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Io non sono una farfalla

Ma chi vi ha raccontato questa storia assurda della farfalla? Io mi muovo come un elefante, di certo non sono una farfalla. Appena mi alzo da una sedia o peggio ancora dal divano sembra di aver tirato su duecento kg, quando mi siedo su qualcosa di morbido rimbalzo per la forza dell’impatto e per non pensare a quando sono in un negozio che appena mi giro do una manata di qua e una di là e, automaticamente crolla tutto. Sono felice di non essere una farfalla, anche perché odio le farfalle. Non sopporto questo paragone stupido, lo trovo veramente inutile, e poi per quale motivo dovrei somigliare ad una farfalla?                                                          

Una farfalla ogni giorno si alza e inizia a posarsi un po’ qua e un po’ là. Prima di diventare quella che è, era protetta da un uovo che pian pianino è diventato sempre più scuro fino al momento in cui ha spinto il suo corpo fuori. Diventa un bruco schifoso, non è di certo una farfalla. Successivamente si trasforma in crisalide che in alcune specie può essere protetta da un bozzolo e al termine di questo processo la farfalla è pronta per distendere le ali e andare. Queste farfalle, quindi, per quale motivo sono così gettonate? Simboleggiano l’eternità, la leggiadria e il cambiamento, da quanto mi è stato riferito da chi utilizza questo paragone. Eppure sono pochissime le farfalle che vivono a lungo, solitamente muoiono dopo quindici giorni! La leggiadria ci può anche stare, ma è meglio lasciare questo titolo alle campionesse di ginnastica ritmica che a loro calza di più. Senza alcun dubbio la loro metamorfosi è straordinaria e sicuramente quello si può chiamare cambiamento, ma che c’entra con l’anoressia? Le farfalle diventano meravigliose al termine del loro processo, un’anoressica diventa un mostro inquietante. Se penso alla mia metamorfosi mi spavento per quanto il mio aspetto sia cambiato nel corso degli anni e mi guardo allo specchio e non vedo assolutamente colori, ali e leggerezza. Mi metto paura da sola quando mi guardo.

La vita di una come me fa schifo e per smontare ciò che pensano gli altri, ripeto ancora una volta che non l’ho scelto io di essere quella che sono oggi. Con questa malattia non si deve combattere, perché sarebbe una battaglia persa dato che si sta lottando con una parte di séche è decisamente più forte e che vuole esserci a tutti i costi, altrimenti non avrebbe preso il sopravvento. Sarebbe una battaglia impari con tante sconfitte, per questo non si deve combattere, ma si deve imparare a conviverci cercando di mettere ostacoli al suo percorso per non darle modo di farla sentire sempre più potente: in qualche modo va semplicemente fottuta. 

Non ho deciso in una mattina di primavera di voler diventare anoressica o addirittura una cavolo di farfalla, è capitato. É arrivata e sicuramente io non sono stata in grado di sbatterla fuori a calci in culo e ho iniziato a fare amicizia con lei. Ad un tratto ho sentito bussare alla porta. Tre colpi e poi il silenzio. Altri tre colpi e ancora silenzio. Mia madre mi ha insegnato che non bisogna mai aprire agli sconosciuti, ma la curiosità era talmente travolgente che non ho saputo resistere a quella tentazione. Sentivo nella testa una vocina che non smetteva di ripetere “Apri, apri” e così le parole di mia madre hanno preso il volo e chissà in quale pianeta disabitato sono andate a finire. Ho provato a tenerle strette a me, ho alzato il volume dello stereo al massimo in modo tale che quelle note così forti potessero coprire quella vocina assordante. Ormai le parole avevano trovato la loro posizione ideale, e quale terreno è più fertile di una mente curiosa? 

E così ho aperto la porta. Era così affascinante, così disponibile, così speciale che l’ho fatta accomodare senza esitare. Era tutto in ordine come se fosse stato previsto l’arrivo di un ospite. Si guardava intorno mentre io le mostravo ogni parte della casa con entusiasmo, ma lei non era interessata alle mie parole e si è accomodata sul mio divano in pelle sommerso da cuscini di ogni genere e ha iniziato a fissarmi. Non era attenta a ciò che le dicevo, sembrava esser naufraga nel suo mare di pensieri. Poco dopo ha preso le sue cose ed è andata via. 

