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Le piattaforme digitali e il Grande Reset della conoscenza

In poco più di due mesi la nostra lettera aperta sull’università delle piattaforme sta alle paventate distopie come le favole della buonanotte stanno a Freddy Krueger.

Praticamente tutto ciò che ipotizzavamo su GAFAM (e qualcun* ci aveva dato dei pessimisti), è già realtà. Sebbene tutto si muova in sordina. Per piccoli passi. Apparentemente innocui.

Senza molto clamore, Facebook è sbarcata nel mercato universitario, per ora offrendo servizi di “sostegno alla didattica” a università latinoamericane. Google non è da meno e da tempo ormai offre corsi a cifre irrisorie, per ora su tematiche affini al suo business, ma comunque con il plauso dell’intero mondo aziendale. La marcia del motore di ricerca sembra inarrestabile; ora conquista definitivamente le scuole d’Andalusia (ma non era meglio il feroce saladino?). 

Microsoft, grazie agli accordi stipulati dalla CRUI, in Italia (ma non solo) è l’azienda che fornisce a tutte le università il software Teams, usato per le lezioni. Teams viene fornito con il pacchetto Office 365, lo stesso che forniva alle aziende che lo acquistavano il famigerato Microsoft Productivity Score, ovvero uno strumento di sorveglianza dei lavoratori che assegna automaticamente punteggi a seconda del “comportamento”. Dopo varie proteste l’azienda americana ha deciso di ritirarlo. O meglio “renderlo meno intrusivo”. Insomma, tutte le funzionalità incriminate rimangono. 

Sempre all’avanguardia nelle soluzioni distopiche, Microsoft ha anche annunciato “Reflect”, il software che, si legge sul sito dell’azienda, “consente a te, ai tuoi studenti e ai colleghi di inviare e rispondere a sondaggi pensati per supportare l’apprendimento e il benessere emotivo e sociale.” Non si sa che cosa ne diranno gli psicologi, ma quello che usciva dalla porta con il Productivity Score rientra dalla finestra delle scuole, permettendo all’azienda di raccogliere dati di estrema sensibilità e agli amministratori delle scuole di monitorare l’umore di docenti e allievi. E magari ai genitori ansiosi di monitorare tutto attraverso un’apposita app. 

GAFAM, operando come cartello, cerca di non farsi troppo concorrenza al proprio interno. Ma il business dell’istruzione fa gola a tutti. Così Amazon, dopo aver rilanciato l’iniziativa “un click per la scuola1, nel 2020 ha aggiunto l’appendice Digital Lab, “uno spazio digitale gratuito che mette a disposizione un ampio catalogo di risorse”, fra cui video e altri contenuti per i docenti. 

Manca qualcuno all’appello? Ah sì, Apple. Ci aveva già pensato il Ministero dell’Istruzione, siglando a novembre 2020 un accordo con l’azienda di Cupertino che (cito dal Protocollo di Intesa) prevede di “promuovere iniziative per l’individuazione di soluzioni a supporto dei processi di innovazione didattica e pedagogica; sperimentare soluzioni tese a modificare i tradizionali ambienti di apprendimento; promuovere la condivisione di informazioni e contenuti, a supporto dei bisogni educativi dei docenti.”

Va detto che la ex Ministra Azzolina aveva annunciato la progettazione di una piattaforma unica per la didattica a distanza sviluppata in Italia (anche se non si sa come e da chi). E le università? L’ex Ministro per la ricerca e l’università Manfredi ha taciuto per dieci mesi, ma la CRUI, nel frattempo ha rinnovato gli accordi con Microsoft. Questo quando esistono strumenti aperti e pubblici, come quelli offerti dal GARR, sui quali il governo non ha investito un solo euro. 

Ma se lo stato non investe nell’istruzione dei suoi cittadini, altri lo faranno. In Brasile, la multinazionale statunitense della formazione a distanza “Laureate”, con sedi in tutto il mondo, è stata scoperta a usare software di intelligenza artificiale per correggere i testi degli studenti. La formazione a distanza è un grosso affare in Brasile, con circa duecentomila studenti online, anche prima della pandemia. Durante il seminario del World Social Forum dedicato all’università delle piattaforme, Gabriel Teixeira, professore presso l’Instituto Federal di Rio de Janeiro ha raccontato questa incredibile vicenda. Il docente è stato chiamato come testimone in seguito a una denuncia accolta da un tribunale brasiliano e nel suo intervento ha mostrato le foto del “call center” dove lavora: alcuni docenti, infatti, insegnano corsi che hanno fino ventimila studenti (poco meno di tutti gli iscritti all’Università di Pavia, una dei più antichi atenei d’Italia).  

Ovviamente, in tutti i casi citati sin qui i dati raccolti da Google, Microsoft o da altre piattaforme, serviranno anche per connettere gli studenti (se lo vorranno!) al mondo del lavoro. Presto vedremo diplomi cuciti come un vestito ad hoc per il singolo/a. L’intelligenza artificiale sarà il sarto che confezionerà il vestito perfetto per ciascuno, dalla culla alla tomba. Andare a scuola o all’università per molti sarà un atto superfluo. GAFAM penserà all’istruzione, GAFAM penserà al collocamento, così come prima sempre GAFAM strutturava il perimetro delle informazioni, delle relazioni, dei consumi, dei desideri. 

