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Nel “Labirinto” della mente e di Istanbul: il romanzo dello scrittore curdo Burhan Sönmez

Già negli anni novanta Burhan Sönmez,  scrittore turco di etnia curda e attivista per i diritti umani, ha sperimentato sulla propria pelle la violenza della repressione: in seguito a uno scontro fisico con le forze di sicurezza turche restò gravemente ferito, in pericolo di vita. È stato curato in Gran Bretagna con il sostegno della fondazione Freedom from torture – Medical Foundation for the Care of Victims of Torture. Il 6 novembre ha presentato il suo quarto romanzo, “Labirinto”, nella Libreria Nuova Europa – I Granai a Roma, con la partecipazione del giornalista Gabriele Santoro. Continua a leggere

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Come amici solo le montagne

Una storia del popolo curdo

 

Il 9 ottobre il Presidente della Repubblica Turca Recep Tayyip Erdoğan ha annunciato l’inizio dell’operazione “Fonte di Pace”, volta a “sradicare i terroristi dal confine tra Siria e Turchia, stabilirvi una zona di sicurezza e insediarvici i rifugiati scappati dal conflitto siriano ed attualmente situati in Turchia”. Questo attacco è  stato  contestato  dalla maggior  parte  delle  potenze  regionali  e  globali, perché per “terrorista” Erdoğan intende le milizie delle Forze Democratiche Siriane (abbreviazione dall’inglese, SDF), le quali avevano collaborato con la coalizione anti-ISIS con a capo gli Stati Uniti, di fatto comportandosi come esercito di terra per l’alleanza, e dando un contributo decisivo alla sconfitta sul campo del Califfato. Il presidente americano ha deciso nei giorni scorsi per il ritiro delle truppe dall’area, dando praticamente il via libera all’operazione e tradendo le aspettative dei suoi alleati.
L’SDF è composto principalmente, ma non solo, da combattenti del gruppo etnico curdo e da questo ne deriva la diversa percezione che ne hanno gli attori coinvolti.

I curdi infatti sono un popolo senza Stato, presenti (soprattutto, ma non solo) in una vasta area montuosa che attraversa Turchia, Siria, Iraq, Iran e Armenia, con una propria lingua e cultura. Convertitosi presto all’islam (anche se i curdi appartengono anche ad altre religioni, la maggioranza resta ancora oggi sunnita), si sono integrati perfettamente nel mondo musulmano, vantando per esempio califfi come il Saladino tra le loro fila. Nonostante ciò, i curdi non sono mai riusciti a stabilire un vero e proprio Stato, essendo stati per lungo tempo assoggettati dai  propri  vicini  più  grandi,  oppure  divisi  in piccole  tribù  nelle  loro  montagne. Durante la Prima Guerra Mondiale, la maggior parte dei curdi si era ritrovata marginalizzata, povera e divisa tra Russia zarista, Persia e Impero Ottomano. Proprio  il  Sultano  sfruttò  questa  loro  condizione,  unita  allo storico  astio  con gli armeni, per utilizzare anche milizie curde nel perpetrare il famoso genocidio nel 1915-16. Al termine del conflitto, l’Impero Ottomano venne costretto a firmare  il  Trattato  di  Sèvres  (1920),  nel  quale,  tra  le  numerosissime  concessioni, il Sultano avrebbe dovuto concedere un referendum ad una parte del territorio curdo per la creazione o meno di uno Stato indipendente denominato Kurdistan. Purtroppo per i curdi, il suddetto trattato non è mai entrato in vigore.  Rifiutato dalla  fazione nazionalista  e  repubblicana  di  Mustafa  Kemal  Pasha  “Atatürk”, a seguito della (vittoriosa) Guerra d’Indipendenza Turca e del fallimento delle rivolte curde in Turchia e Iraq, l’accordo venne completamente ridiscusso. Nel 1923, il Trattato di Losanna pose una pietra tombale sul Kurdistan, in quello che  può  essere  considerato  come  il  primo tradimento  da  parte  dell’Occidente nei confronti dei curdi, con Francia ed Inghilterra maggiormente impegnate a stabilire il loro dominio coloniale su Iraq e Siria rispetto a garantire il principio di autodeterminazione dei popoli wilsoniano.

