Qualsiasi forma di violenza esercitata sistematicamente sulle donne in nome di una sovrastruttura ideologica di matrice patriarcale, allo scopo di perpetuarne la subordinazione e di annientarne l’identità attraverso l’assoggettamento fisico o psicologico, fino alla schiavitù o alla morte. Il termine femminicidio fa uscire il fumo dalle orecchie a tanta gente che lo vede come una sorta di discriminazione nei confronti degli uomini. Si sente spesso dire “La morte di una donna per mano del compagno non è più importante di un uomo morto sul posto di lavoro”. Attenzione: qui nessuno sta cercando di creare una gerarchia dei morti. Il termine “femminicidio” sta ad indicare il movente dell’omicidio: una donna che viene uccisa in quanto donna. Il femminicidio comprende tutti quegli omicidi in cui un uomo (partner, compagno, marito, fratello, amico, uomo rifiutato etc) uccide una donna che ha osato riprendersi la sua libertà. Dunque, non tutte le donne che vengono uccise sono vittime di femminicidi. Il termine femminicidio ammette che ci sia un problema di sistema: non si tratta di omicidi generici, c’è una matrice patriarcale e misogina all’origine. Il concetto stesso di femminicidio implica che ci sia disparità di genere in una società. Quindi, quando urlate alla discriminazione maschile ogni volta che sentite il termine femminicidio, riflettete su quanto siete fortunati riguardo al fatto che non esista un corrispettivo maschile. E se credete che un termine specifico per il nostro omicidio in quanto donne sia un privilegio, ve lo concediamo volentieri.
La violenza di genere rappresentata dai media
Qual è il mezzo che permette di alimentare al meglio questo tipo di cultura? I media, naturalmente. Le testate giornalistiche mainstream italiane sono totalmente impreparate sulle questioni di genere. “Raptus di gelosia”, “Donna uccisa dal marito: lei non puliva né cucinava”, “Il gigante buono”, “La uccide perché la ama troppo”, “Ragazzine ubriache fradicie violentate dall’amichetto”. Questi sono solo alcuni esempi dei migliaia di titoli che riportano notizie di femminicidi e violenze sessuali. Converrete con me che è agghiacciante: titoli di questo tipo, in un paese egualitario sarebbero inammissibili, ma è evidente che in Italia siamo ancora indietro sulle questioni di genere. I media sono l’espressione della società in cui viviamo: disinformata, che non analizza le vicende, né riflette sulle conseguenze delle proprie azioni. Ci avete mai pensato a come si sente una survivor che legge un titolo del genere? Doppia violenza: prima da parte del suo abuser e in seguito da parte dei media. In relazione al caso Genovese, i media si sono sbizzarriti nel dipingerlo come un genio, il mago delle start up, un grande uomo d’affari che ora, poverino, dovrà fermare la sua attività perché ha stuprato una modella per ore! Ma non è la prima volta. Non è affatto raro che i giornali, ad esempio, per narrare la vicenda di un femminicidio, dopo aver dato un movente totalmente errato dell’omicidio (raptus di gelosia docet), descrivano l’omicida come un “marito devoto e padre amorevole”, quasi come se volessero far empatizzare il pubblico con l’assassino. Gli stessi giornali che, sulle pagine dei social network, non disattivano mai i commenti sotto i post delle notizie di femminicidi e altre violenze di genere. Come se si potesse avere un’opinione “diversa” sulla violenza. Sembrerà stupido e di poco conto, ma così facendo si legittima la possibilità di esprimere la propria idea su un fatto oggettivo che tutti dovrebbero condannare. Non si tratta di censura, ma di buon senso: non ci deve essere nessuna libertà di espressione sulla violenza, perché è questo che incoraggia il victim blaiming e lo slut shaming che nei commenti non mancano mai, e che a loro volta, incoraggiano la cultura dello stupro. Ma non è tutto: le testate giornalistiche, così come i loro assidui commentatori, non disdegnano la minimizzazione della violenza né la colpevolizzazione della vittima. “Il deejay con il vizietto”: è così che Il Mattino si riferisce a un deejay che ha stuprato per ore una donna. Perché lo stupro è un vizietto, non il frutto di un problema sistemico e culturale! O vogliamo parlare di Feltri che in prima pagina ci propone il titolo “Ingenua la ragazza stuprata da Genovese”, come se andare a un festino ed entrare in camera con un uomo gli desse il permesso di violentarla! E giù di victim blaiming. Ma del resto, parliamo di Libero, che con titoli e articoli discutibili, ci convive da tempo ormai. Purtroppo questi titoli non sono affatto l’eccezione, ma la regola, altrimenti non staremmo parlando di problema sistemico. C’è una forte ignoranza in materia di violenza di genere (ma in generale, riguardo le discriminazioni sociali) da parte dei media e questo non fa altro che fomentare la cultura dello stupro, poiché i tg e i giornali esprimono ciò che pensa l’opinione pubblica, ed è inconcepibile che si pensi che lo stupro possa essere provocato o che il femminicidio sia causato da un eccesso di gelosia improvvisa.