Le università e le scuole non scompariranno (per il momento), ma potranno fare progressivamente a meno dei docenti, come mostra il caso dell’università canadese dove a fare lezione era un professore morto. Lì dove non arriva la natura, ci penseranno i governi – che intanto sono già all’opera, in Francia come in Grecia, per introdurre norme che rendono illegali (non si sa mai) le proteste all’interno delle università. 

Le conseguenze della crisi sanitaria accelereranno gli accordi fra GAFAM (o se siete sinofili Huawei o Alibaba; oppure Netflix, ecc. inserite una piattaforma a piacere) e l’istruzione pubblica si intensificheranno. Le università, ammesso che conserveranno il valore legale del titolo (almeno in Italia), potranno certificare i diplomi forniti con o da GAFAM. In altre parole, le università più “deboli” potrebbero avviarsi a un dignitoso ruolo di certificatori di contenuti forniti, in buona parte, attraverso e/o da big tech. Saranno big tech e le multinazionali dell’editoria scolastica come Pearson a elaborare i contenuti, mediante la sinergia fra intelligenze artificiali e quanto accumulato negli anni precedenti grazie all’ignoranza o alla presunzione di scuole e università. Sarà sempre big tech a finanziare gli stipendi dei docenti (quelli ancora vivi), come d’altronde già accade con le infrastrutture (leggi: piattaforme) create dalle multinazionali dell’editoria che puntano a gestire tutte le fasi della ricerca, dalla raccolta dati alla pubblicazione. Lo stato, finalmente agile, fornirà supporto logistico, sgravi fiscali, ecc. (Se vi piace lo stato “pesante”, però, si può sempre scegliere il modello cinese.) 

Eccovi servita la geopolitica della conoscenza, con il suo corollario di ingiustizie epistemiche

Esiste una resistenza a questo scenario? Alcune (flebili) voci. La filosofa Barbara Stiegler su France Culture accusa il governo francese di prendere a pretesto la pandemia per mettere in ginocchio il sistema dell’istruzione pubblica. Karen Maex, rettrice dell’Università di Amsterdam, invoca leggi che proteggano le università dall’aggressività delle piattaforme big tech. Va detto che la rettrice olandese sembra aver compreso ciò che i rettori italiani ignorano (o più probabilmente fingono di ignorare): le piattaforme non sono strumenti per svolgere il nostro lavoro durante “l’emergenza”. Le piattaforme sono la concorrenza. Non ci stanno offrendo un servizio. Ci stanno (vi stanno) svaligiando casa. Questa forma di neo-colonizzazione, o forse auto-colonizzazione, ci deve far riflettere su un punto. O i rettori italiani, oltre a non avere a cuore la privacy dei propri studenti, sono ignoranti, e dunque si devono dimettere in massa, oppure sono consapevoli. E allora è peggio. Perché vuol dire che stanno lasciando che GAFAM faccia il lavoro sporco, quello di far emergere, per selezione naturale, l’agognato modello degli atenei di serie A, B e forse C. 

Come afferma la filosofa Barbara Stiegler, dunque, la questione va ben al di là della didattica a distanza. Spostare la didattica in parte o del tutto online è solo un modo per chiudere ciò che è ritenuto inutile o dispendioso. L’obiettivo di questo processo, che viene da lontano, alla fine, siamo noi. E la sovversiva relazione che – sebbene lacerata, frammentata e rarefatta – ancora riuscivamo a costruire con i nostri allievi e allieve. È questo ponte che si vuole distruggere: definitivamente. 

Ma che cosa vuol dire stare insieme all’università, o meglio, che cosa voleva dire? Così descrive Raul Mordenti le assemblee del movimento del ’68-’77: 

Questo concetto di un corpo collettivo del movimento “in fusione”, questo rapporto speciale che nel movimento si stabilisce fra compagni è della massima importanza. […] Ma che cosa significa essere “in fusione” o (che è dire la stessa cosa) in movimento? Il punto davvero fondamentale è il rapporto fra gli umani che si viene a stabilire: le persone nel movimento (direi meglio: le persone in forma di movimento) non si rapportano più come accade nell’anormale normalità del capitalismo, cioè attraverso lo specchio rovesciato delle merci, che è lo Stato; […] Nel movimento infatti gli uomini e le donne già prefigurano e vivono un rapporto sociale diretto e non alienato giacché ciò che li “tiene insieme” è appunto un reciproco riconoscimento immediato, questo – a sua volta – deriva dalla volontà comune di cambiare il mondo insieme, dalla lotta collettiva.

(R. Mordenti, La grande rimozione. Il ‘68-77: frammenti di una storia impossibile, Roma, Bordeaux, 2018, p. 36) 

Probabilmente (sperabilmente) questa “lotta collettiva” riuscirà a trovare altre forme per emergere ed esprimersi. Ma a quanto pare non potrà più avvenire in connessione con il processo di formazione ed elaborazione delle conoscenze che si articolava negli spazi “pubblici” di scuole e università. 

