Sergentmagiù, ghe rivarem a baita?

Sergentmagiù, ghe rivarem a baita?

La domanda dell’alpino Giuanin rimbalza ossessiva, come un ritornello, tra le pagine del libro. Tornare a casa, dalle proprie famiglie e ai campi natii, uscire vivi da una guerra già persa in partenza, sopravvivere ai proiettili dei russi ma soprattutto alla neve, al freddo, alla fame e agli stenti che impone l’inverno russo.

Il sergente nella neve di Mario Rigoni Stern, la cui prima edizione risale al 1953, è il racconto autobiografico dell’esperienza dell’autore come sergente maggiore dei mitraglieri nel battaglione Vestone dell’Armir durante la seconda battaglia del Don; la narrazione inizia nel dicembre del 1942 e giunge a conclusione nella primavera del 1943.

C’era la guerra, proprio la guerra più vera dove ero io, ma io non vivevo la guerra, vivevo intensamente cose che sognavo, che ricordavo e che erano più vere della guerra. Il fiume era gelato, le stelle erano fredde, la neve era vetro che si rompeva sotto le scarpe, la morte fredda e verde aspettava sul fiume, ma io avevo dentro di me un calore che scioglieva tutte queste cose.

La prima parte della narrazione, intitolata Il caposaldo, racconta la vita del battaglione Vestone nel proprio accampamento difensivo sulle rive del Don; per quanto il freddo e la fame si facciano sentire, il clima in questa prima parte è ancora disteso e quasi familiare: si prepara la polenta, si intonano canti alpini e si puliscono e si oliano le armi, tutti insieme, mentre ci si difende da qualche sporadico attacco russo. La guerra, la morte, sono ben presenti, ma sono al di fuori della realtà del caposaldo: uno strano tepore, quasi magico, avvolge i soldati e sembra proteggerli, isolarli dalla cruda realtà della guerra.

Sul fiume gelato vi erano dei feriti che si trascinavano gemendo. Sentivamo uno che rantolava e chiamava: «Mama! Mama!». Dalla voce sembrava un ragazzo. Si muoveva un poco sulla neve e piangeva. «Proprio come uno di noi» disse un alpino «chiama mamma». La luna correva fra le nubi; non c’erano più le cose, non c’erano più gli uomini. «Mama! Mama!» chiamava il ragazzo sul fiume e si trascinava lentamente, sempre più lentamente, sulla neve.

È forse uno degli aspetti della narrazione di Rigoni Stern che più colpisce il lettore: il nemico non assume mai caratteri mostruosi, le sembianze dell’antagonista, il ruolo del portatore di morte; anche nella seconda parte del racconto, quando la situazione dei soldati italiani diventerà disperata, i soldati russi non assumeranno mai questo ruolo: addirittura, dopo la decisiva battaglia di Nikolaevka, il sergente Rigoni, stanco e affamato, troverà riparo in una isba e mangerà, quasi gomito a gomito, in un’atmosfera surreale, allo stesso tavolo di un gruppo di soldati dell’Armata Rossa. Il vero nemico, come vedremo, sarà il freddo, il gelo, il temibile generale Inverno. D’altronde quel “proprio come uno di noi” è abbastanza eloquente e in questo senso e potrebbe ricordare i versi de La guerra di Piero:

E mentre marciavi con l’anima in spalle
Vedesti un uomo in fondo alla valle
Che aveva il tuo stesso identico umore
Ma la divisa di un altro colore. 

 Nel gennaio 1943 la situazione precipita: i soldati italiani cominciano la loro disperata ritirata verso casa. Comincia la seconda parte della narrazione, intitolata La sacca, nella quale abbiamo il picco di drammaticità del racconto. L’atmosfera tiepida del caposaldo, le luci calde delle lampade a olio riflesse dal legname, lasciano il posto al freddo sterile della steppa russa, alle infinite distese di neve abbacinante, ai morsi della fame, ai piedi immersi gelati che ghiacciano e si spezzano, come rami secchi.

Ora mi butto sulla neve e non mi alzo più, è finita. Ancora cento passi e poi butto via le munizioni. Ma non finisce mai questa notte e questa tormenta?”
Ma si camminava. Un passo dietro l’altro, un passo dietro l’altro, un passo dietro l’altro, Pareva di dover sprofondare con la faccia dentro la neve e soffocare con due coltelli piantati sotto le ascelle. Ma quando finisce? Alpi, Albania, Russia. Quanti chilometri? Quanta neve? Quanto sonno? Quanta sete?
È sempre stato così? Sarà sempre così? Chiudevo gli occhi ma camminavo. Un passo. Ancora un passo.

