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Slice of life: Pioggia di ricordi (1991)

Sono film come questo che aiutano a capire la differenza tra i due pilastri dello Studio Ghibli: Miyazaki è un trasfiguratore, coglie un nucleo psicologico o tematico da rafforzare ed esaltare in un processo di catasterismo; Takahata  convoglia invece la propria energia verso il quotidiano, il realismo ambientale, storico o emozionale per trovare forme e temi adatti a sé.

Va detto però che se l’attenzione per i fatti minimi della vita attraversa tutta la sua opera, è in due film che questo fulcro della sua ispirazione si raccoglie e s’espone, stemperando la vena tragica.

Già parlando di Pom Poko (1994) avevamo accennato alla distinzione tra un ‘dittico slice-of life’ e una ‘trilogia del vinti’: Pioggia di ricordi (visibile su Netflix) è proprio la prima parte del dittico, seguita da un altro tassello della sperimentazione stilistica di Takahata, I miei vicini Yamada (1999).

Il soggetto proviene dal manga Omohide Poro Poro di Hotaru Okamoto e Yuko Tone e diventa la scusa perfetta per rendere su film lo stacco tra infanzia ed età matura di una giovane donna.

Tokyo, anni ‘80: La ventisettenne Taeko lavora in un ufficio a Tokyo ma è attratta dalla campagna. Per riassaporare la natura e il lavoro all’aria aperta va nella provincia di Yamagata, a nord della capitale, per aiutare nella raccolta del cartamo: la fascinazione per quello stile di vita è forte quanto il pensiero di essere ad una svolta nella sua vita.

E che svolta sarebbe senza il ritorno del passato e dei ricordi a farle visita? Dovendo decidere tra città e campagna, tra la vita che ha condotto e quella che la tira a sé, Taeko non può non ripensare alla bambina che è stata, riconsiderando tutti i rapporti con le persone e gli avvenimenti.

Scrivendo di ‘La tomba delle lucciole’ del 1988, il Morandini parla di una “capacità mimetica quasi cocciuta” di Takahata: il termine corretto sarebbe ‘ferocia’, tanto è l’amore del regista per l’infanzia e per la messinscena coerente alla natura del soggetto, che rasenta il viscerale. 

Sono questo termine e questa tensione di Takahata a spiegare la voglia di immergersi a tal punto nella ricerca ostinata del realismo, tale da spingere in avanti lo studio e la resa delle espressioni facciali dei doppiatori, registrati durante le sessioni di lettura dello script.

Non meno peso ha nella sua ricerca la ‘giustezza’ infinitesimale del colore (in media siamo sulle 400 sfumature adoperate nelle scene in esterni) o del movimento: questo lo si vede    soprattutto dalla scena finale con Taeko riaccompagnata nella casa in campagna da Toshio che l’ha fatta aprire all’amore, attorniata dal ricordo dei suoi vecchi compagni di classe e dalla vecchia sé. Il tutto è reso con 5422 inquadrature e passa. 

I salti tra presente e passato avrebbero fatto piacere a Franco Kim Arcalli, nostro montatore e sceneggiatore superbo che ha fatto dei passaggi intertemporali un punto di forza della sua poetica ma va anche detto che lo slancio fantastico è altrettanto perfettamente amalgamato nella struttura del film: il volo della piccola Taeko estasiata dalla prima cotta o la sequenza in cui immagina di diventare un’attrice famosa sono tutto fuorché stonature col ritmo del film e della resa del flusso psicologico della protagonista. Quando si dice la forza dello stile!

Chi non apprezza Pioggia di ricordi potrebbe non sapere da un lato il perfezionismo che lo sorregge così come la centralità, nella cultura giapponese, del racconto della vita e delle sue piccole cose, che spesso nel primo Novecento ha trovato espressione nell’autobiografia. Per gli amanti di Takahata è un gioiello da gustare, con una narrazione limpida e asciutta, ostinata nel rendere giustizia ai suoi protagonisti e che è stato un caposaldo nella narrazione degli anime.

Antonio Canzoniere

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I vinti di Takahata: La storia della principessa splendente (2013)

Dopo Pom Poko (1994) era giusto parlare di Kaguya, la protagonista dell’ultimo film di Isao Takahata (1935-2018)

Ritorna ancora, in questo film che è l’addio al cinema del regista, il sostrato rurale e buddhista del Giappone, quell’atmosfera delle origini cui Takahata è sempre rimasto legato: il soggetto di partenza è una delle storie più importanti della tradizione nipponica, risalente al X secolo e il cui più antico manoscritto ci riporta al XVI secolo.

Un giorno, il vecchio tagliatore Okina vede nella foresta un ramo luminoso di bambù: all’interno giace una piccolissima bambina che lui, senza figli, decide di portare a casa.

La piccola, chiamata Kaguya, si dimostra da subito un essere particolare: cresce velocemente nella mente e nel corpo, vivendo senza pensieri tra la natura e giocando coi figli dei contadini vicini.

Si lega a Sutemaru, suo compagno di giochi, non sospettando che quella gioia sta per finire. Un giorno, suo padre torna nella foresta e tagliando dei rami di bambù trova oro e stoffe. Cosciente della bellezza della figlia, decide di darle la vita di una principessa e trasferire la famiglia nella capitale.

Dapprima abbagliata dalla novità, Kaguya si ritrova intrappolata dai comandi delle governanti, la farsa dei pretendenti e delle loro iperboli, dalla villania dell’imperatore stesso.

Nemmeno il piccolo giardino sul retro del palazzo la consola dalla distanza degli amici, nel frattempo trasferitisi altrove.