Ora, se pensavate di aver letto sin qui solo brutte notizie, con la prossima vi ricrederete. In fondo, l’università e la scuola sono istituzioni umane e come tutte le cose umane possono scomparire. Come ha scritto Giorgio Agamben, pochi ne sentiranno la mancanza. Ma la piattaformizzazione non è solo la fine dell’istruzione-relazione così come è stata pensata e praticata (male o bene, di massa o di élite, ecc.) negli ultimi cinquecento anni. La geopolitica della conoscenza digitale non si ferma qui. La conoscenza digitale è la forma dell’attuale dominio biopolitico, mediato dalle rappresentazioni (il digitale è un linguaggio di rappresentazione); ma queste rappresentazioni (dati, algoritmi che processano dati, software che inglobano algoritmi, intelligenze artificiali che aggregano software, ecc.), anche se false, anche se manipolate, puntano, oltre che al dominio delle menti, a quello della materia. Ed ecco che le piattaforme, Amazon e Microsoft in testa, sbarcano nel campo del cosiddetto agrobusiness. FIAN International, un’organizzazione che dal 1986 si occupa di diritto all’alimentazione, ha pubblicato un’analisi che mostra come i processi digitalizzazione delle terre (catasto, ecc.) replichino o inaspriscano la marginalizzazione delle popolazioni rurali, minando l’economia di sussistenza di milioni di persone in Brasile, Ruanda, India, Georgia, Indonesia, ecc. Una parallela inchiesta pubblicata da un’altra ONG, Grain.org, rivela che le piattaforme mirano a colonizzare ogni istante, ogni tappa del processo di produzione e distribuzione e consumo del cibo. Le app di Monsanto-Bayer o di Syngenta, di BASF o Verizone, ecc. offrono ai contadini assistenza nelle varie fasi del lavoro, fornendo informazioni in tempo reale sul clima, consigliando quando e che cosa seminare o quando usare un erbicida, ma anche consigliando quale trattore o drone comprare, ecc. In cambio di tutti questi “servizi” le big tech succhiano dagli smartphone dei contadini montagne di dati. Lo scopo finale è ovviamente il controllo completo della catena alimentare. 

La conoscenza digitale è dunque quella cosa che ci dirà che cosa comprare (e con quale moneta), che cosa mangiare, che cosa guardare, che cosa leggere e studiare, come vestirsi, dove andare in vacanza, come curarsi e ovviamente chi votare. In realtà, attraverso immani concentrazioni proprietarie ed incroci finanziari, i padroni universali avevano quasi risolto tutti questi problemi. Rimaneva, forse, lo scoglio di una scuola e di una università ancora non del tutto inoffensive. Rimaneva il problema di come frenare e inquinare quel processo che Gramsci, riferendosi alla cultura, chiamava “conquista di coscienza superiore” e del “proprio valore all’interno della storia”2. Sebbene i virus non abbiano colpe, l’emergenza sanitaria sta fornendo il contesto ideale per liberarsi una volta per tutte di questo vizio, diciamolo, troppo umano, di voler acquisire una coscienza critica. Ma alla dodicesima ondata, alla ventiquattresima “variante”, magari il gioco sarà concluso e il Cerchio sigillato. 

Esiste una speranza? Forse sì. Si chiama diversità bioculturale ed epistemica, allo stesso tempo il nemico più grande della piattaformizzazione e l’arma più potente che abbiamo in mano per contrastarla. Il dramma del modello epistemologico e geopolitico della governamentalità algoritmica, infatti, è che il suo meccanismo predatorio coincide con il suo obiettivo. In altre parole, il rischio di tentare di controllare la diversità “affamandola”, cioè riducendola, è di esserne a sua volta travolti. Si sa: chi universalizza spesso teme il caos. Coltivare la diversità bioculturale, localmente e globalmente, vuol dire dunque non solo resistere all’omogeneizzazione delle piattaforme, ma rovesciarne la logica. “L’essenza dei diversi fiori si esprime, nella loro diversità, anche se fra di loro avviene una fertilizzazione incrociata”, scrive a proposito del rapporto fra lingue europee e lingue africane il grande poeta, romanziere e saggista africano Ngũgĩ wa Thiong’o. La terra genera la vita e si mescola con le storie: “tutte le grandi letterature nazionali hanno messo radici nella cultura e nella lingua dei contadini.”3 Cuore della diversità (e dannazione delle piattaforme) sono variazione e ridondanza, caratteristiche della “multiversità intrinseca della materia vivente.” Sono le parole che il biologo Marcello Buiatti scriveva in un bellissimo (e profetico) libro del 2004 (data di nascita di Facebook…) dedicato al complesso rapporto tra biologia e cultura. Ma riflessioni simili si sono fatte strada da tempo nel campo delle scienze sociali, come è il caso della “pluriversidad” di Arturo Escobar o dell’epistemologia dei margini di Boaventura de Sousa Santos. Questa pluriversalità può e deve essere applicata anche al campo delle tecnologie digitali. Lo dimostrano esperienze e movimenti dove la scarsità non è solo sinonimo di resilienza, ma diventa riappropriazione degli strumenti, come nel caso delle reti comunitarie sorte in America Latina durante la pandemia. Non è un caso che le proposte più innovative e radicali nel campo della governance della rete vengano da gruppi del Sud globale,come il manifesto per la giustizia digitale della Just Net Coalition.

