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25 Novembre 2020: punto di rottura

“Ora… mi aprono la cerniera dei pantaloni e tutti si dànno da fare per spogliarmi: una scarpa sola, una gamba sola. Quello che mi tiene da dietro si sta eccitando, sento che si struscia contro la mia schiena. Ora quello che mi sta tra le gambe mi entra dentro. Mi viene da vomitare. Devo stare calma, calma. “Muoviti, puttana. Fammi godere”. Io mi concentro sulle parole delle canzoni alla radio; il cuore mi si sta spaccando, non voglio uscire dalla confusione che ho. Non voglio capire. Non capisco nessuna parola… non conosco nessuna lingua. Altra sigaretta. “Muoviti puttana fammi godere”.

Sono le parole di Franca Rame tratte dal monologo “Lo stupro” del 1975. Cos’è uno stupro? Avete il coraggio di immaginarlo? L’empatia per capirlo? La forza per affrontare queste parole guardandole dritte negli occhi? 

È molto difficile che la coscienza comune si sia soffermata davvero a riflettere sul senso più crudo di violenza contro le donne. 

Siamo una generazione destabilizzata dalla normalizzazione della violenza a tal punto da non capire più quando i limiti vengano superati, a tal punto da credere di più che la vittima abbia esagerato o che se la sia andata a cercare “Come eri vestita?” “Ah ma eri anche ubriaca?” “Vabbè però che ti aspettavi?” sicuramente sono frasi che avrete già letto o sentito, magari le avrete anche dette. È il cosiddetto victim blaming, ritenere responsabile la vittima dell’illecito subito. Anziché tutelarla questa viene messa in dubbio, le si addossano mille colpe e il suo stato psico-fisico dopo il trauma passa in secondo piano o non viene nemmeno preso in considerazione. Oltre al peso della violenza, quindi, dovrà anche lottare contro l’ambiente che la circonda e contro se stessa per dimostrare che non è stata colpa sua, che non se l’è andata a cercare, che ne è la vittima, questo è il mondo oggi.

L’esempio mediatico più recente risale a poche ore fa con l’editoriale di Vittorio Feltri, in prima pagina su Libero, relativo al caso Genovese intitolato “Ingenua la ragazza stuprata da Genovese”, colpevolizzando la vittima di non essere stata abbastanza responsabile. Tra le agghiaccianti considerazioni di Feltri forse la peggiore è la seguente: “personalmente ho constatato che si fa fatica a farsi una che te la dà volentieri, figuratevi una che non ci sta”. Fermi, rileggete. Non c’è neanche la minima distinzione tra violenza, stupro e un normale rapporto sessuale consenziente. Non esiste. Per la cultura dello stupro il consenso è nullo, mentre per la donna, e così dovrebbe essere per tutti, il consenso è sacro. 

Siamo davvero disposti ad accettare questa realtà? È una realtà in cui si finisce per avere paura di esprimere la propria sessualità visto l’alto rischio di essere ridotti ad oggetti del piacere, e un oggetto, si sa, non può esprimere consenso, un oggetto è destinato ad essere usato. Quella che stiamo vivendo è un’emergenza sociale e strutturale che non siamo abbastanza pronti a riconoscere. Da cosa si capisce? L’impatto nocivo sta proprio nel parlarne come se si trattasse di una tematica lontana dalla nostra quotidianità quando in realtà è nelle nostre case, nei mezzi pubblici, al lavoro, in università, …

È nelle nostre chat, nelle foto e nei video intimi diffusi senza consenso e quindi in maniera illecita; quei video che rimarranno per sempre su internet, che ti faranno perdere il posto di lavoro, divertono molto chi se li scambia ma tolgono la vita a chi subisce, suo malgrado. 

La violenza di genere ha ucciso, continua a farlo, e quando non uccide viola la persona fino privarla di ciò che prima era imprescindibilmente suo, il corpo, il piacere, il sorriso, la tranquillità, la libertà. Perdere anche solo una di queste cose è innegabilmente un trauma e, innegabilmente, ti cambia la vita. Questi traumi non si possono superare, non si può voltare pagina, perché non si tratta di casi isolati, il problema è sistemico e può ripetersi, in diverse forme certo, ma più volte nel corso della vita di una donna o di una persona che non rispecchi i canoni del privilegio (uomo, cis, etero, bianco, in salute). È davvero una vergogna che ancora si debba manifestare contro tutto questo e che non esista una effettiva consapevolezza collettiva. 

