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Re Johnson, Impero d’Inghilterra: il senso della Brexit nella strategia della “tribù”

“Do or die”: Brexit o morte. A un anno dalla schiacciante vittoria dei Tories, a quattro dalla vittoria
del Leave, l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione europea sembra essere tutt’altro altro che
vicina ad un accordo.
Il preannunciato disastro economico – per l’economia reale, per le aziende, per i lavoratori – appare
ancora più imminente e minaccioso nel Paese europeo (ancora) con il più alto numero di vittime
di covid-19. Eppure, la bandiera della Brexit non vacilla.
Così come non vacilla Boris Johnson, nonostante il ciclone sanitario e politico portato dalla
pandemia: più che un leader, un simbolo, la cui missione autoimposta corrisponde al destino del
Regno Unito, sulla strada per tornare ad esistere come grande potenza atlantica, giocando sulla
consanguineità, strategica e storica, con la ben più fortunata figlia a stelle e strisce.
Ma dove nasce la visione del mondo di Boris, il bambino che sognava di diventare re? E su quali
basi è possibile criticarla? Per rispondere ci porremo tre domande: chi è Boris Johnson? Qual è il senso della Brexit? Che cos’è il tribalismo?

Re Boris
Si racconta che Paul Ricoeur, filosofo ermeneutico, quando qualcuno dei suoi studenti gli poneva
una domanda, rispondeva sempre: “Da dove parla, lei?”. Ciascuno, infatti, per il francese proviene
da un certo retroterra, un humus che è la prima situazione in cui si forma l’individualità, con i suoi
caratteri e le sue mancanze.
Nato a New York, da una famiglia di origine turca che di cognome portava Kemal, e che lo
dismise in favore di Johnson, Alexander rinunciò al doppio passaporto anglo-americano, e si
inventò un nuovo nome, Boris: segno pseudo-battesimale del suo secondo originale ingresso al
mondo. E, chissà, forse tra i grandi della Storia.
Proprio l’ambizione è il tratto che ha accompagnato, anzi diretto l’iperbolica formazione
dell’attuale premier britannico: l’essenza di fenice che ha bruciato nelle fiamme “Al”, il bambino
semi-sordo che sognava di diventare re del mondo, e ha partorito Boris, l’eccentrico arrogante,
brillante studente di Oxford che alla preparazione e alla tenacia ha dovuto la sua non scontata
carriera. E che, alle velleità da Caesar, sostituì una più modesta, ma altrettanto morbosa,
ammirazione per Churchill, cui dedicò anche una biografia: “How One Man Made History”.
Una biografia con speranze autobiografiche, dato che lui, Boris, la Storia la annusa da tempo,
da quando tentò la carriera nella presidenza dell’Unione studentesca di Oxford, e fallì una prima
volta. Da allora, la passione per la competizione lo ha portato in Parlamento, nei ministeri dei
governi Howard e Cameron e alla guida di Londra per due volte. Sempre in lizza per guadagnare
la leadership dei Tories, obiettivo raggiunto nel luglio del 2019.
Come appare chiaro dalle elezioni del dicembre scorso, lo scettro guadagnato re Boris intende
mantenerlo, puntando tutto su un solo obiettivo: la Brexit. Almeno, prima dell’urgenza di
contenere la pandemia.
L’espressione di sovranità popolare- il referendum in sé- divenuta espressione di sovranismo
dell’Inghilterra (più che della Gran Bretagna), a casa e nei confronti dell’Europa, e di uno
sbilanciamento dei poteri a vantaggio del governo, investito di una missione epocale. Anche a
costo di una (probabile) uscita senza accordo.
Insomma, il premier britannico sembra essere l’interprete perfetto del “tribalismo” di cui lo hanno
accusato dalle file in dormiveglia del Lib Dem Party, il cui nazionalismo populista neanche i
Labour sanno sfidare con un’alternativa credibile.
L’interprete, certo, ma non l’autore di un pensiero diffuso, che ha nella Brexit il suo evento più
recente e rumoroso.

