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Storia di un corpo: i miei mostri

Il 6 maggio scorso, per la prima volta nella mia vita, il mio io più profondo si è ritrovato catapultato, nero su bianco, su un blog. È stato facile? No. Nemmeno per un secondo. Ma ne è valsa la pena. Per questo sono qui, di nuovo.

Io conosco due mostri: Ma e Divano Bianco

Mi accompagnano da sempre, dalla tenera età di due anni. Da quando li ho incontrati non mi hanno mai lasciata da sola. 

Ma è decisamente uno di quei mostri che si trasforma di continuo, l’ho incontrato in tante persone. Quelle che più ricordo, in modo nitidissimo e particolare sono due.

Una è la mia insegnante delle elementari, la temutissima (in realtà stronza, altre parole non ci sono) maestra di matematica, che chiameremo Margherita: mi ha sempre fatta sentire come un pesante macigno di 7 anni. L’altro giorno sfogliando il vecchio album di ricordi ho trovato una di quelle foto di classe in cui si è tutti pettinati e ordinati e, quasi sorpresa, ho detto a mia madre: “ero una bella bambina” (mai avrei pensato di dirlo). Poi ho spostato lo sguardo e l’ho vista. Erano anni che non vedevo quella faccia, e tutto d’un tratto mi sono sentita catapultata indietro nel tempo, seduta nel mio piccolo banco verde, il grembiule blu ben stirato, il colletto bianco, i capelli lunghissimi e la maestra Margherita di fronte a me che mi dice che dovrei fare sport, che dovrei muovermi, che sono una stupida. Mi è venuto il vomito a pensarci. Mi sono sentita in apnea per qualche secondo, poi mia madre mi ha fatto una domanda e sono ritornata nella realtà, mi sono girata per risponderle e lei ha visto la mia espressione, sgomenta, persa. allora mi ha stretto la mano. Non c’è stato bisogno di dire altro, aveva capito perfettamente cos’era successo.

La seconda persona che ricordo più che nitidamente, è l’infermiera del mio medico, che chiameremo Anna: avevo cinque anni, ero seduta in una sala d’attesa tappezzata di foto di bambini sorridenti, l’odore di disinfettante e caramelle per i bimbi più “coraggiosi”, quelli che si facevano la puntura senza piangere, per intenderci. Era giugno o forse luglio e faceva un caldo terribile, mi stavo annoiando a morte mentre aspettavo di essere visitata e stavo contando tutte le foto appese al muro. Ad un tratto Anna, capelli biondi cortissimi, molto alta e corpulenta, mi guarda e ghignando dice “guardati allo specchio, sei una vacca”. Avevo cinque anni. Io me lo ricordo ancora, come fosse ieri. 

Adesso che ci penso c’è una terza persona, il mio professore di educazione fisica delle medie, che un giorno ha deciso di esordire, tristemente, così: “Avanti Diana, muoviti, lo so che vorresti essere più magra”. 

E così vi sto riportando tutti gli stronzi che hanno fatto parte della mia vita, sin dalla tenera età. Tutti i miei “sei educata, intelligente, MA SEI GRASSA…”. Quelle che ho citato sono persone adulte. persone che avrebbero dovuto educarmi al rispetto per me stessa, che avrebbero dovuto complimentarsi per il mio modo di essere e non per il mio aspetto. 

L’altro mostro, Divano Bianco, non è proprio un mostro. È più uno stato d’animo al quale ho deciso di affibbiare un nome strano: “mi sento divano bianco”, per dire “mi sento abbandonata”. Sentirsi divano bianco, per una bambina circondata da persone troppo attente all’aspetto e troppo poco allo spirito, è cosa all’ordine del giorno. Ed io sono sempre stata divano bianco, quando invece avrei semplicemente voluto essere ascoltata, apprezzata per quel che ero. 

E così, me li sono portata dietro questi due amici mostri fino all’età adulta. Uno siede al lato destro, l’altro al lato sinistro. Spesso, prendono il caffè insieme, altre volte si scontrano per capire chi deve prevalere sull’altro. In mezzo a loro, ci sono io. 

Una postilla, doverosa: ho imparato, in questi brevi 23 anni di vita, che tutti sanno sentire, ma pochissimi eletti riescono davvero ad ascoltarti. Ed io di persone capaci di ascoltare, ad oggi, ne ho incontrate davvero troppe poche. E lo so, perché storia di un corpo non è soltanto la storia dell’involucro che ricopre il mio spirito, è la mia storia, e in pochi sono riusciti fino in fondo a capire cosa voglio dire quando scrivo: non è voglia di riconoscimento, riscatto, autocommiserazione. Niente di tutto questo. Io voglio soltanto comunicare che le parole hanno un peso specifico, molto più grande rispetto a quello di un corpo. 

Le parole, quelle sì, che vanno pesate. Accuratamente. 

Voglio soltanto far sentire meno sole le persone che non riescono a sentirsi apprezzate per quello che sono davvero DENTRO, non fuori. E vorrei anche dirvi che lì fuori il mondo è pronto per cambiare, è pronto ad ascoltare, ma vi direi una bugia enorme. Posso dirvi, però, che potete ascoltarvi voi. Potete stare seduti in una stanza e ascoltare attentamente cosa ha da dirvi il vostro corpo, potete perdonarvi per tutte le volte che non siete stati voi stessi in grado di ascoltarvi, per tutte quelle volte che vi siete rifiutati e non vi siete amati; per tutte quelle volte i vostri mostri hanno preso il sopravvento.

Noemi Diana

 

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