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Il nostro futuro non deve essere grigio

Mi chiamo Arianna e finalmente, dopo sei lunghi anni, sono un medico abilitato.
Ben prima di indossare il camice, però, ho imparato cosa voglia dire essere abbandonati dallo Stato e dalle Istituzioni, le quali dovrebbero tutelarmi e tutelarci.
Sono infatti cresciuta in una scuola dove mi ripetevano che «voi giovani siete il futuro di questo Paese», non avendo però mai accennato che, al di là delle belle parole, lo Stato, i politici, le Istituzioni non hanno alcun interesse nei giovani: in effetti, quando c’è da tagliare per risparmiare, si inizia sempre dalla scuola e dall’educazione.

Da quando ho memoria, ho sempre voluto fare il medico: mi piace il contatto con le persone, il poter rendermi utile, investigare sui problemi e aiutare a risolverli, l’individualità della patologia di ogni singolo paziente, la continua necessità di rimanere aggiornati sulle nuove scoperte e a volte persino di dover mettere in dubbio nozioni certe fino a poco prima, perché questo è il metodo scientifico.
Da quando ho memoria, ho sempre sentito dirmi che medicina è difficile e che è lunga e che ci sono i raccomandati e che le donne non sono considerate al pari degli uomini: la mia testardaggine ha comunque vinto e mi sono iscritta al test di ingresso.

Era il 2013, ma lo ricordo come se fosse ieri: era l’anno del bonus maturità, quei punti bonus relativi al voto di maturità, calcolati sulla base di tutte le valutazioni dell’intero Istituto Scolastico. Sono sempre stata una ragazza studiosa e di conseguenza ero davvero contenta di poter ricevere un riconoscimento per il merito al voto di maturità e all’intera carriera liceale, dedicandomi ancora di più per ottenere il massimo a cui potessi ambire.
Ovviamente, passai anche tutta l’estate a prepararmi per il test di ingresso a medicina, ben conscia che la modalità crocette non fosse il mio cavallo di battaglia, piuttosto un cavallo di Troia.
Iniziai il test con ben 7 punti su 10 di bonus maturità, svolgendolo cosciente di questo “vantaggio”, potendo quindi evitare di sbagliare risposte su cui ero indecisa e rischiare di perdere punti. Uscita dall’esame, venni a sapere che durante la prova i ministri si erano riuniti abolendo il bonus maturità. Scusate se mi ripeto: durante la prova.
Non credo sia necessario descrivere il mix di rabbia e di incredulità che causò quel momento, a me come a tanti altri. Lo Stato, che avrebbe dovuto tutelarci, cambiò senza preavviso le regole durante una prova nazionale: quello fu il primo momento in cui mi resi conto che noi «voi giovani» non siamo il futuro. Non siamo nulla.

Seguirono ricorsi per l’incostituzionalità di ciò che avevano deciso e nel frattempo mi iscrissi all’Università di Parma, dovendo fare la pendolare per tutto il primo anno.
Vinsi poi il ricorso e, riottenendo il mio bonus, riuscii a trasferirmi nella mia prima scelta, nella mia città, nella mia Bologna. A causa del trasferimento, però, rimasi leggermente indietro con alcuni esami, perché, nonostante la graduatoria sia nazionale, lo stesso corso di laurea è diverso nelle diverse università.

 

Tra queste difficoltà, iniziai comunque medicina a Bologna. Chiunque conosce la mole di studio e la difficoltà degli esami (t r e n t a c i n q u e) e dei tirocini a medicina, ma ciò su cui vorrei soffermarmi è che in sei anni di vita possono accadere molte cose. Le più banali, come un amore che finisce. Purtroppo, anche le più serie: i genitori possono ammalarsi, come mia mamma che ha rischiato di morire per un infarto, o come mio padre che, rompendosi il tendine d’Achille, non ha potuto lavorare per mesi, lui, il libero professionista che porta a casa il pane; i traslochi, che si presentano maledettamente nei momenti meno opportuni, i tre che ho dovuto affrontare nel giro di un anno e mezzo, mentre i miei genitori continuavano con i propri problemi di salute. Sono chiaramente eventi che cambiano, che colpiscono improvvisamente e che fanno dubitare di te stessa; eventi a cui bisogna reagire in modo rapido e fermo, perché gli appelli d’esame non aspettano nessuno, le lezioni non si fermano, molti non possono permettersi economicamente di finire fuoricorso e dover pagare altre tasse. Tutto questo, credetemi, non è semplice da sopportare. In sei anni può accadere di avere momenti di sconforto e difficoltà, anzi penso sia inevitabile, ma bisogna trovare la forza di superarli. Altrimenti vieni lasciata indietro.