Veniva spesso a trovarmi, sempre agli stessi orari, era puntualissima non saltava mai un appuntamento. Anche se pensandoci bene, ma quale appuntamento? Si presentava senza chiedere o avvertire! Era davvero strana. A me questo suo modo di fare non dispiaceva, è sempre piacevole stare in compagnia. A volte passava per un saluto, altre volte invece occupava gran parte del mio tempo. Mi sentivo al sicuro quando c’era la sua presenza in giro per casa, anche se non lasciava né odori né parole. Io però sapevo che era con me. Me ne accorgevo guardandomi allo specchio, da quell’immagine riflessa riuscivo a percepire quanto sarebbe rimasta, com’era il suo stato d’animo e soprattutto se la sua compagnia mi stava rendendo felice oppure no. Mi accorgevo che c’era dal modo in cui era stato sistemato il lenzuolo del mio letto, da come erano stati piegati gli asciugamani in bagno, dai piatti posizionati con il fiore blu a sinistra della credenza rivolto verso l’esterno e me ne accorgevo dalla scia di perfezione che lasciava in giro. 

Con il passare del tempo questa situazione ha iniziato a pesarmi, poiché si sentiva superiore a me e i suoi consigli presto si sono trasformati in obblighi. Mi sentivo protetta, ma allo stesso tempo mi faceva mancare l’aria, mi soffocava con le sue ossessioni e le sue manie, con la sua perfezione nel mio disordine. Il mio caos era il posto in cui le piaceva trascorrere più tempo possibile, si divertiva a mettere a posto i miei dubbi e le mie incertezze, sistemava tutto a suo piacimento. Era soddisfatta quando tutto era in ordine secondo il suo schema, riusciva a convincermi ogni volta e la lasciavo fare. Ben presto tutto ciò che era mio era diventato suo, si ostinava a volermi togliere tutto. Giorno dopo giorno si impossessava sempre più di me. Mi sentivo impotente, non sapevo come fermarla e soprattutto non sapevo se fermarla oppure no, perché in fondo le volevo bene. Tenevo davvero tanto a lei, anche se in tutto questo tempo non si era degnata di dirmi neppure il suo nome.                                                                                                                                                                                                            Lei si sentiva invincibile, più forte di qualsiasi cosa. Mi teneva come ostaggio per sentirsi superiore a tutti. Mi aveva incatenato e mostrava agli altri il suo premio tanto sudato: me. Ero il suo trofeo da esibire al mondo intero e mi sventolava come una bandiera mentre tutti rimanevano a guardare. Era il suo modo per apparire, usando me. Lei era talmente vile che non ci metteva mai la faccia, mandava me avanti ed io ingenua continuavo ad ascoltarla. Mi aveva tolto tutto. Io non esistevo più ero solamente l’abitante del mio corpo. Ha aspettato che arrivassi al limite dell’esasperazione per presentarsi e mi ha detto:”Ciao, io sono la tua malattia!” e di certo, non mi ha promesso di farmi diventare una farfalla colorata che si posa su un fiore cullata dai raggi del sole. 

Insomma, non c’entro nulla con le farfalle, nemmeno quando si dice “sento le farfalle nello stomaco” perché, purtroppo, non riesco a provare delle emozioni così travolgenti da poter sentire questa sensazione e soprattutto, perché io nel mio stomaco sento solo una mandria di bisonti, altro che farfalle!

Francesca Motta

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Lettera al mio abuser

Ciao! Ti ricordi di me? Io sì, e vorrei avere un ricordo migliore di te. Ti ricordi? Tu avevi 16 anni, io 14. Mi piacevi così tanto. Ero nella fase in cui mi innamoravo di qualsiasi ragazzo che mi desse attenzioni. Perché è così che veniamo educate: a ricercare la vostra attenzione, a cadere ai piedi di qualsiasi ragazzo (eh sì, l’eteronormatività è alla base di qualsiasi relazione patriarcale) che fosse gentile con noi. O almeno, apparentemente gentile. Un po’ come la galanteria: tu sei gentile con me, mi paghi la cena e io in cambio ti devo una notte di sesso. 