Impero d’Inghilterra
Albione, la “Grande Gran Bretagna” è ciò che rimane della potenza egemone dei mari: non una
nazione, troppo stretta e claustrofobica, non un impero, troppo impegnativo da controllare e
di fatto disgregato. È quella che Lucio Caracciolo ha definito una nazione imperiale, sospesa in
bilico sulla necessità di un ripensamento del suo ruolo.
A rischio non c’è solo la tenuta dei rapporti privilegiati intessuti con pazienza a Est, a Ovest
e a Sud del mondo, ma anche e ancor di più la coesione delle (quasi) quattro nazioni che
compongono il Regno Unito: Inghilterra, Scozia, Galles e Irlanda del Nord.
La Brexit è il prodotto di una tensione naturale tra l’Europa e l’Inghilterra, centro della potenza
britannica: il risultato della convergenza tra la tendenza regional-localistica che l’idea d’Europa
favorisce nei suoi Stati membri e la contromisura (al processo di integrazione) centripeta
attuata dall’amministrazione nazionale inglese. È possibile, infatti, leggere il referendum che
sancì il Leave come una controffensiva al tentativo di indipendentismo scozzese che fu il motivo
del precedente referendum del settembre 2014.
La frammentazione della realtà britannica, del resto, è evidente anche a chi osservi
semplicemente le percentuali dei voti distribuite sul territorio: una scacchiera ben divisa tra
Irlanda del Nord e Scozia, schierate per il Remain, e Inghilterra e Galles, dove la compattezza dei
pro-Brexit è intaccata dal solo voto dissonante di Londra.
Dunque, la realizzazione della Brexit, nella strategia di molti e di Johnson tra questi, avrebbe la
doppia motivazione di fuggire dall’Europa, e dal rischio di rimanere incastrati nei suoi gangli, e
di restaurare l’unità nazionale, o, meglio, di instaurarla con una tattica sovranista, mascherata da
consultazione e quindi ammantata di sovranità.
Il progetto è quello della creazione di una “Global Britain”, liberamente ispirata al modello
statunitense, estensione dello Stato e della “razza” di religione, lingua e cultura inglesi che
dal Canada alle isole delle Indie Occidentali, dall’Australia al Sudafrica all’India percorra tutto
il globo. Con una rete di accordi commerciali che costituiscano una fitta rete capace di
rivaleggiare con l’Europa (e di scavalcarla) e di dialogare – con ribrezzo americano – con la Cina,
nuovo “polo antipodico”.
Un’operazione per proteggersi, dunque, ma soprattutto per ribadire, citando Churchill, che, se
anche l’Inghilterra è stata nella sua storia spesso con l’Europa, tuttavia non si è mai mescolata
con essa.

Il tribalismo della grande nazione
Ambizioni di grandezza, sogni di recupero di un potere dirottato dalla Storia altrove, narrazioni
finto-imperiali in un’epoca di “piccole patrie”, in cui il destino di Grande Nazione educatrice non
può che ridursi alla specchiata paranoia di un’importanza sul globo sempre più flebile e avvizzita:
è dall’insicurezza che nasce l’atteggiamento tribale. Tanto nell’individuo, quanto nella persona,
singola o collettiva che sia, come lo Stato.
Tale atteggiamento è stato definito da Eco “Urfaschismus“, fascismo eterno e radicale,
in senso kantiano. Zagrebelski ha, sulla Repubblica (24 novembre 2018), riassunto così
alcuni suoi caratteri: “identità aggressiva e purismo etico […]; rigetto dei diritti individuali;
primato dell’azione sulla riflessione e sulla discussione; decisionismo; culto della forza; anti
parlamentarismo; esaltazione del senso comune; concezione del popolo come un tutt’uno
indifferenziato; razzismo […]; nazionalismo contro cosmopolitismo; complesso di unicità e
superiorità”. Aspetti, tutti, tipici di una società chiusa il cui archetipo ideale è il modello della tribù
(un modello, per la verità, che ha poco a che fare con la realtà storica delle tribù). Essere tribali
significa richiamarsi a quel modello, cioè dar voce al fascismo radicale che alberga nell’uomo
storico.
Ciò che inaugura questo modello è quello che Levi-Strauss ha definito il “gesto selvaggio” che
distingue un “noi” da un “non-noi”, che ci è estraneo e che va eliminato, tenuto fuori dal limes delle
nostre sicurezze, entro il quale e grazie al quale siamo sovrani.

Si tratta, perciò, di rimarcare costantemente la separazione, per conservare l’identità e la
purezza, la razza, che possiede un territorio e un ordinamento: nel caso inglese una Common
Law i cui interpreti sono i cittadini stessi.
Il concetto che forgia il modello tribale è stato descritto da Roberto Esposito a partire da una
distinzione terminologica tra communitas e immunitas: la prima è la congrega umana che
condivide (“cum”) una mancanza, un vuoto (“munus”) strutturale e connaturato, sul quale fonda,
senza fondare veramente, una società e una storia, necessariamente aperte. La seconda è il
suo contrapposto: una collettività che si immunizza, nascondendo il suo bisogno originale e
originario rendendosi impermeabile ad ogni estraneo, barricandosi nelle poche e futili certezze
del proprio.
Resta, allora, da chiedersi se il tribalismo di cui è accusato Johnson, interprete di un sentire
diffuso non solo in Inghilterra, sia effettivamente il segno di una rinuncia alla condivisione
di un destino europeo o se non sia proprio il segnale più lampante di quella insufficienza e
deficienza di ideali comuni, di vera fraternità, che è l’autentica cifra dell’Europa, terra ambigua
dell’ambizione e della delusione.