Variabilità, ridondanza, resilienza e “vigore ibrido” sono le caratteristiche e le condizioni di sopravvivenza dell’intreccio bioculturale: 

“Il non prodursi di varianti significa la fine dell’evoluzione e dobbiamo pensare che alla lunga comporti la fine della forma di vita: che si tratti di una specie vegetale, animale, dell’uomo o dei suoi racconti.” 4

Domenico Fiormonte

Note:

1 Con “un click per la scuola” è possibile donare alle scuole il 2,5% dell’importo speso sulla piattaforma. Le donazioni sono sotto forma di credito per acquistare su Amazon prodotti scelti da un “catalogo selezionato”. All’iniziativa hanno aderito fino a oggi oltre ventisettemila scuole. “Donazioni” raccolte nel 2019: due milioni di euro. Amazon in Italia paga 10,9 milioni di euro di tasse e fattura 1 miliardo di euro. Si veda lo studio di Mediobanca sulle multinazionali del Web.
https://confindustriaradiotv.it/websoft-software-e-web-companies/

2 Antonio Gramsci, “Socialismo e cultura”, in Il Grido del Popolo, 29 gennaio 1916 (in A. Gramsci, Le opere. La prima antologia di tutti gli scritti, a cura A. Santucci, Roma, Editori Riuniti, 1997, p. 1)

3 Ngũgĩ wa Thiong’o, Spostare il centro del mondo. La lotta per le libertà culturali, Milano, Meltemi, 2017, pp. 66-67.

4 Alberto Sobrero, Il cristallo e la fiamma. Antropologia tra scienza e letteratura, Roma, Carocci, 2009, p. 72

Domenico Fiormonte è ricercatore in Sociologia della comunicazione presso il Dipartimento di Scienze Politiche dell’Università Roma Tre. Si occupa di digitalizzazione della conoscenza, rapporti fra cultura e tecnologia, geopolitica della rete, teoria e didattica della scrittura e Digital Humanities. Dal 2008 è impegnato con progetti sul campo sulle tematiche della formazione interculturale e collabora a progetti educativi e culturali in India e Nepal con la Onlus Centro Studi Platone. Nel 2014 ha conseguito il diploma di insegnante Yoga della tradizione di T.K.V. Desikachar. Ha curato il volume La coscienza. Un dialogo interdisciplinare e interculturale (Istituto di Studi Germanici 2018) e con Paolo Sordi Letteratura e altre rivoluzioni. Scritti per Raul Mordenti (Bordeaux 2020). L’ultima monografia è Per una critica del testo digitale. Letteratura, filologia e rete (Bulzoni 2018).

Sistema in tilt: le contraddizioni degli atenei italiani

La riforma universitaria del 2010 detta “Gelmini” ha trasformato la struttura di governo degli atenei spostando il potere decisionale da organi collegiali composti da docenti, quali il Senato Accademico ed i Consigli di Dipartimento, a strutture gerarchiche di tipo pseudo-aziendale costituite al vertice dal Rettore e composte da una enorme struttura amministrativa dedicata alla applicazione di dettagliati regolamenti operativi.

Il Rettore è passato da essere un “primus inter pares”, il cui potere derivava dalla capacità di mediare tra le diverse componenti, ad uno pseudo amministratore delegato con poteri immensi. Parallelamente alla verticizzazione interna degli atenei si è potenziato il sistema di controllo esterno, espandendo il ruolo della agenzia di valutazione e del ministero sottraendo compiti al Consiglio Universitario Nazionale, organo collegiale ed elettivo e quindi, almeno parzialmente, rappresentativo. La riforma era esplicitamente ispirata ad combattere ipotetici sprechi e corruzione, e dopo 10 anni di applicazione si può iniziare a tirare qualche conclusione.

È opinione della stragrande maggioranza di chi ha vissuto l’Università prima e dopo la riforma che il risultato principale è stato esclusivamente un enorme espansione della burocrazia e dei controlli formali, senza incidere granché su inefficienze e scandali. Il risultato è che il docente universitario non è più considerato una figura responsabile delle proprie azioni (in fondo, per definizione, è un professionista ad altissima specializzazione) sottoposto esclusivamente al controllo della comunità scientifica. Con la riforma il docente è invece diventato un dipendente tendenzialmente pigro e facile alla corruzione da tenere in riga con continui controlli e verifiche del lavoro svolto.