Ero ingenua, a 14 anni. Non sapevo nemmeno come funzionassero le relazioni. Non lo sapevo, e l’ignoranza ti porta a concepire come sana anche la relazione più disequilibrata. E tu ti sei approfittato di me e della mia immaturità. Credevi che io ti avrei concesso tutto perché ero affezionata a te. E invece non è stato così. Ero una ragazzina che non aveva mai avuto esperienze sessuali, che non aveva la minima idea di cosa fosse il consenso. Ciononostante, sarei stata comunque capace di dirti di “no”, in caso qualcosa non mi fosse andato a genio. Ma a te questo non importava. Tu eri convinto di poterti prendere tutto quello che volevi. Per te le ragazze erano trofei da collezionare, a te non importava niente del consenso altrui. Tu volevi ricevere tutto, senza dare nulla in cambio. Credevi che tutto ti fosse dovuto in quanto uomo, concepivi il sesso come una gentile concessione.

Scommetto che non sai nemmeno di cosa sto parlando. Perché nella nostra società le violenze vengono normalizzate a tal punto che non ci accorgiamo né di compierle né di riceverle.

Avevo 14 anni, ero così insicura, senza autostima, odiavo il mio corpo e il mio aspetto, non avevo ancora mai avuto esperienze né con persone del mio sesso né del sesso opposto. E tu hai rovinato tutto. E sai qual è la cosa peggiore? Aver realizzato tutto ora, 5 anni dopo. Ora ho 19 anni, mi sono avvicinata al femminismo poco più di un anno fa ed è stata la rivoluzione della mia vita. Perché se sei una donna che si immerge nel mondo femminista, diventi consapevole di quanto faccia schifo la tua posizione nel mondo, di quanto l’odio per la tua esistenza sia radicato in ogni piccola cosa. E ti crollano addosso tutte le tue certezze quando realizzi cos’è un abuso sessuale, di averlo subito, ma di non essertene mai resa conto. Tu che hai sempre vissuto senza uscire più di tanto dalla tua comfort zone, scopri di non essere poi così protetta come credevi. Che poi, anche questo è un problema: perché devo essere io a proteggermi, mentre chi compie la violenza non subisce nessuna ripercussione? Ma torniamo al punto: non sei protetta perché la violenza sessuale nella maggior parte dei casi avviene per mezzo di partner, amici, familiari. Tutta bella gente di cui credi di poterti fidare. Anche quel ragazzo che ti piace tanto, quello che sembra la persona più socievole del mondo, che suona la chitarra alle assemblee di istituto, può abusare di te. Sei in pericolo anche con le persone di cui ti fidi.