Lorenzo Ianiro

God save the House

Boris Johnson ha chiuso il Parlamento del Regno Unito per poter concludere questo dramma shakespeariano della Brexit il 31 ottobre 2019, con o senza accordo (il famoso no-deal) in un atto che è stato definito un attacco vero e proprio ai principi costituzionali britannici.

Posta in questi termini, può sembrare a tutti gli effetti un coup d’état, un golpe della peggior specie, quello che dovrebbe portare le persone nelle piazze per dare fuoco ad un pupazzo con le fattezze di Johnson davanti le porte del Parlamento il 5 novembre. Non è esattamente così.

La chiusura del Parlamento è in realtà una pratica abitudinaria nel Regno Unito che simboleggia la chiusura di una sessione dei lavori della Camera dei Comuni, una breve pausa nella quale si cessano i lavori che poi verranno ripresi successivamente con l’inizio di una nuova sessione. Generalmente la sessione dura un anno e questa chiusura avviene verso autunno. Quest’azione è definita Prorogation. Esso prende la forma di un annuncio, per conto della Regina, letto sia alla Camera dei Lord che alla Camera dei Comuni dai rispettivi Speaker. In questa dichiarazione vengono elencate le leggi e gli atti che sono stati approvati nella sessione in conclusione. Completato il rituale, le Camere vengono sospese fino alla loro ripresa successiva, definita State Opening. 

Lo State Opening invece segnala la ripresa dei lavori. È un momento molto importante e solenne, nel quale la Regina veste la corona e gli abiti da cerimonia e si presenta all’interno della Camera dei Lords. I deputati della Camera dei Comuni attendono invece seduti nella rispettiva sala in attesa che il funzionario della Regina li vada a chiamare. Questi viene definito Black Rod e trova davanti a sé la porta dei Comuni chiusa: questo è un simbolo che deriva direttamente dalla guerra civile per sottolineare l’indipendenza del Parlamento dalla Corona. Il Black Rod bussa tre volte prima che la porta gli venga aperta. Alla sua entrata, invita i Membri del Parlamento a seguirlo e assieme a loro si avvia verso la Camera dei Lords per ascoltare il discorso di Sua Maestà. Questo è l’unico momento regolare in cui le tre parti costituenti il Parlamento sono riunite assieme: Sovrano, Camera dei Lords e Camera dei Comuni. Qui, la Regina legge il discorso che il governo stesso ha preparato, nel quale andrà ad elencare le future azioni che l’esecutivo intende attuare nella prossima sezione. Terminata la lettura, la Regina si riavvia verso Buckingham Palace e le Camere iniziano ufficialmente i lavori della nuova sessione.

Questo è quello che è sempre avvenuto nel Parlamento Inglese e quello che avverrà anche quest’autunno. Ma cos’è allora che genera così tanto clamore?

Le date per la chiusura e la riapertura del Parlamento sono stabilite dal Consiglio Privato di Sua Maestà che è formato da alcuni membri del governo. Da luglio 2019, il Conservatore Jacob Rees-Mogg ne è il Presidente come rappresentante dell’esecutivo Johnson. Generalmente il lasso di tempo che passa dalla Prorogation fino alla State Opening  è di pochi giorni, una settimana. 

Il problema è che Johnson ha deciso di prorogare il Parlamento per ben cinque settimane, la tempistica più lunga di questa sospensione dal 1945. Tutto ciò accade proprio a ridosso di uno degli eventi più importanti della Storia del Regno Unito, il 31 ottobre 2019, giorno nel quale la Gran Bretagna dovrebbe uscire dall’Unione Europea definitivamente. Boris Johnson ha dichiarato che è intenzionato a far uscire i britannici a tutti i costi entro la data stabilita, con o senza accordo (no-deal). Il Parlamento si è più volte espresso in maniera contraria a questa visione, ponendosi a garante di una fuoriuscita molto meno traumatica. Questa chiusura del Parlamento è però un ostacolo molto importante: secondo questa calendarizzazione, la Camera dei Comuni potrebbe riprendere i suoi lavori solamente il 14 ottobre, con soli 17 giorni di tempo prima dell’uscita, rendendo complicata se non impossibile qualunque azione volta a bloccare le mosse del governo, anche nella speranza di poter posticipare l’uscita per lavorare su un nuovo accordo. Tutto ciò è stato chiaramente dettato dell’intenzione di Johnson di impedire che il Parlamento possa interferire con la sua visione di una hard Brexit, tagliando di fatto le gambe all’organo legislativo in qualunque sua contromossa e minando a tutti gli effetti la funzione dell’organo rappresentante il popolo britannico.

