Quando la Storia muore a constatarne il decesso è un uomo affacciato alla finestra.
A celebrare le esequie della grande maestra di vita è un uomo a cavallo,non un uomo qualsiasi, ma l’esecutore di una sentenza, paradossalmente storica, quella della fine della Storia stessa.
“Ho visto l’imperatore, quest’anima del mondo […]” racconta il filosofo tedesco Friedrich Hegel, talmente coinvolto dalla visione di Napoleone Bonaparte, trionfante a Jena, da considerare tale momento uno spartiacque fondamentale.
All’apice della gloria napoleonica, l’umanità ha raggiunto la propria liberazione tramite una rivoluzione politica e, per Hegel, ciò che ne consegue non potrà che essere solamente una razionalizzazione ed una diffusione globale del nuovo ordine definitivo.
Passa quasi un secolo, quando un giovane professore russo, in fuga dalla rivoluzione bolscevica, approda a Parigi.
Anima poliedrica, nipote del celebre pittore Vasilij Kandinsky, Alexandre Kojève a poco più di trent’anni affabula ed ipnotizza la futura intellighenzia francese.
Chiamato a tenere dei seminari sulla “Fenomenologia dello Spirito” hegeliana, di cui dichiara di aver compreso poco o nulla, Kojève trae dall’opera del filosofo tedesco una trattazione fascinosa, capace di ammaliare il pubblico di studenti: La Fine della Storia.
Queneau, Bataille, Aron, Caillois, Leiris, Corbin, Merleau-Ponty, Lacan, Breton e Hannah Arendt.
L’avanguardia della filosofia novecentesca presenzia alle lezioni di quel bizzarro corso di filosofia delle religioni, trasformato da Kojève in una trattazione monografica della Fenomenologia dello Spirito, considerata un’opera impossibile da trattare solamente secondo una prospettiva religiosa separata.
La Fine della Storia coincide con la fine del desiderio di riconoscimento, con l’annullamento della dialettica, in favore di un ordine globale, uniformato sotto un progetto statale capace di garantire legalità e libertà.
Tale interpretazione porterà Kojève però a traslare il pensiero hegeliano nella propria contemporaneità.
É il 4 dicembre del 1937 quando, al Collège de socioligie, il professore svela ai suoi studenti il nuovo depositario dello spirito del mondo.
Roger Caillois, fra gli avventori abituali dei corsi del professore russo, racconta lo stupore della platea di studenti quando “Kojeve ci svelò quel giorno che Hegel, pur avendo avuto una giusta intuizione, si era sbagliata di un secolo: l’uomo della fine della storia non era Napoleone, ma Stalin”.
Vestire i panni del becchino della Storia, per quanto possa sembrare un ruolo infausto, ha continuato a garantire la notorietà di chiunque vi si prestasse.
Nel 1992 è il turno di un giovane dottore in scienze politiche, Francis Fukuyama, autore del saggio “La fine della storia e l’ultimo uomo”.
Nella sua trattazione il politologo americano riconosce nel sistema liberale a trazione statunitense l’evidenza della conclusione dei processi storici.
Il ragionamento che guida la tesi è pesantemente influenzato da Hegel: la guerra fredda ha rappresentato il culmine della dialettica politica fra due sistemi contrapposti.
Con la caduta del Muro di Berlino, secondo Fukuyama, il Comunismo sovietico palesa la propria insostenibilità lasciando al sistema democratico-liberale occidentale la possibilità di procedere alla sua espansione globale.
La lettura di Fukuyama ha necessitato di diverse revisioni dello stesso autore, messo pesantemente in discussione dallo scoppio della rivoluzione informatica e dalle numerose crisi e conflitti che hanno continuato a susseguirsi anche dopo la Caduta del Muro.
La marcia trionfate verso la democrazia globale, teorizzata dallo studioso in relazione ad una concezione della storia come moto universale verso il progresso, è stata palesemente disattesa: non solo nelle nuove prospettive, lontane dai dettami liberal-democratici, adottate da paesi come la Cina, ma anche nei due paesi al centro della legittimazione della tesi di Fukuyama stesso.