Finalmente arriva la tanto desiderata Laurea, per me luglio 2019, perfettamente in corso, ed è una giornata stupenda. Finalmente posso diventare un medico…
No! Non sono un medico finché non svolgo altri tre mesi di tirocinio post-laurea e non supero un esame di abilitazione a crocette con database pubblico, come a dire che sei anni di studio e una laurea non valgono nulla se poi non si conoscono a memoria le risposte a 6000 domande pubblicate su internet, alcune addirittura errate. Così, sei mesi dopo la laurea, bisogna fare anche questo quiz a crocette, pur sapendo già di passare, perché il 99,7% dei candidati supera l’esame.
Quest’anno, con la pandemia in corso, si sono resi conto che incatenare migliaia di neolaureati nel limbo dell’esame di abilitazione sarebbe stata una scelta assurda, decidendo quindi di rendere la laurea in medicina abilitante per tutti. Molto bene non dover più aspettare minimo sei mesi per lavorare. Molto male che sia stata necessaria una pandemia per farlo capire alla classe politica.

Oggi, a quasi un anno dalla mia laurea, sono un medico abilitato. Ma abilitato a cosa? In teoria a tutto, in pratica a nulla: posso sostituire i medici di medicina generale, prescrivere farmaci ed esami, lavorare come guardia medica, ma non posso avere un contratto degno di questo nome e di fatto non posso iniziare a costruirmi una vita. Sono una professionista precaria a tutti gli effetti.

Per avere un contratto devo avere una specializzazione, e per entrare nella scuola di specializzazione devo affrontare, ahimè, un altro cavallo di Troia. Essendo l’ingresso a medicina programmato, penserete che il numero di laureati sia almeno paragonabile al numero dei contratti di specializzazione, garantendo così il diritto costituzionale al lavoro e alla formazione degli specialisti, ai quali un giorno vi rivolgerete per essere curarti, garantendo il vostro diritto costituzionale alla salute.

Invece pensate male: da diversi anni le borse di specializzazione sono insufficienti a coprire il numero dei laureati in medicina e solamente lo scorso anno circa 10000 medici non hanno potuto continuare il proprio percorso formativo, i cosiddetti camici grigi; molto probabilmente, si ripeteranno questi numeri anche quest’anno, se non cambierà qualcosa.

Ed eccomi qui, come nel 2013, mi sento nuovamente abbandonata dallo Stato, dai politici e dalle Istituzioni, ma questa volta oltre il danno la beffa: è davvero possibile che esistano politici che gridano al libero accesso alla scuola di medicina? Conoscono davvero le problematiche del nostro Paese?
Se fossero davvero interessati al bene della Sanità e dei Cittadini, dovrebbero gridare che non mancano i medici, mancano gli specialisti! Sì al numero chiuso a medicina e no ai camici grigi! Che senso avrebbe sfornare migliaia di medici se poi non possono diventare specialisti? Se poi non viene garantito un lavoro?

Nei prossimi anni ci sarà un ricambio generazionale di medici specialisti e di medicina generale mai visto fino ad oggi. Questo lo sanno tutti, anche lo Stato, i politici, le Istituzioni, ma per far fronte a questa mancanza è necessaria una riforma: lo meritiamo noi come professionisti e voi come cittadini.
Il nostro futuro non deve essere grigio.
Qualcosa deve cambiare, e deve cambiare adesso.

Arianna Novellis

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Materia Grigia

In oltre 20 città italiane il 29 Maggio noi medici siamo scesi in piazza per far esplodere il tema centrale del futuro della sanità pubblica. L’emergenza Covid ci ha consegnato la fotografia di una sanità al collasso, una situazione che era già era allo stremo prima dell’avvento del nuovo Coronavirus e di tutte le sue conseguenze. Negli ultimi dieci anni sono stati tagliati alla sanità oltre 37 miliardi di euro, praticamente un’intera finanziaria. Una percentuale importante di nuovi abilitati alla professione medica sono fermi in un limbo poiché non possono accedere alla formazione specialistica a causa della carenza di fondi statali e ad una miope programmazione. Quest’anno nonostante l’irrisorio aumento del numero di borse di formazione ci saranno probabilmente oltre 10000 medici che non riusciranno a continuare il loro percorso a fronte di un fabbisogno di medici specialisti che la Conferenza Stato-Regioni ha stimato essere circa di 27.000 unità. Tuttavia non siamo scesi in piazza solo per raggiungere il rapporto 1:1 tra nuovi laureati e posti in scuola di specializzazione, lo abbiamo fatto anche per ribadire che durante la specializzazione dobbiamo essere tutelati e che il contratto attuale permette troppe storture per gli specializzandi, i quali non hanno diritto alla rappresentanza sindacale non hanno diritto allo sciopero, alla maternità o alla malattia come tutti gli altri lavoratori. Di seguito riportiamo delle testimonianze che sono arrivate al nostro coordinamento da studenti, medici bloccati nel limbo (anche detti comunemente “camici grigi”), medici specializzandi e pazienti.