Lo Speaker della Camera dei Comuni, John Bercow, ha definito questo “un affronto alla democrazia parlamentare” e “un’offesa ai principi costituzionali”. Jeremy Corbyn, leader dei laburisti, ha richiamato l’opposizione ad un’azione coesa e alimentato le proteste dei cittadini infervorati per quest’azione politica. Oggi, centinaia di migliaia di persone sono attese nelle piazze di Londra per protestare contro una delle mosse politiche più scorrette che il Regno Unito abbia visto negli ultimi tre anni di Brexit. Anche dai ranghi dei Conservatori la situazione non sembra delle più rosee, con il leader dei Conservatori scozzesi, Ruth Davidson, che annuncia le sue dimissioni immediatamente dopo la decisione della Prorogation contro la prospettiva di una no-deal Brexit portata avanti dal Primo Ministro.

Ciò che ha deluso inoltre molti sostenitori di Sua Maestà è che la Regina avrebbe potuto opporsi a questa proposta e rifiutare una tale Prorogation, che invece è stata accettata come di regola, permettendo a Johnson di portare avanti le azioni del governo per più di un mese completamente svincolato dal Parlamento. Questa scelta di seguire l’esecutivo in questa decisione potrebbe far vacillare ulteriormente il ruolo della Corona nell’opinione pubblica inglese, con una crescente fetta di popolazione all’interno del Regno Unito sempre più anti-monarchica e che non vede più tanto di buon’occhio il ruolo del Sovrano.

Sull’orlo della fine delle trattative Brexit durate più di tre anni, appare davanti il Regno di Sua Maestà un futuro ancora più incerto e probabilmente segnato da molte divisioni interne, soprattutto nel qual caso la Gran Bretagna dovesse uscire senza accordo, con un rischio di un collasso della sterlina, già ai minimi storici, una guerra civile in Irlanda al confine tra le due parti e un isolamento molto maggiore di quello a cui sono abituati i cittadini inglesi, oramai lontani dai tempi dell’Impero Britannico e sempre più vittime di una nostalgia imperialista che rischia di portare a fondo con sé anche la Corona, in un baratro che appare sempre più vicino all’approcciarsi del 31 ottobre. 

Probabilmente, nel Regno Unito, Halloween non ha mai fatto fatto così paura come adesso.

 

Matteo Caruso


Sitografia

Foto Ansa/Ap ©

Imperialismo e Aringhe Affumicate

“Userò i Conservatori, per carpire i tuoi segreti. Per capire cosa pensi, nei tuoi PMQ intensi, nei tuoi Trump americani, così British e così volgari, fatti un po’ a cazzo di cane. Userò gli occhi di Boris come fa un dottore cieco quando che opera i pazienti, stanno tutti molto attenti”

La nuova stagione di Boris è appena iniziata e purtroppo questa volta non riguarda un pesce rosso in un boccia di vetro. È invece iniziata con un pesce avvolto in una confezione di plastica. Proprio quell’aringa affumicata che Boris Johnson sventolava all’ennesimo comizio accusando l’Unione Europea di imporre al Regno Unito regole che costringevano a plastificare il pesce affumicato proveniente dall’Isle of Man, con un forte aumento del costo economico e ambientale per i pescatori e lo Stato di Suà Maestà. Purtroppo è saltato fuori che in verità la legislazione che imponeva questo tipo di conservazione era puramente di stampo britannico e che l’Unione Europea non c’entrava nulla. Poco importa: questo scivolone, assieme a molti altri spergiuri e incorrettezze, non ha impedito a Boris Johnson di diventare Primo Ministro del Regno Unito lo scorso 23 luglio, sconfiggendo il proprio rivale Jeremy Hunt con una percentuale di voti conservatori del 66%, succedendo a Theresa May come nuovo leader del partito al governo.

Nato a New York, ha studiato ad Oxford e lavorato per un bel po’ di tempo a Bruxelles come inviato speciale sulle vicende europee, cogliendo  quest’opportunità per lanciare il suo nuovo ed unico approccio degli euromiti al giornalismo internazionale. Non di grande rilievo attestare la veridicità dei suoi racconti: l’importante è spesso stato perpetrare una visione personale euroscettica più che la realtà dei fatti.