Certo, non tutti gli uomini sono violenti, lo sappiamo, ma questo non toglie loro la possibilità di prendere consapevolezza del fatto di essere parte integrante di un impianto discriminatorio e tossico. L’impegno collettivo è fondamentale e, quando anche il privilegiato diventerà alleato della causa, la lotta sarà rivoluzione.

In occasione del 25 novembre ho intervistato le specialiste della Cooperativa Be Free, Centro Antiviolenza “SOS Donna” di Roma.

  1.  si riconosce una relazione violenta? Quali sono i comportamenti che possono essere associati a dei “campanelli di allarme”? Devono essere per forza gesti plateali?

Quando parliamo di relazioni violente siamo di fronte a una complessità poiché dobbiamo prendere in considerazione i vissuti e le dinamiche entro cui poi si innestano gli agiti violenti. Spesso si tratta di relazioni non paritarie, dove il maltrattante abusa del proprio potere e la donna in relazione con lui lo subisce. Lo svolgersi della relazione per queste motivazioni non può che essere di natura non lineare e sarà costituita da momenti in cui la violenza sarà agita in modo palese che si succederanno ad altri momenti di tentativi di riconciliazione o pentimento, che però non intaccano la struttura di potere e che perciò non definiscono la fine della relazione abusante bensì un sorta di avvitamento sempre più stringente e pericoloso. C’è una sorta di schema di riferimento che non è più quello della spirale, sicuramente importante ma troppo deterministica, ma è la figura dell’iceberg che evidenzia bene le radici sociali e culturali della violenza (la zona invisibile), i segnali primari che sono l’umiliazione, la svalorizzazione, il disprezzo, il far sentire in colpa, eccetera ed infine nella parte finale la violenza fisica che comprende la violenza sessuale, la violenza psicologica (aggressioni verbali) fino al maltrattamento. In questo schema la punta dell’iceberg è il femminicidio.

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  1. Come ci si distacca da una relazione violenta (tossica e di possesso) quando si è da soli (o isolati volontariamente dal partner)? 

È molto difficile stando da sole che si riesca a capire che ci può essere un’alternativa di vita rispetto a quella che si sta vivendo all’interno di una relazione violenta, poiché ogni tipo di abuso di potere viene accompagnato da una manipolazione. Questa consiste nel convincere la donna che subisce l’abuso di essere incapace di fare qualunque cosa e inadeguata al proprio ruolo di moglie e di madre, di dover necessariamente affidarsi al maltrattante abdicando ai propri pensieri e alle proprie volontà, di dover infine rinunciare a tutto ciò che costituiva la propria vita adeguandosi completamente a quello che il maltrattante vuole. Il tentativo è quello di far cessare questa persecuzione senza senso assecondando l’abusante, soprattutto quando sono presenti i figli. Il tentativo è quello di proteggerli dal carattere violento del padre assecondando qualunque richiesta. Spesso poi, riguardo ai minori, la minaccia più potente che inchioda una donna nella relazione è quella di farle togliere i figli. Una minaccia praticamente sempre pronunciata dal partner e che accompagna le critiche alla donna di non essere una buona madre. Di fronte a questo quadro nessuna si salva da sola ma solo le reti di donne e i luoghi presenti sul territorio con personale professionalizzato possono costruire insieme con le donne che subiscono relazioni violente un percorso di fuoriuscita.

  1. Ma le violenze non avvengono solo dentro le relazioni. Come si può arrivare a chiedere aiuto quando la violenza avviene fuori da una relazione e, per dolore o per vergogna, si tende a volerlo nascondere così tanto da negarlo anche a se stesse e portandoselo dietro per anni?