STUDENTESSA:

Sono una studentessa di medicina ormai al quinto anno. Qual è il problema più grande? Che non so se mai riuscirò ad entrare in scuola di specializzazione, perché il numero di borse, come tutti sappiamo, è insufficiente! 

“CAMICI GRIGI”:

Mi chiamo Luca e sono un medico, un “camice grigio” veneto. Mi sono laureato perfettamente in tempo, nonostante una vita universitaria passata a lavorare e a fare il pendolare. Sono rimasto intrappolato nell’imbuto formativo un po’ per scelta, un po’ per circostanza. L’anno scorso risultai vincitore di una borsa, volendo, anche nella specialità per cui mi sento più portato ma, a causa di un incidente piuttosto grave, non mi sarei mai potuto spostare di casa. Se il sistema mi avesse permesso quantomeno di restare nel mio territorio, probabilmente avrei preso la mia strada, seppur con difficoltà. Dopo qualche mese di convalescenza sono tornato a lavoro, con difficoltà ho affrontato le mie nuove disabilità, fortunatamente lievi e in lenta regressione, e attualmente sono tornato a fare il medico sostituto MMG e il ricercatore, seguendo le attività del professore che all’epoca della laurea mi fece da relatore. Le soddisfazioni sono tante e i risultati importanti; sto costruendo, in effetti, un curriculum di tutto rispetto. Peccato che tutto questo non valga nulla, peccato che le nostre competenze vengano valutate da un test in stile quiz televisivo. Peccato che ci sia posto solo per un medico su due e che, anche nell’ipotesi di vittoria al concorso, poi si perda con altissime probabilità la possibilità di continuare a lavorare sul proprio territorio, in una rete di collaborazioni già avviata. Peccato che all’avvicinarsi dei 30 (per qualcuno anche già superati) si venga trattati ancora da studentelli, sfruttati in ospedale per tappare buchi e spostati come pedine dello scacchi da una sede all’altra, senza alcuna considerazione per la nostra vita come persone. Spesso mi chiedo, quando mai potrò costruirmi qualcosa? Una famiglia? Una casa? Non c’è veramente alcuna alternativa al sacrificare tutti noi stessi sull’altare della professione, o siamo noi a non vedere e pretendere un futuro migliore?

Sono un medico precario a partita iva, come tanti miei colleghi ho provato ad arginare il caos che il covid 19 ha generato, ho sentito gli applausi fragorosi provenire dai balconi delle abitazioni e sono stato definito “eroe”. Non mi sento un eroe, ho svolto il mio lavoro con passione e umiltà ed ora mi sento tradito e umiliato da un sistema che non mi consente di completare il mio percorso di formazione.

SPECIALIZZANDI:

Sono stata specializzanda di chirurgia e ho dovuto rinunciare alla borsa perché ero costretta a lavorare 15/16 ore al giorno (dalle 7:30 alle 23, vi assicuro che non esagero) tutti i giorni (lun-ven) + 2 weekend al mese (lavorando ininterrottamente per 14 gg 15/16h con un turno di reperibilità di 72h non stop). Condizioni disumane, orari alienanti. Responsabilità di gestione di interi reparti, con guardie notturne in totale autonomia già durante i primi tre mesi del primo anno. Possibilità di un futuro nel reparto in cui ero: nulle. Formazione neanche lontanamente garantita, solo bieco sfruttamento, peraltro apertamente sessista. Sono delusissima e arrabbiatissima. Io, in un mondo cosi, non sono disposta a lavorare: altrochè coronamento di un sogno, in molti casi si tratta di un incubo.

Lavoro senza timbrare il cartellino fino a 80 ore a settimana. Chi ha figli semplicemente non li vede , non li cresce e non si riposa mai. E avere figli nella fascia di età 25-30 dovrebbe essere la normalità, non un’estenuante corsa a ostacoli. Nessuna possibilità di uscire prima occasionalmente per colloqui a scuola, nessun permesso per malattie, nessun diritto.

PAZIENTI:

Sono una cittadina che usufruisce del SSN presso un centro regionale per la cura della Psoriasi, vengo seguita da ottimi specialisti, purtroppo fra non molto andranno in pensione. Chiedo il potenziamento delle borse di studio per specializzandi per permettere a noi cittadini di essere curati c/o le strutture SSN.