Hai presente quando hai un tarlo nella mente ma non riesci a renderti conto di cosa si tratta? La stessa sensazione di quando stai per partire per le vacanze e all’improvviso hai l’impressione di aver dimenticato di mettere qualcosa in valigia, ma non ricordi cosa. Ecco, è più o meno questo ciò che avviene nella tua mente, ma moltiplicato x 100, quando si subisce una violenza “inconsapevolmente”: a livello cosciente sembra tutto okay, anche se hai una strana sensazione, di malessere, ti senti turbata ma non riesci proprio a capire perché. Specialmente quando quella sensazione si ripercuote sulla tua vita. In particolare sulla tua vita sessuale. Ti senti bloccata, vorresti darti alla pazza gioia con il tuo nuovo partner (e, parliamoci chiaro, fortunatamente non sei tu e non lo sarai mai), ma c’è qualcosa che ti tiene ancorata alla tua inesperienza. Il problema è sbrigliare la matassa, arrivare alla radice del problema. Ma come si può risolvere un trauma del genere se non sai nemmeno di aver subito un abuso? E qui entra in gioco il femminismo. Più mi addentro in questo magico mondo di donne pelose con i capelli blu e unicorni, e più mi rendo conto di quanto sia bello e liberatorio, ma allo stesso tempo frustrante, realizzare che il sessismo e la misoginia sono ovunque. La misoginia è un problema strutturale, così radicato che se estranei alle battaglie femministe, non sempre sappiamo riconoscerla. E questo vale anche per le forme in cui la misoginia si manifesta: lo stupro, la violenza di genere. Agli occhi dell’opinione pubblica la rappresentazione dello stupro è una sola: l’aggressione del pazzo maniaco alle due di notte che ti trascina in un vicolo buio e ti infila il fallo nella vagina con la forza senza permesso. E poi sangue, lividi. Fine. Tutte le altre forme della violenza di genere non vengono mai considerate al pari della penetrazione forzata (rigorosamente per strada e da parte di un pervertito sconosciuto, perché ci piace ignorare i dati ISTAT). Dunque, come tutte le altre persone sono cresciuta anche io con questo immaginario. Probabilmente, con le mie conoscenze di allora, finché non mi avessi penetrato senza consenso, non l’avrei mai considerata una violazione del mio corpo. Ma un “no” c’era stato. Ripetuto più e più volte. E tu hai deciso di ignorarlo, abusando della tua superiorità fisica e approfittando della mia debolezza mentale. Perché sapevi quanto io ci tenessi a te, ma questo non ti interessava perché io ero solo carne da macello.

Sai come si fanno chiamare le vittime di abusi sessuali? Survivors. Sopravvissute. Io ancora stento a riconoscermi come tale. Perché mi vedo più come una vittima, che come una sopravvissuta. E perché ancora non ho metabolizzato ciò che è successo, il mio cervello ancora continua a chiedersi se quella fosse una molestia oppure no. E non lo so perché. Forse perché ho ancora un briciolo di speranza che mi spinge a credere di far parte delle poche fortunate che non hanno mai subito abusi. Mi dico “Va tutto okay, non sei mai stata violata nella tua parte più intima”. Ma la realtà è che io ci ho messo una vita a realizzare cosa fosse effettivamente successo, eppure continuo ad esitare e a sminuire la violenza che ho subito. E questo è paradossale, perché io sono sempre in prima fila a difendere le survivors, a credere alle vittime, per principio. Ma quando si tratta di me la situazione cambia. Tendiamo sempre ad essere un po’ più severi con noi stessi, soprattutto se conviviamo da sempre con l’insicurezza e la sensazione di essere inadeguati.

Il femminismo mi ha salvato la vita. Mi ha salvato da un’esistenza piatta e priva di valori, mi ha insegnato ad amarmi, a credere nelle mie capacità, ad accettare i miei kg in più. Adesso ho un rapporto migliore con la mia persona, mi sono creata una corazza che non potrai mai più abbattere. Tutta la mia ingenuità è stata sostituta dalla rabbia, dalla frustrazione (ahimè) e dal vigore. Ma a volte mi capita di pensare che forse senza aver preso coscienza di tutto il marcio che c’è nella società patriarcale, ora sarei più felice. Se non avessi mai compreso quello che mi hai fatto, cosa sarebbe successo? Nulla, sarei solo l’ennesima donna che non sa di essere stata violentata. Un numero in più da aggiungere alla lista.

E tra noi, sono io quella che ha subito ripercussioni sulla sua vita sessuale, mentre tu continui a viaggiare da un paese all’altro per intrattenere il tuo pubblico. Anni e anni in cui ho avuto paura di spingermi troppo oltre nel sesso, in cui ho creduto che non ne avrei mai goduto appieno, sempre per via di quel tarlo che mi consumava le pieghe del cervello. Provavo un forte disagio che alimentava le mie insicurezze, in campo sessuale. Non riuscivo a trovare la soluzione dell’enigma, il tassello mancante del puzzle. Era così frustrante ricevere senza riuscire a dare, nonostante mi sforzassi. Il mio corpo viaggiava alla velocità della luce ma la mia mente era ancora bloccata ai 14 anni. Finché non si è accesa la lampadina, all’improvviso. Ho realizzato. Ho cominciato ad indagare sul mio passato. Cosa c’è che non va in me? Perché non riesco a vivermi il sesso come vorrei? E ho proceduto a ritroso finché non sono giunta a te. Avevo dei fotogrammi orribili in mente: io che scuotevo la testa e tu che mi tenevi ferma con il tuo corpo di peso su di me. Niente sangue, né tumefazioni. Stavolta non era lo sconosciuto nel vicolo di notte, era una persona che conoscevo bene. Da lì è stato tutto in discesa. È stato liberatorio per certi versi, almeno per la mia vita sessuale. Ma elaborare il fatto non è stata una passeggiata, ancora non ci riesco del tutto. Non voglio accettarlo, non me ne capacito. Siamo abituati a pensare che le cose brutte accadano solo agli altri, eppure…