Per tutti coloro che saranno arrivati alla fine dell’articolo ancora convinti che il femminismo in Italia non serva più e che il termine femminicidio sia una forma di sessismo verso gli uomini, c’è altro da dire: le denunce. Le donne non vengono incoraggiate a denunciare per mille motivi: non ci sono prove, temono di non essere credute, l’iter da seguire è troppo lungo. Spesso sono anche gli stessi poliziotti a dissuadere la donne dalla denuncia. Rendiamoci conto: poliziotti, che dovrebbero esprimere autorità e sicurezza, rendono ancora più difficile (e talvolta umiliante) la denuncia. Anche da questo si può notare che è un problema culturale e soprattutto a livello di sistema: le forze dell’ordine sono esse stesse il sistema.
Noi abbiamo bisogno del femminismo. Sono anni che veniamo uccise, molestate e stuprate. L’abolizione del matrimonio riparatore e del delitto d’onore, così come gli altri diritti, non ci è stata certo concessa gentilmente. Il femminismo non è silenzioso (come piacerebbe al giornale “La Verità”), né tutto rose e fiori, è un movimento rivoluzionario che punta a sradicare la società per costruirne una il più paritario possibile. Non riuscirete a silenziarci, sebbene siano anni che ci proviate. Nel 2020 il femminismo è più vivo che mai, pronto a far crollare le vostre certezze. E alcune femministe sono arrabbiate, ma dopo millenni di patriarcato non potete biasimarci.
Lady Gaga, Rihanna, Halle Berry, Madonna, Asia Argento, Kesha, Loredana Bertè. Tutte queste donne hanno qualcosa in comune: hanno subito abusi e violenze da parte di uomini di cui si fidavano. La violenza sessuale è un’esperienza che accomuna quasi tutte le donne del mondo. Non a caso, tempo fa leggevo sui social un tweet “ogni donna ne conosce un’altra che ha subito violenza, ma nessun uomo conosce uno stupratore”.
Alberto Genovese era un imprenditore milanese che spesso organizzava dei party a casa sua. A queste feste partecipava tanta gente, finché non è venuto fuori lo scandalo. L’imprenditore stupra, tortura e filma una modella diciottenne per 20 ore di fila. Un uomo fa la guardia fuori dalla porta della sua stanza dove si consuma la violenza. Sembra quasi un thriller, uno di quelli dove c’è un serial killer psicopatico che stupra e uccide le donne perché ha un conflitto irrisolto con la sua ex fidanzatina del liceo. O con sua madre, e quindi punisce tutte le donne che le somigliano. Ma è tutto vero, e purtroppo per Alberto, non si tratta di psicopatia (anche se forse lui preferirebbe così, perché in tal caso potrebbero diminuirgli la pena per infermità mentale). Ovviamente, lui non ci ha pensato due volte a investire il suo denaro in ottimi avvocati. “Sono vittima della droga” è stata la sua prima reazione alle accuse, e tutto ciò è molto curioso, perché in nessun libro di psicologia clinica viene citato lo stupro tra i sintomi dell’abuso di sostanze stupefacenti. Lo sappiamo tutti, Alberto non è vittima della droga, così come non lo è della situazione, né tantomeno del sistema: è ricco, un imprenditore perfettamente integrato nella società. “Un figlio sano del patriarcato”, vi direbbe una femminista. Cresciuto perfettamente come la società patriarcale voleva. Il caso Genovese è particolarmente emblematico per analizzare a fondo la questione della violenza di genere. È molto facile immaginarsi lo scenario: un uomo ricco organizza delle feste, a cui partecipano molte persone, tante modelle. Alcune di loro vogliono divertirsi, altre probabilmente vogliono sbarcare il lunario nel mondo della moda sperando che un imprenditore le metta in contatto con le persone giuste. Per certi versi ricorda il caso Brizzi: il regista che organizzava dei provini per delle attrici, prometteva loro di metterle in contatto con delle agenzie. Dopo di che, il provino comprendeva una sorta di contatto sessuale. Ovviamente, dopo il “provino” non c’era nessuna chiamata a nessuna agenzia. Questi due uomini hanno qualcosa in comune: un grande ego direttamente proporzionale al potere che esercitano. Perché il problema sta tutto lì: è una questione di potere.