Per motivi di salute sono stata paziente oltre ad essere dipendente e di pecche ne ho trovate e vissute sia nell’una che nell’altra esperienza fermo restando che il nostro è il miglior sistema sanitario al mondo a mio avviso tutti dal medico al lavavetri hanno la loro importanza ed hanno diritto al riconoscimento del loro valore puntare su figure professionali sempre più specializzate senza però diminuirne il numero sarebbe un ottimo incentivo dare a tutti la possibilità di specializzarsi nella propria disciplina senza scalare montagne o sfidare mulini a vento forse non risolverebbe tutti i problemi ma sarebbe secondo me un ottimo inizio.

Manuel Colangelo

Chi ha paura del camice grigio

Mi chiamo Eva e sono un medico neoabilitato, praticamente un cucciolo di medico, ma pur sempre un medico. Quello del camice grigio è un neologismo ben impresso nella mia mente, che ha sempre gettato un’ombra cupa sul mio futuro, sin dal primo anno di università, quando di camici grigi ce n’erano ancora pochi. Il camice grigio è un medico che, per dirla alla Aldo, Giovanni e Giacomo, non può né scendere, né salire. È un medico che si è laureato, magari in tempo e magari a pieni voti. Un medico che ha superato l’esame di abilitazione ed è pronto per proseguire la propria formazione specialistica, fondamentale per acquisire abilità e autonomia nella cura del paziente. È un medico che però non ha passato il test di specializzazione, perché il punteggio ottenuto con quelle 140 crocette non gli ha consentito di entrare in graduatoria, o perché in graduatoria c’è entrato ma non nella specializzazione per cui si sente portato o non in una città ragionevolmente vicina a casa. Un medico che, senza specializzazione, può rendersi utile in maniera marginale, in un paese in cui, paradossalmente, c’è ormai da anni un bisogno disperato di medici specializzati. Un medico, che per sopravvivere tra un concorso di specializzazione e quello dell’anno successivo, accetterà impieghi di ripiego, come guardie mediche e sostituzioni di medici di base, mansioni certamente utili, ma assolutamente non ideali per il lungo periodo, in quanto non consentono alcun tipo di avanzamento, né in termini di formazione post-laurea, né in termini di carriera.

Un cittadino che abbia avuto a che fare con il Sistema Sanitario Nazionale (SSN) solo in quanto paziente, penserà che i camici grigi siano pochi casi sfortunati. Invece no, sono migliaia. Al concorso per le Scuole di Specializzazione in Medicina (SSM) del 2019 si sono presentati 18.773 candidati, ossia 18.773 medici pronti per iniziare a lavorare per il SSN, nel contesto di un percorso formativo che li portasse a diventare medici specializzati. Il numero di borse stanziate era 8.776. Ciò vuol dire che 10.000 medici sono rimasti in un limbo tra laurea e specializzazione e sono diventati i cosiddetti camici grigi. Questa situazione, che si ripropone ogni anno con numeri sempre più sconcertanti, non solo pone i camici grigi in una condizione di drammatica precarietà, ma costituisce anche una perdita inconcepibile in termini di spesa pubblica e di risorse. È come andare a comprare gli ingredienti per fare un dolce, passare tutto il pomeriggio a cucinare, riuscire finalmente a sfornare una torta deliziosa e gettarla dalla finestra solo perché non si riesce a fare lo sforzo di prendere un coltello dal cassetto per tagliarla. Uno spreco inutile e senza senso, oltre che un’ingiustizia. Cosa faranno infatti questi 10.000 camici grigi? Rimarranno tutti in paziente attesa del concorso successivo? La risposta banalmente è no. Molti, quelli meno propensi al martirio, scelgono di emigrare, regalando la propria formazione ad altri stati, che a differenza dell’Italia riconoscono la grande risorsa che costituiscono i medici neolaureati. 

Da ingenua mi sono interessata alla sorte dei medici neolaureati solo una volta iniziati gli studi universitari. Già al primo anno di medicina mi sono resa conto che qualcosa non tornava. Ogni anno, in Italia, si laureavano (e si laureano tutt’oggi) circa 8.000 medici e ogni anno i posti al concorso di specializzazione erano circa 6.000. Sarebbe stato quindi sufficiente possedere delle competenze matematiche elementari per capire che ogni anno sarebbero rimasti esclusi dalla specializzazione circa 2.000 medici, che si sarebbero accumulati nel corso del tempo. Sempre da studentessa ingenua, ero fiduciosa che le istituzioni avrebbero fatto qualcosa, perché si trattava di un problema troppo grave e troppo palese per venire ignorato. Invece è proprio quello che è successo, nessuno ha fatto nulla. Nessuno, nonostante le continue richieste, ha aumentato il numero delle borse di specializzazione. Nessuno si è preoccupato di noi. Nessuno si è preoccupato dei cittadini, ai quali, senza medici specializzati, non si può garantire un adeguato livello di assistenza.