Ho iniziato a parlarne con le persone a cui tengo di più. Ho fatto il tuo nome. Fortunatamente, tendo a circondarmi di persone intelligenti e dotate di senso critico, quindi non ho subito victim blaiming. Non credo che sarei riuscita a sopportare anche quello, ma probabilmente se ne avessi parlato anni fa, con la concezione dei rapporti di coppia che avevamo io e le mie coetanee in quel periodo, mi avrebbero detto che avrei dovuto aspettarmelo: perché del resto se vai a casa di un ragazzo, devi aspettarti che il tuo NO non venga preso in considerazione. Cosa ci sono venuta a fare a casa tua, a 14 anni? Pensavo che avremmo giocato a Monopoli? In mancanza di victim blaiming, ci ha pensato la mia mente a farmi del male. In questo ultimo periodo, infatti, mi sono colpevolizzata spesso. Se avessi avuto un po’ più di amor proprio, se fossi stata più sicura di me, se non mi fossi accontentata di un rapporto basato su un dislivello di potere, forse non sarebbe successo. E se fossi stata meno disinibita, già allora. Ed è grave. Mi complimento con te, perché con i tuoi deliri di onnipotenza sei riuscito a mettere in crisi anche una fervente femminista. Ma io lo so che non è colpa mia. Posso essere la persona più innocente del mondo, questo non ti legittima a violarmi. Posso essere la persona più sessualmente esplicita che conosci, e (sorpresa!), nemmeno questo ti dà il permesso di mettermi le tue viscide mani addosso.

Sembrava andare tutto bene, quando poi hai deciso di ricontattarmi. E la tua chat è rimasta lì tra le richieste di messaggio. Quel messaggio mi ha turbata. Non concepivo assolutamente l’ironia della situazione, visto che avevo cominciato da poco a parlare di te, era come se mi avessi letto nel pensiero. Io l’ho interpretato come un segno, come qualcosa che mi spingesse ulteriormente a buttare fuori tutto quello che provavo. Cosa speravi di ottenere da quel messaggio? Tu non hai nessun rispetto per le donne, per te siamo solo oggetti, parti del corpo estrapolate dalla totalità di cui pensi di poter fruire quando ti pare. E tu non sei un maniaco, un melato mentale, un serial killer nascosto nel buio della notte: sei il “figlio sano del patriarcato”. Sei sempre stato perfettamente integrato nella società, nella tua classe, forse un po’ fuori dalle righe, ma nella norma. Cosa ti ha spinto a farmi del male? Chissà, magari te ne sarai pure vantato con i tuoi amici, ti avranno elogiato. Invece per me non è mai stato così, perché ogni volta che parlavo di te subivo slutshaming. O in casi più “fortunati”, ammonimenti. Ma avrei dovuto capire che tipo di persona fossi, dal modo in cui parlavi delle donne, dei rapporti eterosessuali, del sesso. Non mi dimenticheró mai quando, tutto convinto, dalla tua tastiera uscirono testuali parole “se un uomo scopa tanto è un figo, se lo fa una donna è una troia”: già, peccato che si stesse parlando di sesso e non di stupro!

Stupro è davvero una brutta parola e faccio spesso fatica a pronunciarla. Soprattutto quando vivi in una società che concepisce una sola ed unica visione fallocentrica dello stupro. È terribile sapere che nel mondo esisteranno migliaia di donne che non si rendono conto di aver subito una violenza sessuale. E fa male sapere che avrei potuto continuare a vivere la mia vita senza ampliare la mia mente e la mia coscienza.