Dolore e vergogna sono emozioni che accompagnano sempre la violenza ed è importante ricordare che per essere prese in carico da un Centro Antiviolenza (CAV) non è necessario aderire allo stereotipo della donna che subisce violenza intrafamigliare. Non bisogna infatti essere state picchiate per forza oppure essere in una relazione e fare riferimento ad un partner presente, ma si può chiedere aiuto e fare un percorso efficace anche se si hanno dei dubbi su un vissuto presente o passato.

  1. Come si dovrebbero comportare gli amici o i parenti della vittima nel caso di violenza? 

Amici e parenti possono essere un nodo importante della rete che sostiene una donna che sta all’interno di una relazione violenta, ad esempio dimostrandole affetto e vicinanza. Una cosa però fondamentale da tenere presente è che la fuoriuscita da una relazione violenta può concretizzarsi solo attraverso un processo di consapevolezza e attraverso una scelta autonoma. Per questo motivo anche le persone vicine nel sostenere la donna dovrebbero astenersi dal giudicarne le scelte e sostituirsi a lei nelle stesse. Spesso è sufficiente dare le informazioni corrette, ad esempio la chiamata alle Forze dell’Ordine in caso di pericolo, il recarsi al pronto soccorso in caso di violenza fisica subita e, per tutti gli altri casi, i riferimenti di un centro antiviolenza.

  1. Qual è la differenza tra un percorso presso un centro antiviolenza e un percorso di psicoterapia?

Il percorso in un centro antiviolenza si basa sulla relazione tra donne, ovvero sul presupposto che il vissuto similare all’interno dello stesso genere faciliti la creazione di una relazione basata sulla fiducia. Questa relazione si concretizza in colloqui individuali con lo scopo di creare degli strumenti di gestione delle conseguenze della violenza attualmente presenti all’interno della vita della donna che possono essere tutele psicologiche, relazionali e legali. Il colloquio avviene con una operatrice specifica ma la donna è presa in carico da un’equipe multidisciplinare che si confronta costantemente rispetto al percorso delle donne. La differenza principale con la psicoterapia è che questa si occupa di tutte le dinamiche del profondo che necessitano una rielaborazione al fine di promuovere una trasformazione e uno sviluppo entro la propria esistenza. Spesso i due percorsi possono affiancarsi.

  1. Dall’inizio della pandemia il numero di chiamate al centro antiviolenza ha subito un aumento? Come riuscite ad aiutare le donne con l’ostacolo dell’isolamento forzato?

Soprattutto nei mesi di lockdown nei centri si è registrato un incremento delle domande di aiuto da parte di donne, che si sono trovate costrette a casa all’interno, spesso, di relazioni già tossiche e/o violente. Uno dei mesi con il più alto numero di accessi ai nostri servizi è stato maggio 2020, con un aumento rispetto a gennaio dello stesso anno del 50%; la stessa tendenza si è poi registrata nuovamente a ottobre e novembre e cioè in contemporanea all’introduzione di nuove misure restrittive dovute al nuovo aumento di contagi. Nei mesi di lockdown “totale”, cioè da marzo a fine maggio, le operatrici del centro hanno garantito comunque l’attività dello sportello anche attraverso l’utilizzo di colloqui telefonici e comunque sempre nel rispetto delle misure di sicurezza.

  1. Sarebbero opportuni percorsi di sensibilizzazione antiviolenza, in modo da permettere di riconoscere e denunciare la violenza, ma anche e soprattutto di prevenire?

Crediamo che per contrastare efficacemente i fenomeni sociali della violenza, della tratta e della discriminazione di genere, debbano essere attivati una serie di interventi diversificati, ma tutti coerenti con un’ottica di base, improntata al valore dei diritti umani di genere, e volta al perseguimento dell’empowerment, tanto per il target di riferimento quanto per le operatrici stesse.
L’assunzione di un’ottica di genere è inoltre volta alla diffusione del concetto di mainstreaming, con l’obiettivo di favorire modificazioni positive nella percezione socialmente diffusa sulle donne, gli altri, le diversità, e di veicolare una cultura della relazione e del rispetto. Per questo la nostra Cooperativa crede che vadano messe in atto delle azioni volte a contrastare il fenomeno della tratta di esseri umani a scopo di sfruttamento sessuale/lavorativo, delle violenze contro le donne e i minori, delle discriminazioni; offrire un’accoglienza specializzata e altamente qualificata; contribuire alla diffusione di una cultura del rispetto e del riconoscimento attraverso eventi, pubblicazioni, formazione agli operatori sociosanitari e delle Forze dell’Ordine, interventi di prevenzione dei comportamenti aggressivi nelle scuole, pubblicazioni