Il suo stile è particolare: noto per frasi lapidarie e senza mezze misure, ha accostato l’aspetto estetico delle donna con il burka alle cassette delle lettere e definito le popolazioni di colore del Commonwealth Britannico con epiteti razzisti e dispregiativi. Nonostante questo, ha sempre dimostrato un grande talento nell’esaltare i bisogni delle persone per farle sentire comprese, giostrando spesso l’opinione con toni forti ma ben indirizzati a quello che i cittadini richiedevano. Banalmente, è stato la massima espressione della campagna Leave nel 2016 la quale ha portato all’attuazione della Brexit. Celebri i suoi double-decker con le mendaci scritte sulle fiancate per fomentare la rabbia dei cittadini britannici (“ogni anno noi inviamo all’Unione Europea 350 milioni di dollari: riusiamoli per finanziare il Sistema Sanitario Nazionale”) per le quali è stata aperta anche un’inchiesta contro alcuni collaboratori di Johnson. Quelle scritte, assieme ad una violenta propaganda mediatica, sono riuscite però a portare alla vittoria quel lato dell’elettorato euroscettico e desideroso di entrare in quella che Johnson ha definito nella sua prima sessione di PMQ, “la nuova era d’oro del Regno Unito”.

Il suo ingresso a Downing Street n°10 non è stato sicuramente leggero né tantomeno sottotono: il nuovo Primo Ministro ha subito provveduto ad una sostanziale sostituzione di Ministri con forte figure sostenitrici della Hard Brexit, per la costruzione di uno dei governi più di destra e conservativi che la Gran Bretagna non vedeva dai tempi della Thatcher. Tra i tanti, il nome che ricorre più spesso è quello di Priti Patel, conservatrice parlamentare della House of Commons per la circoscrizione di Whitam, nominata Ministro degli Interni tra lo sgomento di molte figure poltiche di Westminister. Sì perché Ms Patel ha dimostrato più volte la sua simpatia verso la reintroduzione della pena capitale negli anni passati, costretta alle dimissione nel precedente governo per aver tentato di indirizzare i soldi per l’aiuto straniero del Regno Unito verso l’esercito israeliano. Altri Brexiteers sono presenti all’interno della squadra di gabinetto: Jacob Rees-Moog, Dominic Raab, Andrea Leadsom, Micheal Gove. Ognuno di loro è disposto a seguire Boris Johnson nella sua promessa di uscita dall’Unione Europea il 31 ottobre, con o senza accordo. 

Probabile senza.

Anche l’Europa ha dichiarato di non voler continuare a prolungare le trattative riguardo l’accordo e la varie concessioni richieste dal Regno Unito: l’Unione si rifiuta di rivedere l’accordo già stabilito con la May. Molti cittadini vedono sempre maggiore la necessità di fare marcia indietro nel processo di uscita, tra cui, non sicuramente tra gli ultimi da considerare, il Labour Party: anche il suo leader Jeremy Corbyn ha dovuto cambiare approccio ed esplicitamente supportare il lato Remain per via delle dure politiche minacciate dal nuovo Primo Ministro e dalle spinte interne al suo partito.

Il populismo del cosiddetto Trump Britannico è dunque la grande minaccia del Regno Unito al momento: l’ex-sindaco di Londra e Ministro degli Esteri ha acquisito sicuramente nei suoi anni di carriera politica una grande abilità di convincimento delle masse e strategie politiche non sottovalutabili da parte di nessuno. Lo stile esplosivo, carismatico e verbalmente violento è ciò che i sostenitori della Brexit aspettavano da tempo e che non hanno trovato all’interno della figura di Theresa May.

È partito il countdown per la più grande e spaventosa festa di Halloween nel Regno Unito da tanti anni.

Ora Boris Johnson ha circa un centinaio di giorni per portare avanti il suo piano e trascinare il Regno Unito al di fuori dell’Unione Europea, volente o nolente. Sì perché il punto è questo: non c’è più la voglia di sentire le necessità di un Paese dopo tre anni dal voto, né il confronto è visto come una possibile soluzione. Deal o No-Deal, poco importa. La Gran Bretagna deve uscire dalle catene burocratiche dell’Unione Europea che impacchetta i pesci britannici, senza  alcuna remora, in miseri sacchetti di plastica e sottrae risorse fondamentali al Sistema Sanitario Nazionale. Ci sono troppi immigrati all’interno del Regno Unito che apportano più danni che benefici e le costrizioni commerciali tolgono al Regno di Sua Maestà il suo ruolo egemone ed imperialista di un tempo che, dopo la Brexit, tornerà ad essere “Il più Grande Paese sulla Terra”. 

