Famiglia Fontana (“negando le famiglie arcobaleno ammette che, in realtà, esistono”) e con una considerazione riguardo il momento: che non avvenga una battuta d’arresto nella lotta per il riconoscimento dei diritti e che la scuola sappia fare un buon lavoro di inclusione e progettazione sulla realtà presente (basandosi sulla sua esperienza personale con insegnanti che includevano i bambini provenienti da queste realtà; a differenza degli ultimi tempi, dove si prova una certa diffidenza).

Emiliano Pagliuca