La violenza machista come espressione di potere
Non sono certo rari gli uomini potenti accusati di molestie sessuali. Donald Trump, Harvey Weinstein, Roger Ailes, Jeffrey Epstein, ecco alcuni nomi. Sono accecati dal loro potere, credono di avere il mondo nelle loro mani. E le donne sono comprese in quel mondo che loro possiedono. La maggior parte delle violenze sessuale nei confronti delle donne o di uomini avviene per mano di altri uomini. Sorge spontaneo chiedersi: perché? Cosa spinge una persona a esercitare una violenza sessuale? Lo stupro è, al contrario di come molti credono, un’affermazione di potere o in molti casi un metodo per umiliare la vittima. Dunque, il contatto o il sesso (non consensuale) sono solo i mezzi che permettono di esercitare questo tipo di potere. Ed è innegabile che gli uomini si trovino parecchi gradini più in alto rispetto alle donne nella gerarchia sociale. E se questo avviene tra persone comuni, non sarà difficile immaginare che più si sale di livello nella società, maggiore sarà il potere degli uomini. Perciò non c’è da stupirsi se un ricco imprenditore che stupra e tortura una ragazza per ore e ore trovera comunque qualcuno che lo difenderá: potere, denaro e privilegi gli permetteranno di uscirne il più pulito possibile. Avete capito bene: privilegi. Il privilegio è un vantaggio sociale. Nella società patriarcale occidentale la posizione più privilegiata possibile è quella del maschio bianco, etero, cisgender, abile e benestante. Attenzione: privilegio non significa non avere problemi nella vita. È indubbio che anche le persone più privilegiate possano avere una vita dura, ma avere un vantaggio sociale significa che alcuni aspetti della sua identità (genere, etnia, orientamento sessuale, etc) non influiranno mai negativamente sulla sua esistenza. Quindi, al posto di accusare il femminismo di colpevolizzarvi per il semplice fatto che vi pone davanti agli occhi la realtà dei fatti, sarebbe arrivato il momento di fare un’associazione tra posizione privilegiata nella società e violenza di genere. È arrivata l’ora di riflettere sulla fallace educazione che ci viene inculcata fin da quando siamo piccoli e sul perché gli stupratori sono sempre perfettamente a proprio agio con un tipo di cultura che sottomette le donne.
Cos’è la cultura dello stupro?
“Cultura dello stupro è il termine usato a partire dagli studi di genere dalla letteratura femminista e postmoderna, per analizzare e descrivere una cultura nella quale lo stupro e altre forme di violenza sessuale sono comuni, e in cui gli atteggiamenti prevalenti, le norme, le pratiche e atteggiamenti dei media, normalizzano, giustificano, o incoraggiano lo stupro e altre violenze sulle donne” (fonte: Wikipedia). Proviamo a pensare alla cultura dello stupro come se fosse una piramide. Alla base della piramide vi sono le discriminazioni sessiste più “lievi”. In primis vi è lo slutshaming, ovvero una pratica che consiste nel discriminare una donna che ha desideri ed una vita sessuale attiva. Lo slutshaming si esprime solitamente attraverso i tipici epiteti patriarcali e volgari usati per insultare le donne (ing. slut). C’è da dire che termini del genere sono ormai di uso comune nella vita di tutti i giorni e vengono spesso utilizzati anche per insultare donne in contesti che non hanno nulla a che vedere con la loro vita sessuale. Inutile dire che il corrispettivo di “troia” non esiste al maschile poiché la sessualità maschile è sempre stata incoraggiata, a dispetto di quella femminile che per secoli è stata ignorata, controllata dagli uomini e demonizzata dalle religioni monoteiste. Lo slutshaming è una forma di discriminazione molto comune, dubito fortemente che esistano donne che non siano mai state appellate in quel modo.