Ho dunque passato la prima parte del mio percorso universitario con la paura di non entrare in specializzazione. Questa ansia ha fatto da sottofondo ad ogni esame che ho preparato e ad ogni tirocinio che ho frequentato. Avevo la preoccupazione costante di dover essere più brillante dei miei compagni, per poterli superare al test. È così che funziona: non basta essere bravi, bisogna essere migliori degli altri, è la legge delle graduatorie. Se non passi tu, forse passo io. Più tardi sono riuscita a calmare le mie ansie convincendomi che probabilmente, studiando abbastanza, avrei avuto buone chances di entrare, soprattutto perché molte delle specializzazioni chirurgiche non sono tra le più ambite e a me sarebbe andata bene una qualunque chirurgia. Ma c’era ancora qualcosa che non mi convinceva e ho iniziato ad informarmi in maniera più specifica sulla formazione chirurgica. 

Ho scoperto che in Italia, chi esce da una Scuola di Specializzazione chirurgica spesso non è in grado di operare, perché non viene dato spazio sufficiente alla formazione. Lo specializzando viene lasciato in reparto e viene sfruttato per coprire i turni. Alla fine del suo percorso spesso non raggiunge le competenze tecniche normalmente richieste ad un chirurgo.  Oltre a ciò succede quello che succede anche in tutte le altre branche di specializzazione. Il concetto di “straordinari” non esiste: anche se si è medici lavoratori a tutti gli effetti si percepisce una borsa di studio e non uno stipendio, per cui tutte le ore in più, che solitamente non sono poche, non vengono retribuite (fatto doppiamente vantaggioso per la ASL che può contare sul lavoro degli specializzandi, senza l’onere di retribuirli direttamente). Non esiste un regolamento relativo alle ferie e le tutele per la maternità sono quasi inesistenti.

Non è una prospettiva allettante. Tuttavia, il mantra che ci ripetiamo e che ci ripetono dai primi giorni di università è che se c’è la passione c’è tutto. L’importante è fare quello che ti piace e questo ti deve bastare per ritenerti fortunato. Io di passione per la chirurgia ne ho e ne avevo. Così non mi sono persa d’animo e ho cercato di rendere la mia formazione universitaria il più completa possibile. Ho studiato con impegno e costanza, senza mai rimandare un esame, e ho iniziato a cercare opportunità di tirocinio all’estero, dove si sa, già dall’università viene data più importanza alla pratica. Sono così finita, da studentessa, in sale operatorie francesi e tedesche. Ho imparato a fare da terzo e da quarto operatore, anche da secondo per gli interventi più piccoli. Praticamente, da studentessa alle prime armi che ero, svolgevo i compiti ai quali aspiravano gli specializzandi in Italia. Inoltre vedevo tante chirurghe, che nelle mie esperienze precedenti erano state figure alquanto rare.

Non stupisce quindi, come lentamente sia nata in me l’idea di fare la specializzazione all’estero. Per lungo tempo è stata soltanto un’opzione annoverata nel ventaglio delle possibilità, come un salvagente che tenevo pronto, nel caso fossi entrata nel limbo dei camici grigi. Tuttavia, dopo l’Erasmus in Germania, è diventata una scelta. Mi sono innamorata del posto e anche di un ragazzo a dirla tutta, per questo ho scelto di tornare là una volta laureata. Il fatto di avere là qualcuno che mi aspetta non mi fa sentire un medico in fuga. Non sono una di quelli che emigrano perché non hanno alcun tipo di possibilità lavorativa in patria. Potrei passare il test, o forse no. Ma anche se lo passassi e riuscissi ad iniziare la specializzazione in una città vicino a casa, ne varrebbe la pena? Voglio davvero avere orari di lavoro estenuanti, senza imparare realmente il mestiere? Voglio davvero venire sfruttata ricevendo una paga misera, da cui devo sottrarre le tasse universitarie? Si sa infatti che gli specializzandi pagano le tasse come studenti, ma vengono sfruttati come lavoratori. La risposta che mi sono data è che non ho voglia di affrontare tutto questo, se non è strettamente necessario, se ho comunque altre possibilità.

Come ho già detto, però, non penso che la mia sia una fuga. Ho trovato la mia strada all’estero e ho deciso di percorrerla. Forse avrei fatto la stessa scelta anche se la situazione in Italia fosse stata più rosea. Quello che mi fa soffrire è che, a queste condizioni, non mi è neanche venuto il dubbio di voler restare in Italia. Non ho dovuto stilare nessuna lista dei pro e dei contro, perché i pro abbondano in maniera spropositata per l’estero. Gli unici pro per l’Italia sono il fatto di poter parlare la mia lingua e di essere vicina alla mia famiglia, ma questo non ha nulla a che fare con la qualità della formazione specialistica. Continuo ad essere convinta che sia più facile imparare il tedesco che affrontare il test ed eventualmente la specializzazione in patria.

