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Revenge porn: non siamo figurine

È di ormai un anno fa l’articolo del giornalista Simone Fontana su Wired Italia dal titolo “Dentro il più grande network italiano di revenge porn, su Telegram”.

Questo articolo è datato infatti al 3 aprile 2020.
Prima di questa data, sapevo cosa fosse quello che comunemente (ed erroneamente) viene definito “revenge porn”, ma non pensavo che così tanti uomini fossero in grado di compiere reati giorno dopo giorno, ogni giorno.

Dico “erroneamente” perché “porno vendetta”  vorrebbe significare che la vittima si trova in questa situazione perché colpevole di qualcosa, per cui viene “punita” e questa è una narrazione tossica e invalidante. Non c’è vendetta. C’è reato.

Ma prima di un anno fa io credevo, ingenuamente, fosse semplicemente l’eccezione e non un’abitudine quotidiana. 

Si parlava di più di 40mila uomini che ogni giorno mettevano (mettono) in scena il rito collettivo dello stupro virtuale di gruppo.

In questi gruppi ci sono  foto di ex, di attuali ragazze, ma anche pedopornografia, foto rubate dai canali social di tante ragazze, in uno spazio online accessibile a chiunque. Per di più come se fosse normale, come se non si stesse facendo niente di male. E invece alla base c’è quella cultura dello stupro tossica e velenosa.
La cultura, che in realtà dovrebbe essere un qualcosa di positivo e che dovrebbe far crescere ognuno e ognuna di noi, invece questi modus operandi sono così tanto normalizzati che si sono appropriati di un termine così pulito e buono come “cultura”.

Una continua esposizione non richiesta, dove alla base non c’è consenso; sei lì dentro in pasto ad una marea di animali scalmanati senza rispetto (con tutto il rispetto per gli animali, si intende!), che per di più, in ogni caso stanno commettendo un reato, nello specifico chi commette questo reato (nello specifico) viene punito  con la reclusione da uno a sei anni e con la multa da euro 5.000 a euro 15.000.

E questi uomini possono essere i nostri partner, i nostri papà, i nostri fratelli, i nostri vicini di casa, i nostri amici. Attuano tutto questo non rendendosi conto che possono rovinare la vita di altre persone e che possono davvero causare male, o semplicemente che stanno facendo qualcosa di sbagliato, perché sono stati abituati così, sin da ragazzini nel gruppo del calcetto (per dirla con un pregiudizio): le donne sono figurine, sono oggetto, sono cornice muta, sono un packaging e ci facciamo ciò che vogliamo.
Così vengono educati.
E noi donne veniamo educate a doverci proteggere, tutelare, perché semmai dovessimo subire una violenza verremmo ricoperte da victim blaming, quando in realtà non c’è niente da colpevolizzare.

Non si tratta solo di foto inviate privatamente, e che quindi dovevano rimanere private, ma anche di foto rubate dai social (questo non vuol dire di dominio pubblico), foto di ragazze svestite tramite app, semplici selfie di bambine molto piccole.

Ci racconta la sua esperienza, Silvia (silviaesse.it), vittima di tutto questo.

“Le mie foto pubblicate su Instagram vengono divulgate sui famosi gruppi Telegram.

Tantissime foto e ad ogni foto corrispondeva un commento tipo “Che troia de merda ao magari quer frocio de tu padre te fa er delitto d’onore mortacci tua diabetica puttana der cazzo”, ma non solo, viene anche stilata una lista con altre ragazze, dovevano darci un voto, un voto per chi fosse più “stuprabile”.

Non c’ero solo io, c’erano tantissime ragazze come me e come me stavano subendo una violenza che rientra sotto il Revenge Porn, le nostre foto erano state prese senza il nostro consenso anche se di dominio pubblico. Qui vorrei sottolineare che non è assolutamente lecito prendere una foto, anche se sui social, e farne ciò che si vuole, si sta andando ugualmente contro la legge.

Ragazze, bambine, persone trans, persone omosessuali, persone disabili, razzismo, fascismo, misoginia, maschilismo, sessismo, tutto concentrato in un solo gruppo.

Sono stata avvisata da una mia amica che mi ha mandato gli screen e in pochissimo tempo, anche altre persone, persone che non conosco, mi hanno contattata per dirmi questo.

Una valanga d’odio che mi ha schiacciata, mi mancava l’aria. Sono stati giorni difficili. Non riuscivo a muovermi.

Il tempo, la consapevolezza, aver chiesto aiuto e aver ricevuto amore mi hanno aiutata.

Non ho ancora dimenticato quella sensazione, quel nodo alla gola, quel dolore, quella paura.

Vorrei solo dire che se un giorno dovesse capitarti mi dispiace, mi dispiace tanto e che non sei obbligatu a fare niente, prenditi il tuo tempo e spazio.” Cosa fare quando  si subisce una violenza simile:

Agisci in silenzio. Non entrare nei gruppi, non divulgare info su questi gruppi come ad esempio il nome, così potresti allargare il bacino di utenti che potrebbero entrare a farne parte;

Recati alla polizia postale, controlla gli orari prima sul sito ufficiale;

Prima di fare la denuncia devi stampare gli screen dei messaggi e delle foto oppure metterlo in una chiavetta;

Se non puoi recarti personalmente alla polizia postale, puoi fare la denuncia dal tuo computer andando sul sito ufficiale della Polizia Postale e andando nella sezione “Segnalazioni online”, compilando tutti i dati richiesti;

Puoi anche contattare diverse associazioni che ti possono aiutare come Odiareticosta.