Con questa trasformazione è cresciuta a dismisura la struttura amministrativa degli atenei il cui compito si è trasformato da un ausilio della didattica e ricerca, i cui obiettivi e mediti erano decisi in autonomia dagli specialisti, a un occhiuto Grande Fratello costantemente impegnato a verificare che nessuno violi le regole. Il motivo di questa trasformazione è dovuto al fatto che il Rettore, se pur dotato di grandi poteri, non è materialmente in grado di esercitarli personalmente per evidenti limiti di competenze e di tempo. Non potendo lasciare ai docenti la tradizionale autonomia gestionale (utilizzabile per chissà quali loschi fini) è quindi obbligato a delegare alla struttura amministrativa guidata dal Direttore Generale (ovviamente scelto fiduciariamente dal Rettore stesso) tutte le attività quotidiane.In questo contesto è indicativo il disastro accaduto nei giorni scorsi nel più grande ateneo d’Europa, l’Università Roma 1 “Sapienza”.

Anche se non ci sono ancora informazioni precise sulle cause, il risultato è che il sistema informatico delle segreterie si è bloccato impedendo per giorni  l’accesso ai dati degli studenti, impedendo prenotazioni e svolgimento di esami e lauree, facendo comprensibilmente infuriare migliaia di studenti e seminando il panico tra i docenti stretti tra studenti disperati ed una amministrazione azzoppata. Oltre a costituire una chiara risposta alla capacità della riforma di garantire un servizio efficiente, sarà interessante vedere che provvedimenti saranno presi in conseguenza di questo evento. Un docente che dimentica di firmare l’ennesimo pezzo di carta o consegna in ritardo un rapporto che nessuno leggerà mai rischia la perdita di risorse, ammonimenti e danni potenzialmente seri alla carriera. Cose succederà ai responsabili di una amministrazione che non è in grado di garantire un servizio fondamentale, e tutto sommato banale, come un database? Come ne risponderà il Direttore Generale ed il dirigente del servizio? Che tipo di risposta verrà data agli studenti che spendono migliaia di euro di tasse per vedersi cancellata la seduta di laurea? In una azienda privata l’Amministratore Delegato licenzia immediatamente il direttore di uno stabilimento che blocca la produzione per un errore banale, altrimenti viene fatto dimettere lui stesso dagli azionisti. Che farà la Rettrice, o il Ministro?

Una lettera dagli Studenti di medicina: tirocini online? No, grazie

Chi si farebbe curare da un dottore che ha preso la laurea dal proprio computer? No, non si tratta dello scenario tratto da un film distopico di terza seria, ma della realtà attuale. Migliaia di laureandi in medicina di diverse facoltà d’Italia non possono infatti attualmente seguire tutti i tirocini pratici e i tirocini abilitanti alla formazione medica (TVPES) in presenza, come sarebbe normale, bensì unicamente da casa, seduti davanti a un monitor.

Si tratta di studenti del quarto, quinto e sesto anno, coloro che tra un anno o due si ritroveranno a rimpolpare le fila di un sistema sanitario nazionale in rovina, svolgendo compiti delicati come guardie mediche o 118. Qual è il compito dell’università? Formare i professionisti del domani o stampare e consegnare tanti più diplomi di laurea possibili? Questa domanda vale per ogni facoltà, dipartimento e ateneo, con l’università ormai ridotta a un esamificio, ma acquista ancor più valore dal momento in cui quei laureati in fretta e furia avranno a brevissimo tra le mani vite umane. Al danno si aggiunge anche la beffa: questa impellente fretta di sfornare nuovi medici da mandare in trincea nella guerra che stiamo combattendo contro il virus è totalmente assurda se si considera che in Italia ci sono attualmente 24000 medici già pronti a lavorare, bloccati da una graduatoria a causa di ricorsi su ricorsi da parte del MIUR.

Ovviamente va considerato che per superare questa situazione di gravissima emergenza è necessario avere grandi capacità predittive, organizzative, logiche in tutti gli aspetti della nostra società e specialmente negli ospedali, dove in caso di una cattiva gestione i rischi sono altissimi. Nelle regioni più colpite la sorveglianza sul personale sanitario è certamente più complessa, e per molti è giusto limitare l’accesso alle strutture sanitarie a chi non è già parte del personale specializzato, ma ovviamente non per tutti è così.

In diversi atenei gli studenti si sono mossi per protestare contro la loro estromissione dagli ospedali. Ci è pervenuta una lettera da parte degli studenti di medicina dell’Università degli Studi di Roma “La Sapienza”, e noi non possiamo esimerci dal rilanciarla. Nella redazione de La disillusione siamo consapevoli della necessità di trovare una soluzione pratica ai rischi che si corrono eseguendo determinate attività in questo periodo, ma non possiamo accettare che l’unica proposta sia lo stop senza condizioni. Nella speranza di un possibile compromesso tra attività in presenza e sicurezza degli studenti, riportiamo di seguito integralmente il corpo della lettera:

Siamo un gruppo di studenti del corso di laurea di medicina e chirurgia della Sapienza, sede Sant’Andrea, e scriviamo in merito all’attuale crisi formativa che stiamo vivendo.
Giovedì 22/10 il presidente del consiglio di area didattica, in seguito a nuove direttive del direttore sanitario dell’azienda ospedaliera Sant’Andrea, ha firmato una circolare che impedisce nuovamente a tutti gli studenti del III, IV e V anno e in parte a quelli del VI di frequentare l’ospedale per lo svolgimento dei tirocini.
Se da una parte comprendiamo la necessità di contenere la nuova ondata di contagi, limitando al minimo le presenze in ospedale, dall’altra vorremmo che venisse analizzato il problema della formazione dei futuri medici, a cui vengono proposti dei tirocini professionalizzanti e abilitanti (TPVES) per via telematica. Siamo spaventati dalle conseguenze di questa condotta e dalla poca attenzione e importanza dedicata al tema: fra meno di due anni noi saremo medici abilitati che dovrebbero saper fare il proprio mestiere e la mancanza di pratica è un vuoto che non può essere in alcun modo colmato con lo studio individuale sui libri, con la didattica a distanza e nei casi più fortunati con simulazioni su manichini didattici.
La pandemia ha cambiato il nostro modo di vivere sotto tanti aspetti, ci siamo adeguati. Ma la formazione dei futuri medici ha bisogno di soluzioni più audaci: non può prescindere nella maniera più assoluta dal contatto con il paziente. E questo perché l’apprendimento pratico, complemento insostituibile dello studio nozionistico sui libri, è costituito dall’inquadramento diagnostico del paziente ma anche dall’acquisizione delle basilari capacità umane per essere un buon medico, per sviluppare un rapporto di fiducia e alleanza terapeutica con il paziente; un bagaglio di conoscenze che deve essere fatto proprio tramite l’esperienza e che non può essere efficacemente trasmesso per via telematica.
Che i casi di contagio sarebbero saliti di nuovo non sorprende nessuno. Perché non sono state pensate delle soluzioni alternative alla frequenza in ospedale efficaci e valide? Eppure delle alternative sono possibili da attuare anche adesso come: assegnare ad ogni studente un medico di base da cui fare delle ore di tirocinio, distribuire gli studenti in diversi ospedali fuori dalla rete ospedaliera covid, oppure rimuovere gli ostacoli amministrativi facendo firmare scarichi di responsabilità agli studenti e sottoponendoli a test rapidi periodici.
La formazione di nuovi medici non è una priorità assoluta nel mezzo di una pandemia? Questa non può essere una questione secondaria da rimandare a quando saremo usciti dall’emergenza perché non sappiamo quando usciremo da questo periodo e perché danneggerà i nostri futuri pazienti.
Vorremmo semplicemente che qualcuno tenesse alla nostra formazione quanto noi: che sia garantito un programma di recupero sul campo non appena sarà possibile e che, anzi, sia una priorità assoluta.
L’attuale situazione fornisce inoltre lo spunto per una riflessione più grande sulla gestione della nostra formazione professionale. Ci viene detto che non possiamo stare in ospedale perché inutili oltre che dannosi. Perché arriviamo al quinto anno in modo tale da essere ancora considerati inutili?
Nel mezzo di una pandemia, con carenza di personale, noi potremmo e vorremmo essere considerati d’aiuto. Eppure non è così, si tratta di una vecchia abitudine: venivamo considerati inutili e d’intralcio anche prima della pandemia quando il tirocinio professionalizzante era soggetto alla rara buona volontà del medico di turno. Non è possibile che gli studenti, le future risorse del sistema sanitario, siano considerati una
 seccatura e un peso. Se non ci viene consentito di diventare capaci continueremo ad essere inutili, d’intralcio e pericolosi. Ma nel frattempo saremo medici abilitati con in mano la vita delle persone.
Gli Studenti di medicina

Paolo Palladino

«Ma secondo te si può suicidare chi ha un sogno? Chi ha un obiettivo?»

È successo, ancora. La notizia non è uscita sui giornali, ma qui è arrivata comunque.

La settimana scorsa un collega ha deciso di farla finita.

E lo ha fatto.

«Ma secondo te si può suicidare chi ha un sogno? Chi ha un obiettivo?»

Uno degli errori è pensare che questo non potesse succedere che a lui. Lui che aveva alle spalle una lunga storia di depressione.
La depressione spesso è vista da tanti come una “eccessiva debolezza”, come “un mazzolino di scuse”, o “una marea di cazzate”. Ma non sempre.

A volte alla depressione è riconosciuta la dignità di malattia. Tipicamente, questa dignità è riconosciuta quando la malattia ci permette di estraniarci da eventi che non vogliamo sentire vicini, perché fanno paura o perché non ci interessano.
Un po’ come quando in seguito ad un attacco terroristico, viene fuori che magari vent’anni prima la persona aveva fatto uso di benzodiazepine, e allora da malato di niente era all’improvviso un «malato di mente», uno «squilibrato», la colpa era sua, della sua malattia, e basta.
È più semplice darci questa risposta, invece di chiederci cosa possa aver spinto una persona, emarginata come l’Arthur Fleck del Joker di Todd Phillips. Potremmo scoprire che forse la società avrebbe potuto fare qualcosa di più per impedirlo.