Con ciò non voglio dire che il percorso di specializzazione all’estero sia tutto rosa e fiori e che stenderanno il tappeto rosso al mio arrivo. Semplicemente, andando in Germania, ho l’opportunità di essere riconosciuta per il medico che sono, di avere un lavoro retribuito tramite stipendio, straordinari pagati e soprattutto ho l’opportunità di imparare realmente il mestiere che voglio fare e per cui ho studiato 6 anni della mia vita. Mi sembrano le condizioni minime che ogni medico dovrebbe esigere. Invece no, in Italia abbiamo la brutta abitudine di farci bastare la passione e la gratitudine, che sono sentimenti nobilissimi, ma non possono essere un surrogato della retribuzione e delle tutele sul lavoro. Lo abbiamo visto di recente con l’esaltazione delle nobili virtù del personale sanitario durante l’emergenza Covid. Medici ed infermieri sono stati chiamati “eroi”. Ma cosa se ne fanno degli applausi questi “eroi”, se non hanno condizioni di lavoro dignitose?

Anche per questo venerdì 29 maggio sono scesa in piazza a protestare. Perché non ci siano più camici grigi, perché il percorso di specializzazione diventi un vero percorso formativo, perché agli specializzandi venga riconosciuta la dignità di lavoratori e perché si continui a dare valore al SSN e a tutti i suoi lavoratori, affinché a ognuno vengano garantite le cure di cui ha bisogno. 

Eva Bonetti

Sanità for Dummies: GIMBE

Dopo aver analizzato il rapporto sullo Stato Sociale di Pizzuti, passiamo a un rapporto più pesante, più specifico e allo stesso tempo ancora più critico: il rapporto presentato da Nino Cartabellotta, presidente della fondazione GIMBE.

Perché questo rapporto è ancora più importante di quello presentato davanti a diverse figure istituzionali? Perché si tratta sia di un rapporto che tratta solo di sanità, mentre quello sullo Stato Sociale come ribadito trattava anche di Quota 100 e del Reddito di Cittadinanza, ma anche perché oltre a esporre una critica che comprende tutti gli aspetti del Sistema Sanitario Nazionale (SSN), propone anche quali dovrebbero essere le riforme da implementare.

Il rapporto raggruppa le problematiche del SSN in 4 gruppi principali: definanziamento pubblico, sostenibilità ed esigibilità dei nuovi LEA, sprechi e inefficienze, espansione del “Secondo Pilastro”.

Sul definanziamento pubblico il rapporto ribadisce ciò che già centinaia di altri rapporti, studi, analisi ecc… hanno segnalato, negli ultimi 10 anni l’SSN ha subito un gigantesco definanziamento che secondo GIMBE stesso va ad attestarsi attorno ai 37 miliardi di euro, aggravata dal fatto che nei prossimi 3 anni si prevede un ulteriore definanziamento della spesa sanitaria/PIL dal 6,6% al 6,4% e dal fatto che l’aumento netto che prevede la Legge di Bilancio di 8 miliardi di euro non è sufficiente a pareggiare con l’inflazione (0,9% rispetto all’1,07%). Ci soffermiamo soprattutto sull’ultimo punto perché scritta così appare come dei numeri scritti a caso e che si contraddicono tra di loro. Quello che accade molto semplicemente è che nel caso del rapporto spesa sanitaria/PIL, i fondi investiti nella sanità non riescono a tenere il passo del PIL, comportando quindi un rapporto in percentuale inferiore, tutto questo ovviamente con il Governo che di fatto ha comunque aumentato i fondi erogati all’SSN. Nel caso dell’inflazione quello che succede è che l’aumento di fondi in percentuale è inferiore all’aumento dei costi in sanità dovuto all’inflazione (appunto i fondi sono aumentati del 0,9% ma i costi per sostenere la sanità sono aumentati del 1,07%). In poche parole, i fondi erogati non riescono a stare al passo in rapporto ne con il PIL ne con l’aumento dei costi complessivo.

Prima di analizzare il secondo punto invece va spiegato prima cosa sono i LEA: i LEA sono i Livelli Essenziali di Assistenza, ovvero quelle prestazioni che l’SSN è TENUTO a fornire a tutti i cittadini, gratuitamente o dietro il pagamento di una quota di partecipazione (ticket).
Quello che GIMBE segnala in merito ai LEA è che pur avendo una delle gamme più ampie di LEA a livello europeo, il continuo definanziamento dell’SSN determina che questo primato sia solo sulla carta e che quindi non solo non si possano erogare una parte dei LEA già previsti ma che non si possano aggiungere quelli nuovi.