  1. E, infine, quale dovrebbe essere il significato del 25 novembre? Perché oggi si parla molto di violenza sulle donne o femminicidi? Rispetto a 20 o 40 anni fa la situazione è peggiorata o abbiamo più contezza del fenomeno perché ora finalmente lo stiamo affrontando?

Per chi, come Befree, ogni giorno supporta le donne nel percorso di fuoriuscita e di autodeterminazione, gestendo i centri dedicati, il 25 novembre non ha nulla di celebrativo. Questa data, istituita nel 1999 dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite, assume una profondità specifica: diventa l’occasione per rimettere sotto i riflettori un fenomeno strutturale, che non ha nulla di emergenziale, ma al contrario si manifesta ogni giorno, senza distinzioni di classe e di geografia ed è profondamente radicato in una cultura maschilista. Nel 2013, in Italia 117 donne sono state uccise da uomini. Uno studio condotto dalla Fundamental Rights Agency dell’Unione europea rileva che il 34% delle donne a partire dai quindici anni di età sono state vittime di violenza fisica e/o sessuale da parte di uomini. Una ricerca condotta dall’associazione INTERVITA e basata principalmente sui dati esistenti (2006) ha calcolato che il costo sociale della violenza contro le donne è di 17 miliardi di Euro. In Italia non vi è sistema uniforme e affidabile per la raccolta di dati qualitativi e quantitativi sulla violenza di genere, né esiste al momento un piano nazionale d’azione per contrastarla. La violenza maschile sulle donne rimane dunque uno degli ostacoli principali al godimento dei diritti umani delle donne e all’uguaglianza.

Zoe Votta

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Il femminismo e gli uomini: oltre la lente politica

Questa è una lettera di risposta a un articolo precendentemente pubblicato su La Disillusione: https://revert798312376.wpcomstaging.com/2018/11/17/femminismo-al-femminile-manca-il-maschile/

Cara Francesca,

Il tuo articolo è una ventata di aria fresca per quanto riguarda la discussione dei rapporti di genere in questi nostri tempi confusi. Cercherò dunque di apportare un primo, modesto contributo ad una conversazione che è decisamente in ritardo, partendo con una battuta impertinente. L’idea di uno “spazio” in cui gli uomini ridefiniscono la propria identità maschile “indipendentemente dalle donne” mi fa immediatamente pensare a due possibili scene: una gara di rutti nello spogliatoio di una palestra, o in alternativa una sessione di terapia di gruppo dai toni bassissimi e un po’ sterili. In altre parole, non sono del tutto sicuro che gli uomini possano definire le proprie identità in uno spazio indipendente da quello femminile. Non perché l’identità maschile (per ora assumiamo a priori che tale categoria esista) sia meno complessa o meno autonoma della sua controparte, quanto per il fatto che, proprio come tu suggerisci, siamo rimasti “indietro”. Che sia stato il femminismo a scordarsi dei maschi o piuttosto noi a scordarci di noi stessi, il risultato non cambia: il superamento di quel determinismo culturale che codificava rigidamente le identità di genere non è stato colto dall’immaginario maschile come una sfida collettiva di rielaborazione, ma semplicemente come un’evoluzione dei costumi a cui adattarsi individualmente. Sono consapevole che quest’ultima sia un’affermazione audace e non generalizzabile, tuttavia sono convinto che rifletta l’esperienza di molti uomini che non sentono di avere una coscienza collettiva di riferimento. O meglio, tale coscienza esiste, ma anziché essere un sentimento di solidarietà comune è un padre-padrone che giudica costantemente la nostra inadeguatezza e lascia pochissimo spazio alla complessità. Ed è proprio la permanenza di questo super-ego maschile e la sua relazione con la costruzione dell’identità che vorrei utilizzare come punto di partenza per questo articolo.