Oltre allo slutshaming, alla base della piramide troviamo il victim blaming, cioè la colpevolizzazione della vittima nei casi di stupro o molestie sessuali. Alcuni esempi: “te la sei cercata!”, “eh, ma vestita così cosa ti aspettavi?”, “se ti ubriachi e ti comporti da tr*ia, poi non ti puoi lamentare se ti stuprano!”; insomma, affermazioni terribili che non fanno altro che deresponsabilizzare il colpevole della violenza commessa, perché per il patriatcato è sempre più comodo ammonire e giudicare le donne per la loro libertà piuttosto che educare gli uomini.
Sempre allo stesso gradino troviamo i cosiddetti rape jokes, ovvero gli “scherzi sullo stupro”. Attualmente, l’ironia è oggetto di dibattito. Esistono tanti tipi di umorismo, negli ultimi anni si sta diffondendo il black humour (letteralmente umorismo nero), ovvero fare ironia su argomenti spinosi quali religione, politica, razzismo, omofobia, sessismo. E sullo stupro, anche. L’ironia è soggettiva e ognuno ha a cuore degli argomenti su cui preferisce non scherzare. Purtroppo però, in una cultura come la nostra, i rape jokes vengono normalizzati, come se fossero alla stregua delle battute di Colorado. Nessuno che pensa mai a come possa sentirsi una survivor che legge una battuta sullo stupro. Nessuno che pensa al suo dolore, quello non interessa mai a nessuno, la “libertà di espressione” degli uomini viene sempre posta prima dei sentimenti delle donne. Negli ultimi anni, alcune comiche statunitensi hanno cercato di rivoluzionare il concetto di rape jokes indirizzando la natura satirica della battuta verso gli abuser o coloro che colpevolizzano lo stupro, e non verso la survivor.
Salendo leggermente nella piramide troviamo il catcalling, le molestie e dall’avvento dei social anche le “dickpic” non richieste. Le dickpic sono le foto dei genitali maschili. Qualsiasi ragazza con un account Instagram si sarà trovata almeno una volta nella vita una foto del genere nei DM – ovviamente non richiesta, altrimenti non staremmo parlando di molestie. La dinamica è sempre la stessa: nella stragrande maggioranza dei casi si tratta di profili fake senza la foto profilo (chissà, forse si vergognano anche loro di ciò che fanno), con un nome utente che ricorda un codice fiscale e naturalmente con 0 followers e 0 post. Solitamente iniziano la conversazione con un “hey” (ma nel peggiore dei casi vanno dritti al sodo) e dopo un paio di messaggi iniziano le prime domande intime senza che nessuno gli abbia dato il permesso. Dopodiché, ti ritrovi le loro parti basse in chat. Che tu lo abbia chiesto o no, a loro non importa assolutamente.
Il catcalling, invece, consiste nel suonare il clacson, fare apprezzamenti non richiesti e fischiare (come se fossimo dei cani) alle sconosciute per strada. Molte persone stentano ancora a riconoscerlo come una molestia. “Ma quindi ora non possiamo nemmeno fare i complimenti a una ragazza che incontriamo per strada?” beh, a me non risulta che le donne di solito suonino il clacson urlando volgaritá dal finestrino della macchina ogni volta che vedono passare un uomo, quindi non vedo perché dobbiate sentirvi in diritto di esprimere i vostri gusti mettendo a disagio la vostra interlocutrice. Nel concetto di molestie, oltre alle dickpic non richieste e al catcalling, rientra qualsiasi tipo di contatto sessuale non richiesto.
Salendo di livello nella piramide, aumenta la gravità delle molestie. Troviamo il revenge porn, lo stealthing e la coercizione sessuale. Il revenge porn non ci è nuovo, si tratta della condivisione di materiale intimo non consenziente, e ovviamente le maggiori vittime di questa pratica sono le donne, la cui vita viene rovinata da uno stigma sociale che impedisce loro di avere una vita sessuale libera e soddisfacente, come nel caso della maestra di Torino.