Le successive periodiche rivolte ebbero come unico effetto quello di alienare il popolo curdo ai governi nazionali turco, siriano, iracheno e iraniano, i quali nel corso dei decenni  repressero  in  ogni  maniera  la  comunità,  arrivando  a  negarne l’esistenza come gruppo etnico, a vietarne la lingua, ad eseguire tentativi di pulizia etnica.  D’altra parte, i curdi si sono organizzati sempre di più in gruppi di ribelli, i quali sono stati responsabili di campagne di guerriglia e attentati terroristici sia contro elementi governativi che contro i civili. Questi rivoltosi si condensarono e consolidarono a livello nazionale, differenziandosi tra loro sia per obiettivi che per ideologia.  In Turchia, dove risiede la minoranza curda più numerosa,  a  farla  da  padrona è  il  Partito  dei Lavoratori  Curdi  (PKK),  comunista e che punta all’indipendenza del Kurdistan.

È  di  gran  lunga  il  partito curdo più violento, con il conflitto tra loro ed i governativi causante circa 40000 morti in 40 anni. Recentemente, una serie di politiche distensive del governo turco aveva portato ad un cessate il fuoco (2013) ed alla creazione, nel 2012, del Partito Democratico dei Popoli (HDP), fazione democratica di sinistra e rappresentante dei curdi.  A seguito però dell’inasprimento della situazione, l’accordo è stato rotto nel 2015 e nel 2016 vi sono stati arresti per i dirigenti dell’HDP, al quale però è ancora permessa la partecipazione alle elezioni.

In Siria, nella regione nord-orientale del Paese denominata Rojava, i curdi si sono organizzati attorno al Partito dell’Unione Democratica (PYD), di ispirazione socialista libertaria. L’obiettivo dichiarato del PYD (e delle sue milizie, le  YPG,  poi  rinominate SDF)  è  quella  di  spingere  per  trasformare  la  Siria  in uno Stato federale, dove i curdi possano godere di autonomia. Allo scoppio della  Guerra  Civile  Siriana,  il  PYD  ha deciso  di  non  schierarsi  né  con  i  ribelli né con il governo, limitandosi a prendere il controllo del territorio storicamente curdo e difendendolo dagli attacchi dell’ISIS. Come già menzionato, i miliziani dell’SDF hanno dato un contributo decisivo nella lotta al Califfato, finendo per occupare  un  territorio  ben  più  grande  di  quello  storicamente curdo e costruendoci una società che rappresenta un unicum dello scenario mediorientale per rispetto dei diritti umani e di genere, talmente egualitaria da avere una nutritissima presenza femminile nelle forze armate, con le foto delle combattenti curde che  hanno  fatto  il  giro  del  mondo.  La  Turchia  però  accusa  l’SDF  di  aiutare il PKK nei loro attacchi contro lo Stato turco e sulla base di questo ha attivato l’Operazione Fonte di Pace non appena ha ottenuto la promessa di non intervento da parte degli americani fino ad allora alleati dei curdi nella lotta all’ISIS. Il PYD ha dovuto quindi negoziare un accordo con il governo centrale siriano per evitare una catastrofe militare, i cui termini a noi sono sconosciuti e i cui effetti scopriremo solo in futuro.