Identità, Intersoggettività, Cultura

Che cos’è l’identità? Sicuramente non qualcosa che posso sperare di definire in maniera soddisfacente in questa sede, ma vale la pena formularne un concetto approssimativo per amor di discussione. Di sicuro non è né un contenitore vuoto da riempire a nostro piacimento né qualcosa che ci piove in testa dal cielo alla nascita, ma piuttosto il risultato di un processo di mediazione tra le istanze più o meno autonome del proprio sé – personalità, ambizioni, vocazioni, desideri – e le influenze inevitabili della cultura e delle interazioni sociali che accompagnano la crescita dell’individuo e la vita in generale. Il femminismo, nelle sue diverse ondate, ha riaffermato la forza delle prime sulle seconde per quella metà della popolazione umana che l’Illuminismo e le sue rivoluzioni avevano lasciato da parte, permettendo dunque alle donne di emanciparsi dai ruoli subalterni e claustrofobici che la società aveva loro imposto.

Da qui l’effetto performativo sulla cultura, il rovesciamento dei vari stereotipi e l’esplorazione dell’ identità femminile come esperienza piuttosto che come modello. Tutto ciò si è tradotto, entro un certo grado, nella consapevolezza generale che non esiste uno standard di riferimento dell’identità femminile a cui le donne dovrebbero attenersi per sentirsi a proprio agio nel loro essere donne. Ne segue che, entro i limiti della convivenza civile, ogni modo di vivere la soggettività femminile ha la stessa dignità di tutti gli altri.

Lo stesso principio egualitario si applica ovviamente anche alle soggettività maschili, ma la mancata rielaborazione culturale fa sì che tale principio rimanga quasi solamente formale, mentre nella sostanza gli uomini rimangono concepiti come “il sesso forte” in un senso che va ben oltre l’anatomia: da loro ci si aspettano vitalità, risolutezza, coraggio, ma soprattutto iniziativa. Iniziativa nel manifestare interesse verso un potenziale partner, nel mostrare di avere carattere e senso dell’umorismo, nel “sapersi vendere bene” al resto del mondo, e spesso persino nell’iniziare il contatto fisico che precede ogni atto sessuale. Per un uomo è quasi impossibile rifiutare tutte queste aspettative e poter sperare di vivere serenamente.

Detto questo, non è mia intenzione esaltare il diritto degli uomini a non adeguarsi nè presentare questo diritto come un dovere politico, perché una mossa del genere sarebbe controproducente nel breve periodo (cosa facciamo, Lysistrata al contrario? Chi ci crede?). Il vittimismo non fa bene a nessuno, tantomeno agli uomini.  Credo, piuttosto, che sia necessario prendere in considerazione la permanenza di queste aspettative non solo nella dimensione culturale dei rapporti di genere, ma anche in quella intersoggettiva.

Con questo intendo dire che a riprodurre un certo ideale di “uomo-che-non-chiede” tipo Han Solo quando bacia Leia non è solo la cultura, sono anche moltissime donne nelle loro interazioni quotidiane, e pensare che questo non riguardi anche alcune donne che si ritengono femministe sarebbe quantomeno sospetto.

A questo punto, possiamo davvero cambiare questo stato delle cose semplicemente attraverso un’operazione culturale parallela, un “femminismo dei maschi” che si concepisce come indipendente da quello “delle femmine”, con cui si limita a fare due chiacchiere ogni tanto? Un progetto simile potrebbe sicuramente portare a risultati concreti e positivi nel lungo periodo, ma sarebbe un po’ come mettere una guarnizione ad un tubo che perde da ieri notte e poi tenersi l’acqua in casa fino alle caviglie: prima o poi l’acqua evapora, ma si può fare di meglio e provare a salvare il parquet.