Sugli sprechi il rapporto semplicemente riporta quanto gravano le inefficienze dal punto di vista monetario e che si attestano attorno ai 22 miliardi (include: sovra-utilizzo di servizi e prestazioni inefficaci o inappropriate, frodi e abusi, acquisti a costi eccessivi, sottoutilizzo di servizi e prestazioni efficaci e appropriate, inefficienze amministrative e inadeguato coordinamento dell’assistenza).

L’analisi sul “Secondo Pilastro”, ovvero sul contributo della sanità privata, segnala come la mancanza di una normativa completa ha permesso a quello che dovrebbero essere dei fondi integrativi (fondi erogati per coprire i costi delle prestazioni non incluse nei LEA) di diventare fondi sostitutivi (fondi erogati per coprire il costo delle prestazioni incluse nei LEA ma ottenute tramite privati per libera scelta o per impossibilità) e ha introdotto cospicue agevolazioni fiscali a chi li eroga. Oltre alla problematica dei fondi, la frammentazione della normativa ha prodotto anche un sistema per cui gli intermediari assicurativi possono erogare “pacchetti” assicurativi per prestazioni superflue, aumentando il consumismo sanitario e mettendo a rischio la salute.

Oltre a queste quattro colonne principali, Nino Cartabellotta ha sottolineato anche due altre problematiche, una prettamente politica e una “ambientale”. Su quelle politiche soprattutto si sofferma sottolineando come sia presente una totale apatia da parte dei cittadini verso la situazione dell’SSN, ma anche come manchi un reale movimento e una coscienza che li spinga a difenderlo. Anche gli stessi partiti e governi sono oggetto di critica da parte di Cartabellotta, in quanto li accusa di aver voluto sostenere continui tagli sulla sanità per sopperire ai vari pareggi di bilancio pensando che l’ottima prestazione dell’SSN sarebbe stata sufficiente a reggere il colpo o che al massimo i governi successivi avrebbero dovuto raccoglierne i cocci. Dal punto di vista “ambientale” invece critica la mancanza di una leale collaborazione tra Stato e Regioni, aggravata dalla discussione sull’autonomia differenziata e l’assenza di un piano per contrastare uno stile di vita che aumenta il rischio di sviluppare malattie.

Da questo rapporto si evince una certa affinità con quello sottolineato dal rapporto sullo Stato Sociale di Pizzuti in quanto criticano entrambi la volontaria e continua privatizzazione dell’SSN ma, come detto, con un passaggio ulteriore in cui si sottolinea la totale assenza di volontà politica di riformare il sistema e la mancanza di una visione complessiva.

Infine, vanno segnalate le proposte del rapporto GIMBE per affrontare tutte queste problematiche:

 Mettere la salute al centro di tutte le decisioni politiche non solo sanitarie, ma anche ambientali, industriali, sociali, economiche e fiscali.

– Rilanciare il finanziamento pubblico per la sanità ed evitare continue revisioni al ribasso.

 Aumentare le capacità di indirizzo e verifica dello Stato sulle Regioni nel rispetto delle loro autonomie.

– Costruire un servizio socio-sanitario nazionale, perché i bisogni sociali condizionano la salute e il benessere delle persone.

 Ridisegnare il perimetro dei livelli essenziali di assistenza secondo evidenze scientifiche e princìpi di costo-efficacia.

– Ridefinire i criteri di compartecipazione alla spesa sanitaria ed eliminare il superticket.

– Lanciare un piano nazionale per ridurre sprechi e inefficienze e reinvestire le risorse recuperate in servizi essenziali e innovazioni.

– Avviare un riordino legislativo della sanità integrativa per evitare derive consumistiche e di privatizzazione.

– Regolamentare l’integrazione pubblico-privato e la libera professione secondo i reali bisogni di salute.

– Rilanciare politiche e investimenti per il personale e programmare adeguatamente il fabbisogno di medici, specialisti e altri professionisti sanitari.

 Finanziare ricerca clinica e organizzativa con almeno l’1% del fabbisogno sanitario nazionale.

 Promuovere l’informazione istituzionale per contrastare le fake news, ridurre il consumismo sanitario e favorire decisioni informate.

– Per l’attuazione del Piano di Salvataggio il Rapporto avanza proposte di riforme di rottura per l’attuale sistema di finanziamento, pianificazione, organizzazione ed erogazione dei servizi sanitari, auspicando possano informare sia la stesura del Patto per la Salute 2019-2021, sia le prossime decisioni dell’Esecutivo.