Lo stealthing invece è una pratica che consiste nella rimozione del preservativo durante il rapporto a insaputa del partner. Di questo argomento si parla ancora poco, e anzi, da pochissimo ha iniziato a essere considerato come una forma di molestia negli ambienti femministi. Inutile dire che, oltre ad essere una mancanza di rispetto e di consenso per le volontà della donna, è anche dannoso per un eventuale rischio di gravidanze indesiderate e di trasmissione di malattie veneree di cui l’altra persona che partecipa al rapporto non è consapevole.
La coercizione sessuale è una forma di costrizione a un rapporto sessuale che implica la mancanza di un consenso scevro da pressioni psicologiche. Quindi, sia costringere una persona a fare sesso, sia ricattarla che metterla sotto pressione per far sì che accetti equivale a molestarla, poiché il consenso va espresso liberamente sempre e comunque.
La violenza di genere, in particolare lo stupro, che si trova quasi sulla sommità della piramide, oltre che un metodo di affermazione del potere e umiliazione, è anche un mezzo di punizione. Basti pensare a donne come Laura Boldrini, Carola Rackete, Greta Thunberg, Silvia Romano. Tutte donne che non hanno saputo restare ai posti che la società patriarcale ha imposto loro. Gettate in pasto a continue gogne mediatiche dai politici sovranisti e ogni volta i commenti erano sempre gli stessi: insulti sul loro aspetto fisico, slutshaming, e gli immancabili auguri di stupro. Il concetto di stupro è totalmente normalizzato tanto da venir usato come augurio nei confronti di una donna che troviamo poco simpatica (e poco vicina ai ruoli di genere, naturalmente): dai, magari un pene infilato nella sua vagina di prepotenza la rimetterà al suo posto e comincerà ad abbassare la cresta questa tr*ia! Ah, sfatiamo un falso mito: lo stupro non è causato da nessun impulso irrefrenabile dell’uomo, non ha niente a che vedere con dei presunti ormoni impazziti. Questa narrazione tossica della violenza sessuale non fa altro che rinforzare il concetto dell’uomo animalesco che sa ragionare solo con i genitali e che impazzisce quando vede delle gambe nude spuntare sotto una minigonna. Narrazione totalmente in linea con il patriarcato, visto che non fa altro che giustificare gli uomini per le loro violenze perché “non si sanno controllare”. Gli uomini sono dotati di intelletto, se stuprano non è perché hanno un eccesso di testosterone, ma perché sanno di poterlo fare. E infine, avvicinandoci alla punta della piramide abbiamo la massima espressione della violenza di genere: il femminicidio.
“Ora… mi aprono la cerniera dei pantaloni e tutti si dànno da fare per spogliarmi: una scarpa sola, una gamba sola.Quello che mi tiene da dietro si sta eccitando, sento che si struscia contro la mia schiena.Ora quello che mi sta tra le gambe mi entra dentro. Mi viene da vomitare.Devo stare calma, calma.“Muoviti, puttana. Fammi godere”. Io mi concentro sulle parole delle canzoni alla radio; il cuore mi si sta spaccando, non voglio uscire dalla confusione che ho. Non voglio capire. Non capisco nessuna parola… non conosco nessuna lingua. Altra sigaretta.“Muoviti puttana fammi godere”.
Sono le parole di Franca Rame tratte dal monologo “Lo stupro” del 1975. Cos’è uno stupro? Avete il coraggio di immaginarlo? L’empatia per capirlo? La forza per affrontare queste parole guardandole dritte negli occhi?
È molto difficile che la coscienza comune si sia soffermata davvero a riflettere sul senso più crudo di violenza contro le donne.
Siamo una generazione destabilizzata dalla normalizzazione della violenza a tal punto da non capire più quando i limiti vengano superati, a tal punto da credere di più che la vittima abbia esagerato o che se la sia andata a cercare “Come eri vestita?” “Ah ma eri anche ubriaca?” “Vabbè però che ti aspettavi?” sicuramente sono frasi che avrete già letto o sentito, magari le avrete anche dette. È il cosiddetto victim blaming, ritenere responsabile la vittima dell’illecito subito. Anziché tutelarla questa viene messa in dubbio, le si addossano mille colpe e il suo stato psico-fisico dopo il trauma passa in secondo piano o non viene nemmeno preso in considerazione. Oltre al peso della violenza, quindi, dovrà anche lottare contro l’ambiente che la circonda e contro se stessa per dimostrare che non è stata colpa sua, che non se l’è andata a cercare, che ne è la vittima, questo è il mondo oggi.