Io non farò il tuo nome, ma le persone che mi conoscono e staranno leggendo, mi capiranno. Del resto non ho le prove, ma è una questione di fiducia. Non posso dimostrare nulla, mi trovo nella situazione scomoda di tutti quei casi che non vengono denunciati perché non verrebbero nemmeno aperti per mancanza di prove. Perché non tutti gli stupri ti recano delle ferite visibili, che appassionano i fan del macabro. Una violenza sessuale può avere mille conseguenze diverse a seconda della persona, e questa vicenda ha profondamente segnato la mia anima, nonostante abbia lasciato intatto il mio corpo.

Sto buttando giù tante righe perché avevo bisogno di parlarti simbolicamente. Di odiarti. E non credo che riuscirò mai a perdonarti, ma finché l’odio non mi consumerá, andrà bene così. Avevo bisogno di sfogarmi. E mi sentivo in dovere di diffondere il verbo. Ho pensato che questa lettera potesse arrivare a qualcuna di quelle donne inconsapevoli o terrorizzate dalle ripercussioni di un’eventuale denuncia. Se la mia esperienza potrà essere d’aiuto a qualcuno, sarà comunque una vittoria. Mi sono chiesta cosa mi abbia spinto a parlarne: vedere sui social tante donne che si sostenevano tra loro in nome di una sorellanza femminista, mi ha fatto sciogliere, mi sono sentita come parte di una famiglia. È stata come la reazione a catena del #MeToo: una denuncia ha dato la forza a tante altre di esporsi. Anche se purtroppo, ci saranno sempre le persone che penseranno che tu sia un’esibizionista che vuole attirare l’attenzione, che te la sei cercata, che non dovevi andare a casa sua a 14 anni perché “si sa come sono fatti i maschi”, ma la verità è che, a livello emotivo e psicologico, ricercare attenzioni sarebbe stata una realtà alternativa molto più accettabile di aver subito davvero un abuso sessuale.

Tu sei un abuser. Anche se mi piace pensare, per le tue successive partner, che tu sia cambiato, che tu ti sia fatto un esame di coscienza. Trovo davvero curioso il fatto che un tempo odiassi la tua fidanzatina successiva a me, mentre attualmente, a tratti, mi sono sentita in colpa perché avrei potuto avvisarla sul tipo di persona che stava frequentando. Ma si sa, il patriarcato ci vuole divise per permettere ai maschi come te di sottometterci e abusare di noi.

Vorrei ringraziare la mia migliore amica, il mio attuale ragazzo e i miei amici più stretti, con cui mi sono confidata, che mi sono stati vicini in questo ultimo anno, mi hanno supportato quando ho realizzato che piega avesse preso la mia vita 5 anni fa, e che non mi hanno mai giudicata, né colpevolizzata. Infine, sono grata all’attivismo, al femminismo che mi ha accolto nelle sue fila e a questo giornale che mi sta dando la possibilità di urlarti in faccia il dolore e il male che mi hai causato.

Io sono una survivor a cui è stata tolta la voce per anni, ma adesso è arrivato il momento di fare un passo avanti, alla luce del sole. Io ho una voce e non sarai tu a silenziarla.

Giorgia Brunetti

Storia di un corpo: i miei mostri

Il 6 maggio scorso, per la prima volta nella mia vita, il mio io più profondo si è ritrovato catapultato, nero su bianco, su un blog. È stato facile? No. Nemmeno per un secondo. Ma ne è valsa la pena. Per questo sono qui, di nuovo.

Io conosco due mostri: Ma e Divano Bianco

Mi accompagnano da sempre, dalla tenera età di due anni. Da quando li ho incontrati non mi hanno mai lasciata da sola. 

Ma è decisamente uno di quei mostri che si trasforma di continuo, l’ho incontrato in tante persone. Quelle che più ricordo, in modo nitidissimo e particolare sono due.