Poco importa che tutto ciò sia vero o no. La verità non è quello che interessa al momento, né al Partito Conservatore, né tantomeno al Primo Ministro. L’unico punto è che il Regno Unito dovrà uscire dall’Unione il 31 ottobre. Ed uscirà al 31 ottobre.

Volente o nolente.

Matteo Caruso


Sitografia:

https://www.theguardian.com/politics/live/2019/jul/25/boris-johnson-new-cabinet-prime-minister-chairs-first-cabinet-as-critics-say-party-now-fully-taken-over-by-hard-right-live-news

https://www.washingtonpost.com/opinions/2019/07/23/boris-johnsons-victory-proves-its-fiction-not-fact-that-tories-want-hear/?utm_term=.2460a155ab72 

http://www.rainews.it/dl/rainews/articoli/Boris-Johnson-Brexit-il-31-ottobre-Diventeremo-il-piu-grande-paese-della-terra-f59fced3-b1f3-4769-b441-e297f2e868a0.html?refresh_ce 

https://www.bbc.com/news/uk-politics-49118107 

https://www.theguardian.com/politics/live/2019/jul/25/boris-johnson-new-cabinet-prime-minister-chairs-first-cabinet-as-critics-say-party-now-fully-taken-over-by-hard-right-live-news  

https://www.independent.co.uk/news/uk/politics/priti-patel-cabinet-home-secretary-boris-views-beliefs-israel-ireland-death-penalty-a9018616.html

https://edition.cnn.com/2019/07/13/uk/boris-johnson-profile-world-king-intl-gbr/index.html

27 + x ? 

As one prepares to leave, others are waiting to join:  the European Union has recently spent much of its diplomatic firepower on navigating the United Kingdom’s messy divorce from it, largely neglecting the question of when the Union may actually start growing again. Where such an expansion would take place is easy to answer, however: in Europe’s southeastern corner, the Balkans peninsula. When, in 2004, the ‘A8’ (Poland, Hungary, Czech Republic, Slovakia, Slovenia, Latvia, Estonia, Lithuania; alongside Malta and Cyprus) joined the Union, it was seen as an important step, extending the Union’s promise of upholding democracy, human rights and the rule of law to millions of people whose countries had recently thrown off the oppressive mantle of communist rule. And just like central and eastern Europe, the Balkans, too, suffered unfreedom in the Cold War era. But not only that: in the 1990s, Yugoslavia disintegrated in bloody wars driven by nationalism and ethnic hatred. Europe’s first genocide after the end of World War 2 was committed in Bosnia. The last of the Balkans wars, in Kosovo, ended with a Western military intervention and an international presence that eventually led to a still-contested declaration of independence. 

What better place, then, to carry the flame of European solidarity, cross-border friendship and cultural exchanges to, than a region whose recent past has been defined by the worst excesses of narrow-minded nationalist politics? Where better to test the Union’s developing commitment to social progress, rather than mere economic cooperation, than in a region which needs perspectives? Or so one would think. But the enlargement process has stalled, and enthusiasm in European capitals for further expansions is ebbing. What happened? 

Europe’s leaders first identified the Western Balkans countries as potential membership candidates in June 2000, at the European Council in Feira, Portugal. Three years later, this perspective was reaffirmed at a Thessaloniki summit and in 2006, the European Council proclaimed that “that the future of the Western Balkans lies in the European Union”. That was over twelve years ago. 

Accession to the EU is not an easy process. The EU’s Treaties establish two preconditions for membership: candidate countries must be “European”, and they must be ready to respect and promote the Union members’ common values, that is “human dignity, freedom, democracy, equality, the rule of law and respect for human rights, including the rights of persons belonging to minorities”. The criteria by which potential newcomers are judged now include the stability of the institutions guaranteeing the rule of law, democracy and respect for human rights; the economy’s ability to cope with the competitive pressures of the internal market, and the candidate country’s ability to meet the obligations of membership and implement Union policies. Potential candidate countries proceed through various stages of cooperation with the Union, receiving technical assistance as they work towards the standards set by the EU. Once given official candidate status, a country must then take all the necessary steps to adopt the EU’s ‘acquis’ – the body of existing laws, rules, rights and obligations governing the bloc – separated into 35 chapters, from fisheries to fundamental rights. As of now, two countries are potential candidates for accession: Bosnia and Herzegovina and Kosovo. One Balkan nation, Croatia, joined in 2013. Five countries are officially recognized as candidate countries: Serbia, Turkey and Montenegro have started negotiations. North Macedonia and Albania are waiting to do so. North Macedonia, a candidate since 2005, went so far as changing its official name to end a long-standing dispute with EU-neighbour Greece so that it would not stand in the way of successful negotiations. Albania, too, has worked to comply with the EU’s requirements, including with wide-ranging reforms to the justice sector. Yet when the decision about opening talks with both countries was due in summer 2018, the EU governments postponed it by twelve months. This June, they again delayed their decision, leaving it for fall. Why has the process stalled? 