La narrazione de La sacca è scandita da una forte ripetitività: si cammina, congelati ed esausti, si combatte per conquistarsi il riposo e qualcosa da mangiare in qualche isba e poi si riparte, si cammina, ancora, fino al prossimo villaggio. L’atmosfera è trasognata: si perde la cognizione del tempo e dello spazio, non sembra esserci posto per il calore umano, per la vita; tutto intorno è freddo e morte e questa guerra, senza senso, sembra non avere mai fine. Si va avanti, ripetendosi ossessivamente:

Adesso e nell’ora della nostra morte”, dico tra di me, come un disco che giri a vuoto. “Adesso e nell’ora della nostra morte. Adesso e nell’ora della nostra morte.

 Poi la battaglia di Nikolaevka: il sergente Rigoni perde tanti cari amici e compaesani ma ciò non sembra scomporlo più di tanto: la morte è all’ordine del giorno e nemmeno ci si accorge più dei cadaveri gettati nella neve. Il freddo, il gelo della steppa sembra essere penetrato non solo nei corpi, ma anche nelle anime dei soldati, scavando in profondità e svuotandoli di ogni residua umanità:

Era ancora notte e c’era un gran trambusto per il paese. Feriti gemevano sulla neve e nelle isbe. Ma io, ormai, non pensavo più a niente; neanche alla baita. Ero arido come un sasso e come un sasso venivo rotolato dal torrente. Non mi curavo di cercare i miei compagni e, dopo, nemmeno di camminare in fretta. Proprio come un sasso rotolato dal torrente. Più niente mi faceva impressione; più niente mi commoveva.”

L’unica speranza, l’unica scena in cui i soldati sembrano essere ancora un po’ umani e non soltanto automi che arrancano nella neve, è proprio quella della cena nell’isba insieme ai soldati dell’Armata Rossa dopo la battaglia di Nikolaevka. La guerra, che vorrebbe estirpare dall’uomo ogni sua briciola d’umanità, convincerlo che uccidere un proprio simile, morire e veder morire sia una cosa giusta, non riesce del tutto nel suo intento. La speranza di Rigoni Stern è che ciò che gli è accaduto in quell’isba possa ripetersi, ancora, tra uomini ai quali si è imposto di essere nemici ma che, a conti fatti, sono sempre uomini e dunque fratelli.

In quell’isba si era creata tra me e i soldati russi, e le donne e i bambini un’armonia che non era un armistizio. Era qualcosa di molto più del rispetto che gli animali della foresta hanno l’uno per l’altro. Una volta tanto le circostanze avevano portato degli uomini a saper restare uomini. […] Finché saremo vivi ci ricorderemo, tutti quanti eravamo, come ci siamo comportati. I bambini specialmente. Se questo è successo una volta potrà tornare a succedere. Potrà succedere, voglio dire, a innumerevoli altri uomini e diventare un costume, un modo di vivere.

La marcia sembra non avere mai fine finché, ciò che resta dell’Armir, giunge in Bielorussia: ad aspettarli, fuori dalla sacca, ci sono dei camion italiani; a suggellare questo momento di vittoria per i reduci, per coloro che sono sopravvissuti all’inverno russo, arriva la primavera a mitigare le sofferenze del freddo.   Il racconto si conclude con una scena forte ed eloquente: il sergente Rigoni si guarda allo specchio e fatica a riconoscersi. È forse questo il maggior danno per chi sopravvive a un’esperienza bellica: la spersonalizzazione, l’alienazione da se stessi, il ritornare al proprio io precedente agli orrori della guerra.

E questo sarei io: Rigoni Mario di GioBatta, n.15454 di matricola, sergente maggiore del 6° reggimento alpini, battaglione Vestone, cinquantacinquesima compagnia, plotone mitraglieri. Una crosta di terra sul viso, la barba come fili di paglia, i baffi sporchi di muco, gli occhi gialli, i capelli incollati sulla testa dal passamontagna, un pidocchio che cammina sul collo. Mi sorrido.

Il sergente nella neve è un racconto purtroppo troppo poco riconosciuto dalla letteratura italiana; il testo di Rigoni Stern, spesso paragonato a Hemingway per l’essenzialità e la crudezza dello stile, risulta essere una vera e propria testimonianza, più che un racconto; non ci sono particolari intenti artistici, né canoni letterari: Il sergente nella neve è il racconto di un’esperienza di vita, scritta in uno stile essenziale, adatto ad ogni lettore, e forse è proprio questo il suo maggior punto di forza: la sua spontaneità stilistica restituisce a pieno la veridicità e la forza emotiva delle vicende storiche e soprattutto umane narrate.

Danilo Iannelli

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