Inoltre…
Non sentirti in colpa, non hai colpe, di nessun genere. Anche se verrai giudicata ingiustamente, verrai ricoperta da colpe che non ti appartengono, anche a causa del fenomeno del doppio standard. Non sei tu che hai commesso un reato.
Autodeterminati sempre.
Non accumulare stress emotivo, prova a stare con persone che ti fanno sentire al sicuro.
Se non ti va di parlarne non forzarti, se ti va prova a sensibilizzare.
Cerca supporto e aiuto.
Non dare credito a chi dice che denunciare non serve a nulla.
Riprenditi il tuo corpo che è solo tuo, puoi farcela! 

Vanessa Putignano

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L’esodo da WhatsApp: protesta digitale?

Il 12 gennaio 2021 ha avuto luogo un esodo storico che, in meno di 72 ore, ha visto trasferirsi 25 milioni di utenti da WhatsApp verso altre app di messaggistica (come Telegram). Cosa ha causato la “grande fuga”? Tutto ciò si può considerare una forma di contestazione informatica?

Andiamo per ordine. 

Il casus belli risale all’inizio del gennaio scorso; Whatsapp aveva notificato ai suoi utenti l’imminente aggiornamento obbligatorio relativo all’informativa sulla privacy e ai termini di servizio previsti dal piano aziendale per il 2021. Le modifiche unilaterali riguardavano i rapporti che intercorrono tra le aziende che utilizzano l’applicazione e l’azienda californiana, in base alla cosiddetta opzione Business.

La notifica, tuttavia, è arrivata a tutti gli utenti e in maniera particolarmente invasiva:

“WhatsApp sta aggiornando i propri termini e l’informativa sulla privacy. Toccando ‘accetto’, accetti i nuovi termini e l’informativa sulla privacy, che entreranno in vigore l’8 febbraio 2021. Dopo questa data, dovrai accettare questi aggiornamenti per continuare a utilizzare WhatsApp. Puoi anche visitare il centro assistenza se preferisci eliminare il tuo account e desideri ulteriori informazioni”.

Successivamente verrà trascritta in una versione più “friendly” (pur rimanendo vaga) e visualizzabile oggi nella sezione Stato WhatsApp dove compaiono delle “storie” illustrative sulla privacy.

In ogni caso, l’obbligo ad accettare e la poca chiarezza dell’azienda statunitense ha provocato lo spostamento di massa degli utenti e ha attirato l’attenzione di WhatsApp, dell’Unione Europea e delle app competitor; ad esempio, la russa Telegram, che ha recentemente reso possibile una nuova funzione, ossia la possibilità di trasferire le chat direttamente da WhatsApp per rendere ancora più appetibile l’iscrizione dei nuovi utenti. 

Il Garante della Privacy, allarmato, ha dichiarato come: “dai termini di servizio e dalla nuova informativa non sia possibile, per gli utenti, evincere quali siano le modifiche introdotte, né comprendere chiaramente quali trattamenti di dati saranno in concreto effettuati dal servizio di messaggistica dopo l’8 febbraio. Tale informativa non appare pertanto idonea a consentire agli utenti di Whatsapp la manifestazione di una volontà libera e consapevole”.

Tutto questo ha richiamato l’attenzione del Comitato Europeo per la Protezione dei Dati (EDPB). Poco dopo, il 15 gennaio 2021, Whatsapp ha annunciato il rinvio della data di scadenza al 15 maggio.

Il Regolamento Generale sulla Protezione dei Dati (GDPR), in vigore dal 2018, assume quindi un ruolo di fondamentale importanza nella tutela perché ha permesso, con le sue severe restrizioni, di bloccare quella che, secondo l’avvocato Antonino Polimeni, esperto in Diritto di Internet, Privacy e GDPR, può essere definita come “la più grande operazione di accentramento di dati personali”.

WhatsApp come sappiamo è stata acquisita da Facebook nel 2014 per 20 miliardi di dollari. Al momento Facebook può acquisire: i numeri di telefono che utilizziamo; l’ultimo accesso, quindi quante volte usiamo l’applicazione; la nostra data di prima registrazione; la nostra posizione stimata in base alla connessione internet non satellitare. Facebook non può invadere le chat private e lo stesso vale per le videochiamate o le telefonate, grazie alla tecnologia End-to-End.  Nonostante ciò, per la Corte di Giustizia dell’Unione Europea i server che il despota Zuckerberg si è rifiutato di portare in territorio UE non sono sicuri. Come stabilisce la sentenza Schrems II, il gruppo Facebook non garantisce la tutela dei diritti degli utenti europei.

Grazie alla mobilitazione di gruppo su larga scala e alla pronta azione dell’Unione Europea è stato possibile bloccare e posticipare un’operazione poco chiara che, effettivamente, potrebbe mettere in serio rischio i nostri dati. Se osservato in concomitanza con l’operazione Gamestop (l’attività coordinata degli utenti del social Reddit che ha stravolto Wall Street negli ultimi giorni) potremmo forse notare un sentimento generale di necessità di democratizzazione del web; una democratizzazione che sia in grado di scardinare il controllo delle élite. Per il momento, però, è troppo presto per dirlo. 

Di fatto da un punto di vista generale noi, in quanto popolazione, non abbiamo piena consapevolezza del valore dei nostri dati personali e questo è estremamente pericoloso. Possiamo, però, intuirlo e, di conseguenza, cercare di tutelarci, osservando gli insaziabili e continui tentativi che quell’1% si ostina, talvolta illegalmente, ad attuare al fine di privarcene. 

Zoe Votta

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