La Russia, dopo una prima apertura, traumatica, verso il mondo occidentale è ritornata suoi suoi passi e gli USA hanno dimostrato una sofferenza diffusa nella popolazione verso il ruolo di evangelizzatore mondiale, infrangendosi nell’esplosione delle proprie contraddizioni, sempre taciute a fronte del mandato imperiale e della potenza che ne derivava, ad oggi insostenibile.
Ma se la condizione a cui legare la fine della Storia sia da ricercare molto più profondamente, nella stessa condizione esistenziale dell’umanità?
Se la storia nascesse e morisse attorno ad un semplice, quanto fondamentale, atavico interrogativo ontologico: la Morte?
“La storia è iniziata quando gli umani hanno inventato le divinità e finirà quando gli umani diventeranno divinità” è una citazione dello storico israeliano Yuval Noah Harari.
Esperto di storia medievale e storia militare, il professor Harari è oggi particolarmente celebre per le proprie opere di storia del mondo ed il suo lavoro incentrato sui processi macro-storici.
Nel suo libro “Sapiens: Da animali a dèi” l’autore individua nella Rivoluzione scientifica l’ultima delle tre grandi rivoluzioni che hanno sostanzialmente segnato l’evoluzione umana: quella cognitiva, quella agricola ed infine quella scientifica.
Quest’ultima, che nasce dal riconoscimento dell’uomo della sua ignoranza, vede un unico grande fine: la sconfitta della morte.
Harari nelle sue pagine lancia quest’idea lapidariamente, riconoscendo come l’uomo si ostini a negare questo desiderio ed invitando però a non nascondersi dietro un dito.
D’altronde, evidenzia lo storico israeliano, tutte le filosofie moderne ed i paradigmi sociali che ne discendono hanno già manifestato un disinteresse palese per la tematica della morte: “Cosa accade ad un comunista dopo la morte? Cosa accade ad un cpitalista? O ad una femminista? Non ha senso cercare la risposta nelle opere di Marx, Adam Smith o Simon de Beauvoir”.
Oggi milioni di nano-robot possono essere immessi in un sistema cardio-vascolare umano ed aggredire alcune patologie, le tecnologie neurali permettono di esplorare possibilità mai immaginate e l’uomo, soprattutto, è completamente padrone del pianeta Terra, addirittura è diventato depositario di una potenza demiurgica che lo rende in grado incidere sull’ambiente stesso.
Nel momento in cui l’evoluzione ci porterà ad assumere sempre più prerogative che l’uomo ha sempre accostato solamente alle divinità, avrà ancora senso definirsi uomini, nell’accezione scientifica di homo sapiens?
Inevitabilmente, nel caso la prospettiva di Harari si concretizzasse, dovremmo porre una definitiva pietra tombale sulla Storia, intesa come narrazione e memoria collettiva di una collettività che sarebbe troppo differente da noi.
Se volessimo trovare infatti un motore fondamentale della Storia, questo potrebbe essere proprio la volontà di sfidare la morte.
La volontà di riunirci in gruppi sociali, di costruire villaggi, città e metropoli, il desiderio di costruire monumenti, di combattere e conquistare per la gloria, di lasciare un’impronta sulla memoria del mondo, cosa sono se non tentativi di superare ciò con cui l’uomo convive e si scontra fin dalla sua nascita: la fine della propria vita.
Cosa succederebbe, quando l’umanità, oramai invincibile anche sulla morte si troverà a doversi confrontare con se stessa?
La fine della Storia potrebbe non essere la fine delle atrocità, anzi.
La constatazione di Harari è incredibilmente inquietante e lascia presagire che alla fine della Storia possa annidarsi l’inizio di nuovi processi, imprevedibili: “ Siamo più potenti di quanto siamo mai stati, ma non sappiamo che cosa fare con tutto questo potere. Peggio di tutto gli umani sembrano più irresponsabili che mai”
Scavando nella mitologia, nelle epopee delle tradizioni religiose, vediamo come le divinità, nei momenti noia e negligenza, si dilettino nel creare e nel distruggere, nello sconvolgere e nel rivoluzionare.
Dalla solitudine divina può nascere nuova vita, come può dissolversi un mondo.
In quest’ottica l’interrogativo posto da Harari è particolarmente calzante: Può esserci qualcosa di più pericoloso di una massa di dèi insoddisfatti e irresponsabili che non sanno neppure ciò che vogliono?”