Una è la mia insegnante delle elementari, la temutissima (in realtà stronza, altre parole non ci sono) maestra di matematica, che chiameremo Margherita: mi ha sempre fatta sentire come un pesante macigno di 7 anni. L’altro giorno sfogliando il vecchio album di ricordi ho trovato una di quelle foto di classe in cui si è tutti pettinati e ordinati e, quasi sorpresa, ho detto a mia madre: “ero una bella bambina” (mai avrei pensato di dirlo). Poi ho spostato lo sguardo e l’ho vista. Erano anni che non vedevo quella faccia, e tutto d’un tratto mi sono sentita catapultata indietro nel tempo, seduta nel mio piccolo banco verde, il grembiule blu ben stirato, il colletto bianco, i capelli lunghissimi e la maestra Margherita di fronte a me che mi dice che dovrei fare sport, che dovrei muovermi, che sono una stupida. Mi è venuto il vomito a pensarci. Mi sono sentita in apnea per qualche secondo, poi mia madre mi ha fatto una domanda e sono ritornata nella realtà, mi sono girata per risponderle e lei ha visto la mia espressione, sgomenta, persa. allora mi ha stretto la mano. Non c’è stato bisogno di dire altro, aveva capito perfettamente cos’era successo.

La seconda persona che ricordo più che nitidamente, è l’infermiera del mio medico, che chiameremo Anna: avevo cinque anni, ero seduta in una sala d’attesa tappezzata di foto di bambini sorridenti, l’odore di disinfettante e caramelle per i bimbi più “coraggiosi”, quelli che si facevano la puntura senza piangere, per intenderci. Era giugno o forse luglio e faceva un caldo terribile, mi stavo annoiando a morte mentre aspettavo di essere visitata e stavo contando tutte le foto appese al muro. Ad un tratto Anna, capelli biondi cortissimi, molto alta e corpulenta, mi guarda e ghignando dice “guardati allo specchio, sei una vacca”. Avevo cinque anni. Io me lo ricordo ancora, come fosse ieri. 

Adesso che ci penso c’è una terza persona, il mio professore di educazione fisica delle medie, che un giorno ha deciso di esordire, tristemente, così: “Avanti Diana, muoviti, lo so che vorresti essere più magra”. 

E così vi sto riportando tutti gli stronzi che hanno fatto parte della mia vita, sin dalla tenera età. Tutti i miei “sei educata, intelligente, MA SEI GRASSA…”. Quelle che ho citato sono persone adulte. persone che avrebbero dovuto educarmi al rispetto per me stessa, che avrebbero dovuto complimentarsi per il mio modo di essere e non per il mio aspetto. 

L’altro mostro, Divano Bianco, non è proprio un mostro. È più uno stato d’animo al quale ho deciso di affibbiare un nome strano: “mi sento divano bianco”, per dire “mi sento abbandonata”. Sentirsi divano bianco, per una bambina circondata da persone troppo attente all’aspetto e troppo poco allo spirito, è cosa all’ordine del giorno. Ed io sono sempre stata divano bianco, quando invece avrei semplicemente voluto essere ascoltata, apprezzata per quel che ero. 

E così, me li sono portata dietro questi due amici mostri fino all’età adulta. Uno siede al lato destro, l’altro al lato sinistro. Spesso, prendono il caffè insieme, altre volte si scontrano per capire chi deve prevalere sull’altro. In mezzo a loro, ci sono io. 

Una postilla, doverosa: ho imparato, in questi brevi 23 anni di vita, che tutti sanno sentire, ma pochissimi eletti riescono davvero ad ascoltarti. Ed io di persone capaci di ascoltare, ad oggi, ne ho incontrate davvero troppe poche. E lo so, perché storia di un corpo non è soltanto la storia dell’involucro che ricopre il mio spirito, è la mia storia, e in pochi sono riusciti fino in fondo a capire cosa voglio dire quando scrivo: non è voglia di riconoscimento, riscatto, autocommiserazione. Niente di tutto questo. Io voglio soltanto comunicare che le parole hanno un peso specifico, molto più grande rispetto a quello di un corpo. 

Le parole, quelle sì, che vanno pesate. Accuratamente. 