Fatto sta che lei, pur in gabbia, non porta rancore al mondo né ai genitori quando è riportata tra le sfere celesti, presa dal Buddha stesso che voleva farle provare la vanità delle cose terrene.

Noi occidentali potremmo perfettamente accostare questa principessa racchiusa nel tratto di un acquerello limpidissimo e di un sintetico carboncino ad Elisabetta d’Austria (1837-1898): questa Sissi nipponica, fosse realmente vissuta e avesse potuto conoscere questa sua gemella occidentale, si sarebbe di sicuro ritrovata in lei per la nascita chiacchierata (alla futura imperatrice toccò di nascere già con un dentino come Napoleone, per giunta di domenica, il 24 di dicembre, cosa che secondo il popolo avrebbe portato un destino importante nella sciagura come nella fortuna); la stessa infanzia nella natura; lo stesso primo amore mancato (per Elisabetta fu Richard S., figlio di un conte al servizio del padre); il senso di prigionia nel lusso e gli onori della vita adulta; infine, l’uso della bellezza come arma e scudo contro il mondo.

Per le due donne la vita è una storia crudele, non meno che per gli altri protagonisti di Takahata: a Kaguya non resta che il sogno e la sublimazione di una vita con Sutemaru attraverso una splendida scena di volo, elemento già sfruttato in una circostanza più felice per una scena di Pioggia di ricordi (1991).

Va detto però che se in quel film il volo era dato dall’ebbrezza che la prima cotta aveva scatenato nella protagonista Taeko, la malinconia era stemperata dall’atmosfera del film, incentrato sul passato come luogo mentale da ricordare, assimilare e superare; ne La principessa splendente il passato è invece l’unico luogo cui tornare per essere felici.

La sequenza del commiato aereo a Sutemaru, così come le scene dell’infanzia di Kaguya e la corsa disperata nella neve sono tra le cose più belle prodotte da Takahata, in un film pieno di dolore dove però non si lanciano maledizioni contro la vita: Kaguya è sconfitta ma mai sceglierebbe di non vivere le esperienze sulla Terra. 

Questo è il lato più bello della sua personalità: se già era bella, questa magnanimità la trasfigura, la rende regale nel senso più commovente della parola. Takahata può stringere con questo film la mano ad un grande occidentale che, con altri toni e ambienti, era riuscito a cantare i vinti ed il senso di esilio dalla felicità del passato, come quello che potrebbero lamentare le piante e i fiori sradicati dal suolo natìo: lo Charles Baudelaire de Il cigno.

Il cigno

A Victor Hugo

I

Andromaca, io penso a voi! Quel fiumiciattolo, misero e triste specchio dove un tempo rifulse

l’immensa maestà delle vostre pene di vedova, quel Simoenta ingrossato dalle vostre lacrime, ha

d’improvviso fecondato la mia fertile memoria mentre attraversavo il Carosello nuovo. La vecchia

Parigi non esiste più (l’aspetto d’una città muta più presto, ahimè, che il cuore dell’uomo), soltanto

in spirito vedo tutto il campo di baracche, il mucchio di capitelli appena sbozzati e di fusti di

colonne, le erbe, i grandi massi inverditi dall’acqua delle pozzanghere e, nel brillìo delle vetrine, la

confusione delle cianfrusaglie.

Laggiù stava un giorno un serraglio, e là io vidi, un mattino, all’ora in cui sotto cieli freddi e chiari

il Lavoro si sveglia, e gli spazzini levano un oscuro uragano nell’aria silenziosa, un cigno evaso

dalla sua gabbia: con i piedi palmati fregava il selciato arido, trascinando il bianco piumaggio sul

terreno accidentato. Presso un ruscello secco l’animale, aprendo il becco, immergeva febbrilmente le

ali nella polvere, e diceva, il cuore tutto memore del suo bel lago natìo: «Quando scenderai, acqua,

quando esploderai, fulmine?»

Vedo quel misero, strano e fatale mito, verso il cielo, talvolta, verso il cielo ironico e crudelmente

azzurro – come l’uomo di Ovidio sul suo collo convulso innalzando l’avida testa – in atto di lanciare

rimproveri a Dio.

II

Parigi cambia! Ma nulla è mutato nella mia malinconia: palazzi nuovi, impalcature, massi, vecchi

quartieri, tutto in me diviene allegoria, e i miei ricordi più cari sono grevi come rocce.

Così, dinnanzi al Louvre un’immagine m’opprime. Penso al mio grande cigno (ai suoi movimenti

folli), ridicolo e sublime come gli esuli, e divorato da un desiderio senza requie. E penso a voi,

Andromaca, caduta dalle braccia d’un grande sposo, come un vile capo di bestiame, sotto la mano

del superbo Pirro, curva su una tomba vuota, estatica, penso a voi, vedova di Ettore e sposa di

Eléno. Penso alla negra smarrita e tisica scalpicciante nel fango, in atto di cercare, col suo occhio

sconvolto, gli alberi di cocco assenti della superba Africa dietro il muro immenso della nebbia;

penso a chiunque ha perduto quel che non si ritrova mai più, a coloro che si saziano di lacrime

succhiando il Dolore come una buona lupa, ai magri orfanelli appassentisi come fiori!

Così, nella foresta ove il mio spirito si rifugia, un vecchio Ricordo suona a perdifiato il suo corno.

E penso ai marinai dimenticati su di un’isola, ai prigionieri, ai vinti… e a molti altri ancora!

trad. di Gerardo d’Orrico

Antonio Canzoniere