In Iraq, i curdi hanno subito una repressione durissima specie durante gli anni del regime di Saddam Hussein, il quale è arrivato ad usare armi chimiche sugli stessi. I curdi erano accusati (non a torto) di ricevere aiuti dall’Iran per destabilizzare  l’Iraq  stesso  e questo  creò  la  reazione  spropositata  del  dittatore,  che tentò  la  pulizia  etnica  del popolo  curdo.  Ad  affrontarlo  c’erano  i  miliziani  denominati “Peshmerga”, affiliati nella regione a due partiti politici, il Partito Democratico Curdo (PDK) di centrodestra e l’Unione Patriottica del Kurdistan (YNK) di centrosinistra, entrambi aventi come obiettivo l’indipendenza curda. A seguito della Seconda Guerra del Golfo, in cui i curdi supportarono l’attacco americano, l’Iraq venne trasformato in una repubblica federale ed al Kurdistan iracheno venne concessa ampia autonomia.  Questa è l’unica entità attualmente riconosciuta in cui il curdo sia lingua ufficiale (insieme all’arabo). Anche in Iraq i Peshmerga contribuirono in modo decisivo alla lotta contro l’ISIS, riuscendo a sconfiggerli grazie all’aiuto degli Stati Uniti e dell’esercito regolare iracheno. A seguito del successo, nel 2017 si è tenuto un referendum per l’indipendenza che ha ottenuto il 92% di sì.  Questo però non è stato riconosciuto da nessuno Stato ed ha provocato la dura reazione del governo iracheno, il quale ha scacciato i Peshmerga dai territori contesi tra i due e obbligato i curdi a desistere dalle loro aspirazioni.

In Iran, i curdi riuscirono, con l’aiuto dell’Unione Sovietica, a stabilire una piccola repubblica indipendente, la Repubblica di Mahabad, salvo poi essere abbandonati al loro destino e riassorbiti nello Stato persiano nel giro di 11 mesi dalla sua creazione. Dal quel punto in poi, miliziani curdi hanno sempre e costantemente dato filo da torcere sia allo Scià che al regime islamico, supportati dal regime nemico iracheno. Di recente, l’insurrezione, seppur abbastanza blanda, è guidata dal Partito per la Vita Libera in Kurdistan (PJAK), socialisti libertari  e  molto  vicini  al  PKK  turco.   Il  loro  principale obiettivo  è la  federalizzazione e la democratizzazione dell’Iran. In Iran in ogni caso, specie dopo la Rivoluzione Islamica, i curdi hanno dovuto affrontare una vita molto meno dura rispetto ai loro pari negli altri Stati della regione, con la lingua curda non vietata e nessun tentativo di pulizia etnica o negazione dell’identità curda.

Si può dunque affermare che i curdi abbiano avuto un ruolo centrale nel Medio Oriente. Sono un popolo marginalizzato e oppresso, che ha combattuto contro forze nettamente superiori in uomini e mezzi con fierezza e determinazione. Spesso ha ricevuto promesse, sempre tradite, da tante fazioni, tanto interessate a ricevere il loro aiuto quanto ad abbandonarli appena questo non serviva più.   L’obiettivo  di  un  Kurdistan  libero è ancora  lontano  ed  i  curdi  sono  ora soli, come sempre del resto. Un famoso motto curdo infatti recita “come amici solo le montagne”.  Allo stesso tempo però, anche se abbandonati dal resto del mondo,  continueranno  a  combattere,  con  la  solita  fiera determinazione,  finché non raggiungeranno il loro obiettivo o moriranno nel farlo.

Bruno Della Sala

Kurdistan Calling

Siria e Kurdistan sono diventati nomi che leggiamo distrattamente nei titoli dei giornali mentre scorriamo la homepage di facebook. “Siria: i combattimenti sono costati la vita a 1.106 bambini lo scorso anno”, “Kurdistan: nuovi raid aerei turchi “, “Dall’Italia in Siria e ritorno, allarme foreign fighters”.

Superata una fase di isteria di massa dovuta alla serie di attacchi terroristici di matrice islamica, che hanno colpito l’Europa a partire dal 2015, abbiamo fatto ciò che di più sbagliato si poteva fare; abbiamo trasferito il problema oltre i nostri confini, lasciando che piano piano svanisse anche dalle nostre memorie.

Nell’incontro che si è tenuto ieri presso la facoltà di Scienze Politiche di Roma Tre, Corrado Formigli e Adib Fateh Alì ci hanno ricordato che vivendo in un mondo globalizzato le guerre non sono più locali, ma sono di tutti.

Entrambi i giornalisti hanno realizzato numerosi reportage nei campi di battaglia di Iraq, Iran, e Siria, e in particolare Alì, giornalista curdo, ha illustrato la storia di un popolo senza patria che lottato in nome dei principi morali democratici dell’Occidente, ma non ha ancora ottenuto il riconoscimento dei propri diritti.