Voglio soltanto far sentire meno sole le persone che non riescono a sentirsi apprezzate per quello che sono davvero DENTRO, non fuori. E vorrei anche dirvi che lì fuori il mondo è pronto per cambiare, è pronto ad ascoltare, ma vi direi una bugia enorme. Posso dirvi, però, che potete ascoltarvi voi. Potete stare seduti in una stanza e ascoltare attentamente cosa ha da dirvi il vostro corpo, potete perdonarvi per tutte le volte che non siete stati voi stessi in grado di ascoltarvi, per tutte quelle volte che vi siete rifiutati e non vi siete amati; per tutte quelle volte i vostri mostri hanno preso il sopravvento.

Noemi Diana

 

Storia di un corpo

In queste settimane mi sono interrogata, mi sono chiesta perché non riuscissi a scrivere di Grassofobia. Poi ho deciso di consultarmi con la mia psicologa: era lampante, effettivamente; non riesco a parlarne perché mi riguarda in prima persona. Non riesco a parlarne perché io sono grassa e lo sono sempre stata, sin dalla tenera età. E sin da allora sono stata indottrinata in modo da odiare il mio corpo. Anch’io sono stata una grassofobica. Forse, lo sono ancora.

Tutti si chiedono che cosa sia questa strana fobia, cercherò di spiegarlo in poche parole, anche se l’argomento richiederebbe pagine e pagine, infiniti caratteri di word.

La grassofobia è, banalmente, la paura delle persone grasse. Ma non solo. È paura di ingrassare, pesarsi continuamente, costringersi a folli regimi alimentari. È provare schifo nei confronti del proprio corpo, nello stare nudi. Grassofobico è chi rifiuta che possano esistere dei corpi grassi, che le persone grasse possano avere una vita sessuale (si, arriviamo anche a questi livelli). Grassofobica è la nostra società, da sempre. 

Come se ne esce da questo infinito loop? Io credo che soltanto una persona qualificata (e tanta forza di volontà) possano portarci a fare qualcosa per noi stessi.

Attenzione, accettazione non significa fregarsene delle proprie condizioni di salute. E su questo va fatta chiarezza. Non tutte le persone grasse, perché appunto tali, sono malate. Non è così. E non sono io a dirlo.

Quando avevo 14 anni un ragazzo mi disse “hai un viso bellissimo, ma purtroppo sei grassa”, mi ha (inconsapevolmente) distrutta. Da quel momento in poi sono entrata ancora di più nell’infinito loop di odio nei miei confronti. Mi facevo schifo, mi guardavo allo specchio e piangevo, stringevo forte tra le dita i miei rotoli come a volerli strappare via. Ho sempre avuto difficoltà a spogliarmi davanti alle mie amiche, ai miei fidanzati, perché pensavo di far loro schifo almeno il doppio di quanto me ne facessi io. Questi sono soltanto alcuni dei comportamenti disfunzionali che ho iniziato ad attuare. 

Oggi sono una donna di 23 anni e sto cercando di distruggere questi comportamenti. E vorrei che tutte le donne e gli uomini che stanno leggendo queste parole si sentissero abbracciate, confortate. Non siete sole. Amarsi è un percorso lungo, pieno di insidie ed ostacoli, ma prima o poi, arriveremo in cima e da lì lo spettacolo sarà splendido. Amatevi per ciò che siete. 

Noemi Diana

Domani c’è il sole

Lo scorso lunedì mi ha scritto una mia amica. “Ho una cosa da scrivere su un argomento alquanto importante, mi piacerebbe molto se si potesse mettere sul tuo blog”, recitava il suo messaggio. Se in un primo momento ho pensato che a breve avremmo avuto una nuova collaboratrice, il mio errore fu presto evidente. Questa mia amica, che per ovvi motivi – resi ancor più ovvi dai legami di conoscenza che legano parte dei nostri redattori con parte del nostro pubblico – mi ha chiesto di poter restare anonima, mi ha voluto lasciare un messaggio, una piccola testimonianza di come ancora oggi la vita di una donna possa essere un inferno. La riporto integralmente:  Continua a leggere