L’esempio mediatico più recente risale a poche ore fa con l’editoriale di Vittorio Feltri, in prima pagina su Libero, relativo al caso Genovese intitolato “Ingenua la ragazza stuprata da Genovese”, colpevolizzando la vittima di non essere stata abbastanza responsabile. Tra le agghiaccianti considerazioni di Feltri forse la peggiore è la seguente: “personalmente ho constatato che si fa fatica a farsi una che te la dà volentieri, figuratevi una che non ci sta”. Fermi, rileggete. Non c’è neanche la minima distinzione tra violenza, stupro e un normale rapporto sessuale consenziente. Non esiste. Per la cultura dello stupro il consenso è nullo, mentre per la donna, e così dovrebbe essere per tutti, il consenso è sacro.
Siamo davvero disposti ad accettare questa realtà? È una realtà in cui si finisce per avere paura di esprimere la propria sessualità visto l’alto rischio di essere ridotti ad oggetti del piacere, e un oggetto, si sa, non può esprimere consenso, un oggetto è destinato ad essere usato. Quella che stiamo vivendo è un’emergenza sociale e strutturale che non siamo abbastanza pronti a riconoscere. Da cosa si capisce? L’impatto nocivo sta proprio nel parlarne come se si trattasse di una tematica lontana dalla nostra quotidianità quando in realtà è nelle nostre case, nei mezzi pubblici, al lavoro, in università, …
È nelle nostre chat, nelle foto e nei video intimi diffusi senza consenso e quindi in maniera illecita; quei video che rimarranno per sempre su internet, che ti faranno perdere il posto di lavoro, divertono molto chi se li scambia ma tolgono la vita a chi subisce, suo malgrado.
La violenza di genere ha ucciso, continua a farlo, e quando non uccide viola la persona fino privarla di ciò che prima era imprescindibilmente suo, il corpo, il piacere, il sorriso, la tranquillità, la libertà. Perdere anche solo una di queste cose è innegabilmente un trauma e, innegabilmente, ti cambia la vita. Questi traumi non si possono superare, non si può voltare pagina, perché non si tratta di casi isolati, il problema è sistemico e può ripetersi, in diverse forme certo, ma più volte nel corso della vita di una donna o di una persona che non rispecchi i canoni del privilegio (uomo, cis, etero, bianco, in salute). È davvero una vergogna che ancora si debba manifestare contro tutto questo e che non esista una effettiva consapevolezza collettiva.
Certo, non tutti gli uomini sono violenti, lo sappiamo, ma questo non toglie loro la possibilità di prendere consapevolezza del fatto di essere parte integrante di un impianto discriminatorio e tossico. L’impegno collettivo è fondamentale e, quando anche il privilegiato diventerà alleato della causa, la lotta sarà rivoluzione.
In occasione del 25 novembre ho intervistato le specialiste della Cooperativa Be Free, Centro Antiviolenza “SOS Donna” di Roma.
si riconosce una relazione violenta? Quali sono i comportamenti che possono essere associati a dei “campanelli di allarme”? Devono essere per forza gesti plateali?
Quando parliamo di relazioni violente siamo di fronte a una complessità poiché dobbiamo prendere in considerazione i vissuti e le dinamiche entro cui poi si innestano gli agiti violenti. Spesso si tratta di relazioni non paritarie, dove il maltrattante abusa del proprio potere e la donna in relazione con lui lo subisce. Lo svolgersi della relazione per queste motivazioni non può che essere di natura non lineare e sarà costituita da momenti in cui la violenza sarà agita in modo palese che si succederanno ad altri momenti di tentativi di riconciliazione o pentimento, che però non intaccano la struttura di potere e che perciò non definiscono la fine della relazione abusante bensì un sorta di avvitamento sempre più stringente e pericoloso. C’è una sorta di schema di riferimento che non è più quello della spirale, sicuramente importante ma troppo deterministica, ma è la figura dell’iceberg che evidenzia bene le radici sociali e culturali della violenza (la zona invisibile), i segnali primari che sono l’umiliazione, la svalorizzazione, il disprezzo, il far sentire in colpa, eccetera ed infine nella parte finale la violenza fisica che comprende la violenza sessuale, la violenza psicologica (aggressioni verbali) fino al maltrattamento. In questo schema la punta dell’iceberg è il femminicidio.