The problems come from both sides. On the one hand, some recent developments in the Balkans are concerning. Albania, for example, has been in a deepening political crisis for months. Its Socialist Party Prime Minister Edi Rama vowed to take a German tabloid journalist to court whose paper had published wiretaps implicating Socialist party officials in vote-buying. The leader of the opposition party, which has been boycotting Parliament, is a person of interest to US prosecutors investigating suspicious donations to a Republican lobbyist. At the end of June, the nation seemed on the brink of chaos as the country’s President clashed with Edi Rama and his Socialist MPs over the date of local elections which were set for that month and which he wanted to postpone (in the event, the original date was backed by most of the international community and the vote happened peacefully, if with low participation).  Across the Balkans accession candidates, issues like organized crime, political corruption, weak institutions and minority rights persist at varying degrees of severity. Turkey’s accession is now a distant fantasy thanks to the Erdogan government’s authoritarian tendencies. 

Meanwhile, inside the club, all is not well – and that influences how EU leaders view enlargement. As the third anniversary of the UK’s referendum on membership passes by, the diplomatic headaches it has caused are still ongoing. The EU must grapple with climate change and migration, but these issues divide the member-states. Populist forces are a threat to the entire European project. In some of the most recent additions to the bloc – Hungary and Poland, for example – the rule of law is under siege. This last problem can take very different shapes, depending on the perspective from which it is looked at. In the candidate countries, it could well look like an instance of double standards: their judicial systems are probed and judged as not yet up to standard, while governments whose countries have been in the Union for years calmly dismantle democratic structures and principles while the EU (at least until recently) stands by doing little. For Western European governments, meanwhile, the Polish and Hungarian cases could be perceived as cautionary tales of the ugly surprises that await after the initial enthusiasm over enlarging the bloc. 

Some of the reluctance, thus, is understandable. But there are also real perils to keeping millions of Albanians, Macedonians, or Bosnians in the waiting area forever. Perils that the Union risks overlooking as its attention is held hostage by other trouble spots. Integration into the European project has so far been a key ambition for both the people and the governments of the Western Balkans, providing the necessary impetus for wide-ranging reforms. But years of delays and stalling are leading to increased exasperation in the region, while in the EU, domestic politics has polluted the debate (a good example: the hyperbolic fear-mongering about ‘imminent’ Turkish accession in the run-up to the Brexit vote 2016). In the 2019 Balkans Barometer, one-fifth of respondents from the six Balkans nations said they believed their country would never join the EU (another 28% said they believed accession would happen by 2025). So the hopefuls still outnumber the pessimists. But the EU’s actions have consequences: support in Kosovo for EU membership dropped from 84% in 2017 to 69% in this year’s survey, as the EU’s governments fudged a promised lifting of visa requirements. 

And where the EU leaves a vacuum, others are ready to step in: Russia, Turkey and China all have identified the Western Balkans as a region of geopolitical interest. In April, in Dubrovnik, China held the eighth summit of its project for cooperation with seventeen middle and Eastern European countries – 12 EU members, 5 Balkans accession candidates. Turkey’s president Recep Tayyip Erdogan is trying to win favor with Bosnia’s Muslim community. And while the West is eager to get Serbia and Kosovo to end their battle over the status of Kosovo, Russia appeals to the reactionary and nationalist elements in Serbian society, threatening to undermine any conciliatory approaches. Europe remains the region’s most important trading partner. But its global competitors are gaining ground. China provides loans which may at first sight seem more appealing than EU funds which come with tight strings attached. The price of such easy money will only materialize in the long term, making it convenient to ignore for now. 

The Western Balkans may not seem like the EU’s most urgent issue at the moment – but if the Union does not offer a realistic perspective for the region, the Balkans may well turn elsewhere. For now, there is still enthusiasm about Europe – but with each delayed decision, each broken or forgotten promise, it fades a little more, and the region inches closer to becoming an object of geopolitical chess games. There is much good that the European project could do in this corner of the continent. It would be a shame if the bloc’s leaders gamble it away.  

David Zuther

 

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Spitzenkandidaten: aspetta… cosa?

Elezioni europee alle porte: siamo sicuri di doverci concentrare solo sui nostri parlamentari europei? Quest’anno la nostra sfida è anche quella di veder nascere una nuova commissione europea. Come? Forse con un metodo del tutto innovativo, o quasi. 