Quando vogliamo liquidare rapidamente qualcosa su cui sarebbe bene fermarsi a riflettere, perché dobbiamo tornare alla nostra vita, è malattia mentale. In questo caso, è depressione.
Quando ci serve per giustificare qualcosa che altrimenti non riusciremmo a capire, la depressione diventa all’improvviso reale, ed è un’ottima spiegazione.

Credere all’improvviso che i disturbi mentali siano qualcosa di reale, a prescindere da quali siano e dalla loro intensità, ci permette di andare avanti, senza fermarci un attimo a capire cosa sia successo, e come sia potuto succedere. Possiamo voltare pagina, senza neanche chiederci come sia possibile che un ragazzo con una vita davanti e tutte le possibilità del mondo abbia scelto di farla finita.

Su cosa sia andato storto.
Su cosa si potesse fare per impedirlo.
Su cosa si possa fare per evitare che vada storto ancora, ancora ed ancora.
Su cosa si debba fare per evitarlo.

La depressione ci permette di includere questo evento nel cassetto di tragedie che ci colpisce, e sì, per carità, ci dispiace anche, ma che non è ci tange per davvero. Un po’ come quando qualche disastro si verifica dall’altra parte del pianeta, e ci dispiace anche per quello. Ma domani è un altro giorno, buongiorno che è mattino.

Poniamo l’etichetta,
causa del decesso,
caso risolto, caso chiuso,
il prossimo.

L’idea di un gesto tanto estremo da una persona “normale”, che affronta le stesse difficoltà che affrontiamo tutti noi “normali”, è scomoda. E allora sì all’improvviso, quella che fino al giorno prima era tutt’altro, diventa improvvisamente una malattia. Una malattia che lo allontana da noi.

«Era malato.»
«Soffriva di depressione.»
«Eh, quando sei depresso purtroppo…»

È per questo che è successo.

Soffrire di depressione aumenta il rischio di suicidio, ma non tutti i depressi si suicidano. Perchè il suicidio è qualcosa di molto più complesso. La depressione non è sufficiente per spiegare quello che è successo. Sarebbe un punto di partenza nel provare a spiegarselo, semmai. Perché anche le ragioni di quella depressione dovrebbero essere tirate in ballo.

Qualche anno fa, abbiamo perso una collega. Sebbene la conoscessi appena, il funerale è stato straziante. Una parte di quella sofferenza, lungi dal voler colpevolizzare qualcuno, venne anche dal vedere che tanti di quelli che sedevano accanto a lei fino a pochi giorni prima avessero disertato il funerale per andare a lezione o per studiare in biblioteca.
Se non possiamo permetterci di fermare
le lezioni e lo studio in biblioteca,
neanche per due ore,
neanche per una cosa del genere,
non stiamo perdendo qualcosa di fondamentale lungo strada?

E allora io lo capisco che in un contesto simile qualcuno si possa sentire alienato.
Capisco che possa sentirsi come un vaso di terracotta costretto a viaggiare in compagnia di molti vasi di ferro.
Capisco che possa non tollerare le proprie debolezze, che debolezze non sono ma è solo un fermarsi ad ascoltare in mezzo a questa corsa folle ed insensata. Io capisco che in un contesto simile uno possa sentirsi sbagliato, e possa non intravedere una via di fuga.
Se non quella.

«È la malattia che lo ha portato a questo.»
«La malattia lo ha reso malato.»
«La malattia gli ha fatto dimenticare il valore della vita.»
«La malattia gli ha fatto dimenticare i suoi sogni.»

È per questo che è successo.

«Non potevo essere io perché non sono malato.»
«Non potevo essere io perché conosco il valore della vita.»
«Non potevo essere io perché io ho dei sogni.»
«È per questo che non è successo a me.»

E invece no.

Lui aveva sogni, e obiettivi.

Era prossimo a finire gli esami,
per i quali chiedeva informazioni ai compagni di classe.
Lavorava alla tesi che avrebbe presentato nell’ultimo giorno di università,
per sancire la fine del suo ottimo percorso accademico e conferirgli il titolo di dottore in medicina e chirurgia.
Si informava sulle opportunità post-laurea all’estero sui vari gruppi Facebook appositi, dicendosi disposto ad impegnarsi al 100% per raggiungere i requisiti, per sapere cosa fare per conquistarsi il posto in qualche centro prestigioso e costruirsi una carriera.

La Macchina di Galton è formata da un piano verticale, sul quale sono piantati dei chiodi. Lasciando cadere delle palline dalla parte alta, queste andranno a sbattere sui chiodi. Ogni volta che incontrano un chiodo, si trovano ad un bivio. Ogni pallina, davanti ad ogni bivio, può dirigersi verso destra o verso sinistra. Al chiodo successivo, lo stesso. E così via. La sequenza di direzioni prese ai vari bivi porta la pallina a compiere il proprio percorso, fino a raggiungere il fondo. Le palline giunte sul fondo, si accumulano andando a formare delle pile. Il teorema del limite centrale e della distribuzione normale dimostra che le pile assumono approssimativamente la forma di una curva a campana, tipica delle variabili casuali normali. La maggior parte delle palline tendono a collocarsi al centro. Mano a mano che di spostiamo dal centro, dalla media, le palline son sempre meno numerose. Ma ci sono. E sono più di quanto non si pensi.