Come ci si distacca da una relazione violenta (tossica e di possesso) quando si è da soli (o isolati volontariamente dal partner)?
È molto difficile stando da sole che si riesca a capire che ci può essere un’alternativa di vita rispetto a quella che si sta vivendo all’interno di una relazione violenta, poiché ogni tipo di abuso di potere viene accompagnato da una manipolazione. Questa consiste nel convincere la donna che subisce l’abuso di essere incapace di fare qualunque cosa e inadeguata al proprio ruolo di moglie e di madre, di dover necessariamente affidarsi al maltrattante abdicando ai propri pensieri e alle proprie volontà, di dover infine rinunciare a tutto ciò che costituiva la propria vita adeguandosi completamente a quello che il maltrattante vuole. Il tentativo è quello di far cessare questa persecuzione senza senso assecondando l’abusante, soprattutto quando sono presenti i figli. Il tentativo è quello di proteggerli dal carattere violento del padre assecondando qualunque richiesta. Spesso poi, riguardo ai minori, la minaccia più potente che inchioda una donna nella relazione è quella di farle togliere i figli. Una minaccia praticamente sempre pronunciata dal partner e che accompagna le critiche alla donna di non essere una buona madre. Di fronte a questo quadro nessuna si salva da sola ma solo le reti di donne e i luoghi presenti sul territorio con personale professionalizzato possono costruire insieme con le donne che subiscono relazioni violente un percorso di fuoriuscita.
Ma le violenze non avvengono solo dentro le relazioni. Come si può arrivare a chiedere aiuto quando la violenza avviene fuori da una relazione e, per dolore o per vergogna, si tende a volerlo nascondere così tanto da negarlo anche a se stesse e portandoselo dietro per anni?
Dolore e vergogna sono emozioni che accompagnano sempre la violenza ed è importante ricordare che per essere prese in carico da un Centro Antiviolenza (CAV) non è necessario aderire allo stereotipo della donna che subisce violenza intrafamigliare. Non bisogna infatti essere state picchiate per forza oppure essere in una relazione e fare riferimento ad un partner presente, ma si può chiedere aiuto e fare un percorso efficace anche se si hanno dei dubbi su un vissuto presente o passato.
Come si dovrebbero comportare gli amici o i parenti della vittima nel caso di violenza?
Amici e parenti possono essere un nodo importante della rete che sostiene una donna che sta all’interno di una relazione violenta, ad esempio dimostrandole affetto e vicinanza. Una cosa però fondamentale da tenere presente è che la fuoriuscita da una relazione violenta può concretizzarsi solo attraverso un processo di consapevolezza e attraverso una scelta autonoma. Per questo motivo anche le persone vicine nel sostenere la donna dovrebbero astenersi dal giudicarne le scelte e sostituirsi a lei nelle stesse. Spesso è sufficiente dare le informazioni corrette, ad esempio la chiamata alle Forze dell’Ordine in caso di pericolo, il recarsi al pronto soccorso in caso di violenza fisica subita e, per tutti gli altri casi, i riferimenti di un centro antiviolenza.
Qual è la differenza tra un percorso presso un centro antiviolenza e un percorso di psicoterapia?
Il percorso in un centro antiviolenza si basa sulla relazione tra donne, ovvero sul presupposto che il vissuto similare all’interno dello stesso genere faciliti la creazione di una relazione basata sulla fiducia. Questa relazione si concretizza in colloqui individuali con lo scopo di creare degli strumenti di gestione delle conseguenze della violenza attualmente presenti all’interno della vita della donna che possono essere tutele psicologiche, relazionali e legali. Il colloquio avviene con una operatrice specifica ma la donna è presa in carico da un’equipe multidisciplinare che si confronta costantemente rispetto al percorso delle donne. La differenza principale con la psicoterapia è che questa si occupa di tutte le dinamiche del profondo che necessitano una rielaborazione al fine di promuovere una trasformazione e uno sviluppo entro la propria esistenza. Spesso i due percorsi possono affiancarsi.
Dall’inizio della pandemia il numero di chiamate al centro antiviolenza ha subito un aumento? Come riuscite ad aiutare le donne con l’ostacolo dell’isolamento forzato?