Lo Spitzenkandidaten è un sistema utilizzato per eleggere il presidente della Commissione europea ogni 5 anni attraverso l’articolo 17.7 del TFUE.

Senza scendere in particolari tecnicismi, il metodo dello Spitzenkandidaten è una interpretazione dei trattati europei, non ha valore giuridico (ovvero sui trattati non vi è scritto che questa è la modalità di elezione del presidente della commissione) ma è una metodologia decisa in seduta comune tra Consiglio e Parlamento nel 2014. Per questo, Jean-Claude Juncker è l’unico presidente della Commissione Europea ed il primo ad essere stato eletto con il metodo dello Spitzenkandidaten.

Le discussioni sul deficit democratico, in particolar modo dopo la crisi del 2008, ha iniziato ad affliggere il contesto europeo: quanto le istituzioni si possono definire trasparenti e alla portata di tutti? Per quale motivazione un ruolo così fondamentale come quello della presidenza della Commissione non è argomento per i cittadini europei?

All’interno di un contesto già difficile: come poter dimostrare al popolo europeo che questa democrazia ha un senso? 

In realtà la rivoluzione sta nel considerare la democrazia rappresentativa fulcro democratico: nel momento in cui i cittadini europei eleggono il parlamento europeo indirettamente stanno “delegando” la propria rappresentanza.

Solitamente, tramite l’articolo 17.7 il Consiglio propone un nome all’interno dei Parlamento europeo che deve essere confermato da Consiglio e Parlamento stesso per diventare presidente della commissione.

Il nuovo “metodo” semplicemente permette a ogni partito di definire un nome all’interno del proprio gruppo che segue le caratteristiche del partito europeo e si definisce come la persona migliore all’interno secondo la volontà del partito stesso.

Secondo l’Eurobarometro pubblicato lo scorso dicembre, il sostegno dei cittadini europei al metodo degli Spitzenkandidaten è molto forte: circa il 63% degli intervistati ritiene che darebbe maggiore legittimità alla Commissione europea, mentre per il 67% rappresenta un progresso significativo della democrazia nell’Ue

In questo modo, ogni partito può definire il proprio candidato e lo porta davanti il Consiglio: questo responsabilizza il partito a scegliere realmente qualcuno che secondo loro ha le caratteristiche per questo ruolo così importante e allo stesso tempo diffonde il senso del presidente della commissione. La partecipazione alla visione dell’Europa è stata maggiore perché i cittadini per la prima volta si sono trovati a seguire un dibattito sovranazionale, ma allo stesso tempo vicino a loro.

Le critiche al sistema sono in ogni caso molte, specialmente con la commissione di Juncker: è giusto che venga politicizzato il ruolo della Commissione che rappresenta per definizione la volontà sovranazionale dell’UE?

Da una parte la democrazia rappresentativa si mostra come un ruolo importante all’interno dell’UE, dando così la possibilità a ogni partito di definire una persona, ma allo stesso tempo questo comporta tutto ciò che vi è dietro una campagna elettorale.

I dibattiti e i confronti tra i candidati dello Spitzenkandidaten aiutano la visibilità europea all’interno di un contesto di elezioni e permette anche ai cittadini stessi di sentirsi parte di questa dimensione: “mi affeziono a un candidato, lo legittimo perché ho legittimato il mio partito europeo e quindi mi sento vicino alla commissione europea”. 

Vi è quindi questa dualità: da una parte infatti il parlamento ha affermato in una dichiarazione pubblica che non accetterà nessun candidato che non faccia parte della scelta dello Spitzenkandidaten, soltanto partiti minori hanno deciso di non proporre un nome perché sanno indirettamente che il loro candidato ha poche possibilità di elezione. Questo sistema infatti è stato un grande desiderio dei due partiti più storici e grandi del parlamento europeo: gli EPP e gli S&D. Dall’altra vi è la possibilità che grazie alla visione intergovernativa del Consiglio l’idea di una commissione più politica non sia piaciuta così tanto agli stati membri e questo comporterebbe la possibilità al consiglio di scegliere un nome tra i parlamentari europei ma che non sia un candidato Spitzenkandidaten.

Le dinamiche europee, in particolare con questo metodo, sono cruciali: per la prima volte queste elezioni possono permettere di creare una vera e propria collisione tra il Parlamento e il Consiglio e mettere in discussione il valore della rappresentanza democratica.

I candidati continuano le loro campagne ma è tutto un gioco a carte coperte: sarà il Consiglio a prevalere sulla propria idea e combatterà la possibilità di una commissione “più politica” o il Parlamento confermerà l’idea di europea più democratica.

Giulia Olivieri