 

“Sono come tu mi vuoi”

Individuali o collettive che siano, tutte le identità hanno una componente eterodiretta che riflette le aspettative degli altri e i loro riconoscimenti. Come accennavo prima, uno dei grandi successi del femminismo è stato cambiare e certamente su quel versante c’è ancora parecchio lavoro da fare. Ma sul versante opposto i lavori non sono mai cominciati.

Prendiamo ad esempio una convenzione che gode ancora di ottima salute, secondo cui è l’uomo a dover cercare e la donna a dover scegliere. Se si proponesse di superarla o rovesciarla una volta per tutte, quanta resistenza ci si potrebbe aspettare da parte di individui di entrambi i sessi?

Per il momento, forse agli uomini non resta che accettare il fatto che parte della loro identità si articoli sulle aspettative che le donne proiettano verso di loro, e che il loro riconoscersi come adeguati o meno a tali aspettative abbia delle conseguenze determinanti per il loro rapporto con se stessi. Ma questo è quasi ovvio, e non vale certo di meno per le donne.

La differenza significativa sta nel modo in cui la convenzione di cui sopra opera a livello collettivo.

Essa pone quasi tutti gli uomini davanti alla possibilità del rifiuto almeno una volta nella vita, mentre una donna non è necessariamente costretta ad affrontare questo rischio. Anzi, molto spesso le donne sono soggette ad un’educazione ed una socializzazione che le incoraggiano a sottrarvisi, a mostrare il loro potenziale interesse attraverso segnali mai troppo espliciti, perché il costume vuole che siano gli uomini ad interpretarli e ad agire di conseguenza. Lo so, sembra una piccolezza irrilevante rispetto alla realtà complessiva, ma non lo è affatto.

Questa convenzione fornisce infatti il presupposto strutturale – anche se non per forza causale – su cui si articolano le dinamiche di competizione maschile, che avvenga tra estranei l’un l’altro indifferenti o tra amici che farebbero volentieri a meno della gara. Fin da adolescente, non ho mai smesso di chiedermi se non ci sia una certa relazione di rinforzo tra l’iterazione di queste dinamiche e lo sviluppo, nella psiche maschile, di una visione delle donne come “premi” da vincere in funzione della propria autostima. E ogni tanto vorrei che Simone de Beauvoir fosse ancora viva per porre questa domanda anche a lei.

Quanta distanza concettuale c’è tra un premio che si vince ed un oggetto che si possiede?

Sono certo che molte femministe siano ben coscenti di questa realtà ed altrettanto certo che, in un certo senso, non ci possano fare niente. L’idea di una donna che cerca di emancipare un’altra donna dicendole “smettila di essere così maschilista!” effettivamente fa un po’ ridere, visto che il paternalismo (in teoria) è un’attitudine inconciliabile con lo spirito femminista. Tuttavia, per gli uomini il problema rimane: dobbiamo relazionarci quotidianamente con un mondo femminile che da un lato ci attribuisce le tipiche aspettative culturalmente associate ai maschi e dall’altro le rinnega. Il che ci mette di fronte a situazioni che spesso non riusciamo a decifrare.

Ad esempio, quando siamo costretti a vedere che il machismo becero e irritante di certi rettili in discoteca, ogni tanto, paga. O quando le nostre madri, sorelle, e maestre delle elementari ci inculcano (pur con le migliori intenzioni) una visione agiografica delle donne come esseri eterei e moralmente superiori, senza macchia e senza corpo. La quale, ad un certo punto dell’adolescenza, finisce inevitabilmente per collassare davanti alla realtà. Magari proprio quando si cominciano a frequentare le suddette discoteche.

Verso la scomodità

Ecco, quando viene posto in relazione con il problema della violenza di genere, questo ragionamento perde ogni residuo di leggerezza e diventa una questione spinosissima. Questione che non ero costretto a tirare fuori, e se avessi voluto stare sul sicuro questo articolo si sarebbe concluso al paragrafo precedente. Ma la coscienza mi impone, masochisticamente, di esternare l’idea che per comprendere fino in fondo la violenza di genere non sia sufficiente indagare la “dark triad” e la psicologia culturale dei predatori sessuali. Sarebbe un lavoro lasciato a metà.