Il popolo curdo ricorda per certi versi l’esperienza dei soldati coloniali africani durante le guerre mondiali; popolazioni coinvolte in un conflitto scatenato dall’Occidente, che vengono chiamate a combattere in nome di una libertà che a loro non verrà mai riconosciuta.

Alì esprime il suo risentimento anche verso la società occidentale in persona; gli Stati Uniti d’America, i quali si sono serviti dei curdi come di un’arma efficace, abbandonata sul campo una volta terminato il lavoro.

Quando gli americani hanno prontamente smantellato i loro accampamenti e sono tornati in patria, i curdi si sono ritrovati soli sul campo di battaglia, stretti  nella morsa dell’Iran, dell’Arabia Saudita, e della Turchia di Erdoğan che minaccia continue operazioni anti-curdi.

Non c’è dubbio che, se lo scopo di Adib Fateh Alì è quello di dare voce ad un popolo, quello di Corrado Formigli è di raccontare il campo di battaglia. Il conduttore di “Piazzapulita” ci parla della sua esperienza di reporter di guerra e della responsabilità che ha questo tipo di giornalismo nel raccontare un conflitto. Nell’era social, la violenza viene banalizzata e ridicolizzata, lo schermo di un computer contribuisce a filtrarne la crudezza e a privarla del suo significato.
Questi nuovi mezzi di diffusione di massa, si sono rivelati strumenti di propaganda estremamente efficaci per l’ISIS. Se l’obiettivo dei combattenti islamici è quello di infuocare gli animi dei più giovani, i social network hanno accorciato le distanze e facilitato indottrinamento e reclutamento, dando vita, in molti casi, al fenomeno dei foreign fighters.

Formigli cerca invece, nel suo lavoro, di restare fedele al racconto profondo degli orrori del fronte, chiaramente spinto da una passione personale tale, che ha sconfitto ogni remora verso la prima linea. I suoi racconti degli anni passati a seguire il conflitto contro lo Stato Islamico lo hanno avvicinato alla realtà locale grazie al continuo confronto con la popolazione. Con l’aiuto di Alì, Corrado Formigli ha più volte seguito i combattenti della resistenza curda, ed è stato il primo giornalista italiano ad entrare a Kobane.

Il confronto con i due giornalisti e con Leopoldo Nuti, professore di Storia delle Relazioni Internazionali, si è concluso con un’aspra previsione futura nei confronti del popolo curdo e della situazione mediorientale in generale. Il pessimismo di Alì in particolare è figlio di un senso di delusione nei confronti delle “potenze democratiche dell’Occidente”, che sbandierano i loro valori liberali, per poi tradirli l’attimo dopo in nome dei propri interessi.

La discussione termina definitivamente con un ultimo exploit di Formigli, in pieno stile “dibattito di Piazzapulita”, che ci ricorda come l’ipocrisia europea abbia alimentato un pensiero comune molto più vicino a quello di Erdoğan piuttosto che ai valori occidentali. Ciò che dovrebbe risvegliare le nostre coscienze è che questo pensiero comune, che sta pericolosamente infettando l’Italia, è forse l’unica cosa che dovremmo preoccuparci di tenere fuori dai nostri confini.

Benedetta Agrillo

Turchia: insopportabili colpi all’istruzione

Al mondo d’oggi spesso dimentichiamo l’importanza dell’istruzione, perché non abbiamo tempo oppure semplicemente abbiamo qualcosa di meglio da fare. Dimentichiamo quanto sia importante crescere culturalmente grazie a qualcuno che può esserci da guida, dimentichiamo che la parte importante dell’istruzione non sono solo i professori, ma anche gli studenti. Ricordiamo solo quando tocchiamo il fondo che dovremmo porre più attenzione su certi aspetti della società: scuole, rispetto, insegnamento, ricerca, cultura e informazione. In un paese civile, e non dico democratico, abbiamo il dovere di rispettare e tutelare il diritto alla conoscenza, il diritto di esprimersi, di dibattere per capire e non per insultare.

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