Andrea Zamboni Radić

Sanità for Dummies: Cosa ci dice Pizzuti?

“È ancora austerità!” Così tuona Felice Roberto Pizzuti, professore ordinario e direttore del master in Economia Pubblica alla Sapienza, davanti a diverse e importanti figure istituzionali come il Presidente della Camera Roberto Fico, il Presidente dell’INPS Raffaele Tridico e il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella.
Ma a cosa si riferisce Pizzuti? Beh, il titolo dell’articolo già risponde a questa domanda: alla sanità. Pizzuti nella presentazione annuale sullo Stato Sociale porta un rapporto di 500 pagine in cui affronta diversi argomenti, dal Reddito di Cittadinanza alla Quota 100, ma anche lo stato del nostro Sistema Sanitario Nazionale e su quest’ultimo si focalizza sul danno provocato dal welfare aziendale.

Prima di analizzare la critica del rapporto bisogna capire cos’è il welfare aziendale in generale e cos’è nello specifico per la sanità. Con welfare aziendale intendiamo l’insieme di piani e iniziative messi in atto dal datore di lavoro con l’obiettivo di migliorare il sentiment (opinione) del lavoratore. In termini teorici intendiamo il riconoscimento del valore del lavoratore (definito come capitale umano) nell’azienda, in termini pratici intendiamo una serie di servizi che migliorino la qualità lavorativa e di vita del lavoratore. Questi servizi possono essere sia per il singolo come sconti e promozioni, ma anche buoni per palestra, shopping ecc., oppure per la famiglia come buoni per l’istruzione, per l’asilo e anche per la sanità privata. Nel caso specifico della sanità parliamo di “buoni premio” che si aggiungono sul contratto dei lavoratori, ma che possono essere utilizzati solo in strutture sanitarie private e che sono generalmente detassati (ad esempio ipotizziamo che lo Stato prenda il 30% di tasse dalla paga del lavoratore, su questi buoni si ha una detassazione al 10% che ovviamente rende molto più appetibile il “buono” al lavoratore, guadagnando un 20% in più).

Proprio su quest’ultimo punto si imbastisce la critica di Pizzuti, il quale afferma nel rapporto che questo tipo di welfare aziendale toglie ogni anno ingenti risorse (stimate attorno ai 2 miliardi di euro) che potrebbero andare al Sistema Sanitario Nazionale, aggiungendo che questa scelta rientra in un piano più ampo in cui si cerca di orientare il lavoratore, incentivandolo, verso la sanità privata. A questa critica si oppongono in prima linea Confindustria e una parte dei sindacati confederali, dove entrambi affermano che è impossibile abolire questo contributo ai lavoratori senza incorrere nella loro ira, siccome proprio il lavoratore se dovesse scegliere 100 euro detassati al 10% da sfruttare nella sanità privata e 100 euro tassati al 30% sceglierebbe a occhi chiusi la prima condizione (n.d.r. dati citati come esempio da Confindustria). Il motivo per cui Confindustria si oppone ovviamente è dovuto proprio a una questione di “sentiment”, in quanto, come citato sopra, ottiene la fidelizzazione dei lavoratori, mentre una parte dei sindacati si oppone per il semplice motivo che se accettasse di abolire questi buoni sanitari rischierebbe di incontrare la dura opposizione dei lavoratori, molto spesso iscritti agli stessi sindacati. (Va sottolineato che queste posizioni non sono per niente oscure o nascoste, sono sempre esplicitate da entrambi i gruppi).

Ora qui arriva la questione centrale: chi ha ragione? Pizzuti o l’opposizione? Pizzuti ha innanzitutto ragione quando afferma tramite il rapporto che questo sistema contribuisca al definanziamento del Sistema Sanitario Nazionale e che rafforzi quello privato, ma bisogna comunque tener conto che le esigenze dei lavoratori si pongono come un ostacolo non indifferente. Il problema reale, comunque, è da ricercarsi su una particolare affermazione del rapporto, ovvero quella per cui questo farebbe parte di un piano sostenuto dai Governi a favore della sanità privata ed è qui che bisognerebbe affrontare la questione, se ci fosse una forza realmente interessata a cambiare questo, si riuscirebbe anche a intavolare una discussione in cui i lavoratori non si sentirebbero in perdita, ovviamente ad oggi, al di fuori delle associazioni, questo interesse non esiste.
Infine va segnalato che associazioni come “Dico32” e “Forum per il diritto alla Salute” hanno già proposto, prima ancora di questo rapporto, un’iniziativa di legge per affrontare il problema del welfare aziendale che magari affronteremo in un successivo articolo di “Sanità for Dummies”.

Andrea Zamboni Radić