Serve anche capire come le donne concepiscono gli uomini, cosa che sicuramente non possiamo fare da soli. In particolare, abbiamo bisogno di capire fino a che punto l’idea di uomo nell’immaginario collettivo delle donne contiene ancora elementi potenzialmente permeabili a quelle manifestazioni aggressive e violente che il mondo anglofono chiama, certo non senza motivo, “toxic masculinity” e “rape culture”.

Ci terrei ad anticipare un’obiezione che immagino si stia già facendo strada nella mente di chi legge: non sto assolutamente parlando di girare la frittata e dare la colpa degli abusi alle donne che ne sono vittime. La condanna di ogni forma di violenza non si discute, e il fatto che io mi senta in dovere di fare questa precisazione dopo tutto ciò che ho scritto finora forse è uno spunto di riflessione ulteriore, su cui tornerò più avanti.

Sto parlando di cominciare un’operazione scomoda e difficile, che tra le altre cose implica un’indagine collettiva della seduzione, dell’affetto e della sessualità in tutta la loro ambivalenza psicologica e morale. E che andrebbe portata avanti con cautela, ma il più possibile alla luce del sole, per riuscire a stare in bilico tra il pericolo dell’invadenza e quello dell’ipocrisia. Ma se continuiamo a posticiparla sine die perché crediamo che non sia poi così necessaria, o perché rischia di lanciare pericolosi inviti al maschilismo più bieco, la violenza di genere rimarrà sintomo di una malattia che ci asteniamo dal conoscere davvero.

Riusciremo a curarla a suon di deterrenza e di scandali di cronaca, puntando un dito verso il mostro e l’altro dito verso una cultura maschilista che vogliamo sì cambiare, ma non sappiamo fino a che punto?

Forse. Le statistiche in effetti suggeriscono che gli episodi di violenza stiano calando, ma la crescita inquietante di certe culture sotterranee nel dark web (come quella degli incels, pregna di una frustrazione e un risentimento talvolta reciprocati da chi la denuncia) è una dissonanza che mi preoccupa molto, anche se spero vivamente di sbagliarmi.

Mai come prima d’ora, noi uomini ci troviamo ad avere un enorme bisogno della vostra sincerità più spassionata. Altrimenti rischiamo di viaggiare sempre più spediti verso l’incomunicabilità, e di trasformare questa incomunicabilità in un’asfissia reciproca dilagante.

Prigionieri dell’apologia

Uno degli ostacoli da superare per quanto riguarda le relazioni di genere ha a che fare con il clima dialettico in cui queste vengono discusse e, talvolta, anche con il taglio politico che le sottolinea. Senza dubbio, la concezione neo-Gramsciana del femminismo, che identifica il patriarcato come correlativo del sistema capitalista basato sulla proprietà e sulle disuguaglianze, ha un fondo di verità e ha conferito vigore politico a battaglie importanti nella società e nelle istituzioni. D’altra parte, però, ho il sospetto – da buon materialista storico – che lo sconvolgimento del panorama sociale e tecnologico della comunicazione (mass media prima, social media poi) abbia cambiato radicalmente le carte in tavola, nel bene e (soprattutto) nel male. Uno degli effetti collaterali di questi sviluppi è stata l’integrazione funzionale dell’antagonismo politico femminista in un ambiente comunicativo paranoico ed esasperante, dove ogni proposizione viene valutata esclusivamente per il suo potenziale apologetico piuttosto che per il contenuto in sé. Con risultati controproducenti per gli obiettivi di inclusività ed emancipazione che il progetto femminista vuole portare avanti.