Soprattutto nei mesi di lockdown nei centri si è registrato un incremento delle domande di aiuto da parte di donne, che si sono trovate costrette a casa all’interno, spesso, di relazioni già tossiche e/o violente. Uno dei mesi con il più alto numero di accessi ai nostri servizi è stato maggio 2020, con un aumento rispetto a gennaio dello stesso anno del 50%; la stessa tendenza si è poi registrata nuovamente a ottobre e novembre e cioè in contemporanea all’introduzione di nuove misure restrittive dovute al nuovo aumento di contagi. Nei mesi di lockdown “totale”, cioè da marzo a fine maggio, le operatrici del centro hanno garantito comunque l’attività dello sportello anche attraverso l’utilizzo di colloqui telefonici e comunque sempre nel rispetto delle misure di sicurezza.
Sarebbero opportuni percorsi di sensibilizzazione antiviolenza, in modo da permettere di riconoscere e denunciare la violenza, ma anche e soprattutto di prevenire?
Crediamo che per contrastare efficacemente i fenomeni sociali della violenza, della tratta e della discriminazione di genere, debbano essere attivati una serie di interventi diversificati, ma tutti coerenti con un’ottica di base, improntata al valore dei diritti umani di genere, e volta al perseguimento dell’empowerment, tanto per il target di riferimento quanto per le operatrici stesse. L’assunzione di un’ottica di genere è inoltre volta alla diffusione del concetto di mainstreaming, con l’obiettivo di favorire modificazioni positive nella percezione socialmente diffusa sulle donne, gli altri, le diversità, e di veicolare una cultura della relazione e del rispetto. Per questo la nostra Cooperativa crede che vadano messe in atto delle azioni volte a contrastare il fenomeno della tratta di esseri umani a scopo di sfruttamento sessuale/lavorativo, delle violenze contro le donne e i minori, delle discriminazioni; offrire un’accoglienza specializzata e altamente qualificata; contribuire alla diffusione di una cultura del rispetto e del riconoscimento attraverso eventi, pubblicazioni, formazione agli operatori sociosanitari e delle Forze dell’Ordine, interventi di prevenzione dei comportamenti aggressivi nelle scuole, pubblicazioni
E, infine, quale dovrebbe essere il significato del 25 novembre? Perché oggi si parla molto di violenza sulle donne o femminicidi? Rispetto a 20 o 40 anni fa la situazione è peggiorata o abbiamo più contezza del fenomeno perché ora finalmente lo stiamo affrontando?
Per chi, come Befree, ogni giorno supporta le donne nel percorso di fuoriuscita e di autodeterminazione, gestendo i centri dedicati, il 25 novembre non ha nulla di celebrativo. Questa data, istituita nel 1999 dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite, assume una profondità specifica: diventa l’occasione per rimettere sotto i riflettori un fenomeno strutturale, che non ha nulla di emergenziale, ma al contrario si manifesta ogni giorno, senza distinzioni di classe e di geografia ed è profondamente radicato in una cultura maschilista. Nel 2013, in Italia 117 donne sono state uccise da uomini. Uno studio condotto dalla Fundamental Rights Agency dell’Unione europea rileva che il 34% delle donne a partire dai quindici anni di età sono state vittime di violenza fisica e/o sessuale da parte di uomini. Una ricerca condotta dall’associazione INTERVITA e basata principalmente sui dati esistenti (2006) ha calcolato che il costo sociale della violenza contro le donne è di 17 miliardi di Euro. In Italia non vi è sistema uniforme e affidabile per la raccolta di dati qualitativi e quantitativi sulla violenza di genere, né esiste al momento un piano nazionale d’azione per contrastarla. La violenza maschile sulle donne rimane dunque uno degli ostacoli principali al godimento dei diritti umani delle donne e all’uguaglianza.
Da qualche giorno si parla molto di una sentenza della Cassazione su un caso di stupro commesso nel 2009 a opera di due cinquantenni, rei di aver violentato la ragazza che era a cena con loro dopo che questa aveva bevuto tanto da non riuscire ad autodeterminarsi. I due erano stati assolti in primo grado del gip di Brescia, nel 2011, perché la donna non era stata riconosciuta attendibile. Ma la Corte d’Appello di Torino a gennaio 2017 aveva valutato diversamente il referto del pronto soccorso, che evidenziava leggeri segni di resistenza, e condannato i due uomini a tre anni. Continua a leggere →