Un esempio paradigmatico è il caso della filmmaker americana Cassie Jaye, finita al centro di asprissime controversie dopo l’uscita nel 2016 del suo documentario The Red Pill, in cui intervista alcuni esponenti dei cosiddetti Men’s Rights Activists e racconta l’impatto che questo confronto ha avuto sulla sua visione del mondo. Non potendomi dilungare sullo scopo e il contenuto del lungometraggio, che non nego essere indigesto sotto molti aspetti, consiglierei la visione di questo TEDx talk in cui la Jaye riassume l’inquisizione mediatica che ha subito con le seguenti parole: “when you start to humanize your enemy, you might in turn be dehumanized by your community”. A poco è valso Il fatto che i suoi lavori precedenti parlassero di temi come la libertà e la salute sessuale e riproduttiva delle donne (Daddy I Do, 2010) e i diritti delle coppie omosessuali (The Right To Love, 2012): non aver dipinto i suoi intervistati come pericolosi mostri sciovinisti in The Red Pill le ha fruttato l’ostracismo preventivo del pubblico con cui lei si era sempre identificata, e a cui il documentario era rivolto.

Non nego che questa mentalità anticipatoria sia piuttosto comprensibile, visto che l’apologia del maschilismo va molto di moda ultimamente. Tanto che ce la sto mettendo tutta per non suonare come un certo oscuro professore canadese, che avrebbe anche qualcosa di buono da dire se non avesse deciso di costruire un impero commerciale sull’ambiguità, facendo vari occhiolini alla destra ultraconservatrice per motivi discutibili. Certo, ogni cosa succede in un contesto, e in questo caso il contesto è quello Nordamericano. Nella nostra cara Europa le cose sembrano andare un po’ meglio.

In Italia, ad esempio, abbiamo avuto La TV delle Ragazze, tutt’altro spirito e tutt’altro intelletto rispetto alla vulgata femminista d’oltreoceano. Ma le influenze atlantiche ogni tanto fanno capolino. Per esempio, quando la proposta di legalizzare la prostituzione viene osteggiata a priori dalla sinistra perché assimilata a tutte le altre proposte deliranti della Lega. Anche se concepita in modo regressivo, come ritorno alle situazioni degradanti e indifendibili delle “case di tolleranza” abolite dalla legge Merlin, la proposta rimane comunque un’opportunità per presentare emendamenti e trasformare le attuali politiche basate sulla deterrenza in politiche volte alla riduzione del danno. Che peraltro è esattamente ciò che la sinistra ha sempre voluto fare con le droghe leggere. E poi ammettiamolo una volta per tutte: Lina Merlin, nonostante i tanti e indiscutibili meriti, era mossa da un moralismo che oggi farebbe storcere il naso a molte donne.

Il Contrappasso di Adamo

Recentemente ho visto una conferenza di Galimberti in cui, tra le altre cose, l’intellettuale dallo stile burbero e tranchant afferma che la visione cristiana del tempo, dell’etica e del progresso sociale pervade persino il pensiero critico di due “Maestri del Sospetto” come Freud e Marx (Nietzsche se la scampa con l’Eterno Ritorno, anche se non del tutto).

Il passato è sofferenza (peccato/patologia/oppressione), il presente è redenzione (pentimento/terapia/rivoluzione), il futuro è emancipazione (regno dei cieli/guarigione/società senza classi).

Logicamente, questa radice cristiana è presente anche nei vastissimi filoni di pensiero articolati sulla falsariga dei due filosofi nei decenni a venire, e il femminismo – specie quello accademico – non ne è certo immune. Anzi, provocatoriamente, mi verrebbe da chiedere: cos’è diventato il patriarcato, nel discorso politico dell’occidente odierno, se non il peccato originale degli uomini? Un capovolgimento del mito di Eva che trasforma una verità storica innegabile (l’oppressione millenaria delle donne) in una colpa metafisica che tutti gli uomini, anche quelli nascituri, devono e dovranno portarsi appresso in un modo o nell’altro?

Ci tocca ammettere, un po’ amaramente, che Benedetto Croce aveva più ragione di quanto vorremmo concedergli: non possiamo non dirci cristiani, nemmeno nella contestazione più radicale. Forse questa consapevolezza, che potrebbe sembrare pericolosa in quanto neutralizzante, può invece fornire il presupposto per una critica più ampia, profonda e riflessiva, che ci permetta di negoziare davvero la nostra cultura e i nostri costrutti sociali liberamente e democraticamente. E di lasciarci alle spalle, per quanto possibile, quei tanti orpelli ideologici che invertono gli schemi senza mai cambiarli.

Daniele Vanni