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Due anni fa, solo nell’ospedale dove lavoro, quattro studenti si sono tolti la vita. In Italia, negli ultimi mesi, questo è l’ennesimo caso. E per ogni persona che lo fa, gli studi dicono che ve ne sono dieci che lo pensano. Il suicidio è la seconda causa di decesso tra i giovani adulti dei Paesi Occidentali.

Che davanti ad un bivio, la pallina vada a destra o a sinistra, è del tutto casuale. Ogni pallina, all’inizio del proprio percorso, potrebbe finire nella parte più a sinistra, in quella più a destra, o nella zona centrale. Nella vita è tutto molto meno ideale, e molto più complesso. Ma penso che in buona parte valga lo stesso. E ognuno di noi può intraprendere innumerevoli percorsi diversi, e arrivare a bivi differenti sulla base del percorso intrapreso al bivio precedente. Ognuno di noi sarebbe potuto andare a destra o a sinistra. A volte per volontà nostra, a volte per caso o volontà esterna a noi.

Non lo conoscevo, e non sapevo niente di lui. Ma chi lo conosceva mi ha raccontato qualcosa.
Era una persona attiva che si dava da fare su tanti fronti.
Era una persona con tantissime passioni.
Si interessava al cambiamento climatico.
Faceva rappresentanza studentesca.
Aveva fatto l’Erasmus.
Aveva la passione per la psichiatria.
Cercava un dottorato all’estero.

Proprio come me.

Non so cosa passasse per la sua testa quel giorno, in quelle ultime ore. Non so cosa lo abbia portato a quella decisione. Non so davanti a quali bivi la vita lo abbia portato, e quali percorsi si sia trovato a percorrere. Quando mi è stata raccontata la sua storia, il pensiero è stato invece uno solo.

Forse quella pallina,
potevo essere io.

Fabio Porru

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UPDATE – Dove chiedere aiuto:
Se sei in una situazione di emergenza, chiama il 118. Se tu o qualcuno che conosci ha dei pensieri suicidi, puoi chiamare il Telefono Amico allo 199 284 284 oppure via internet da qui, tutti i giorni dalle 10 alle 24.

Puoi anche chiamare i Samaritans (http://www.samaritansonlus.org/chi-siamo/) al numero verde gratuito 800 86 00 22 da telefono fisso o al 06 77208977 da cellulare, tutti i giorni dalle 13 alle 22.
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(https://www.facebook.com/photo.php?fbid=10215092647742827)

Sull’arte

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L’arte è universale e soggettiva, senza dubbio, questo è stato proclamato e discusso molte volte. Non rientrerà mai in un solo genere e sarà sempre in evoluzione, basata sugli artisti e i consumatori allo stesso modo. In modo abbastanza interessante, molte percezioni e ideologie riguardo l’arte sono stati molto persistenti attraverso le epoche e sono state viste come “vere” fino ad oggi, anche con così tante forme d’arte diverse esistenti simultaneamente. Una di queste ideologie così persistenti si posiziona intorno alle statue di marmo dell’antichità greca e romana. La loro testimonianza sembra rappresentare una sorta di minimalismo moderno e il marmo egregiamente lavorato mostra una bellezza che si adatta al nostro attuale standard di bellezza (e a quelli indietro nel Rinascimento) straordinariamente bene. L’idealizzazione della società degli antichi Greci e Romani come un simbolo del più alto avanzamento della cultura fino al Rinascimento è senza dubbio connessa alla superficie immacolata della loro arte. Ad ogni modo, un fatto molto meno conosciuto è che recenti studi ed esperimenti suggeriscono che queste sculture immacolate erano meno minimaliste ai tempi antichi. Analisi di particelle e pigmenti trovati sulla superficie di alcune sculture indicano che erano dipinte con colori molto accesi. Similmente, anche i templi e le case erano dipinte, sebbene questo fosse conoscenza comunque per lungo tempo.

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[vista di una camera sul retro nella collezione di gessi della Freie Universitat di Berlino, con un ritratto dipinto nell’angolo in alto a sinistra © Lea Hüntemann 2018]

Quest’immagine mostra un gruppo di calchi in gesso di antichi ritratti, sul ripiano nella stanza sul retro della collezione di gessi della Freie Universitat di Berlino. Nell’angolo in alto a sinistra si può osservare un ritratto con delle labbra rosse e occhi gialli. La collezione possiede molti calchi in gesso che era stati dipinti e esamina l’idea dei risultati che ci sono stati dati. Possiede inoltre numerose teste dell’egizia Nefertiti dipinte in diversi colori, solo per vedere come lavoravano. Ad essere onesti, data la solita estetica che si prova guardando statue greche o romane, guardarle dipinte appare evidentemente sbagliato. I colori sembrano in un certo senso grotteschi ed eccessivi, i rossi e i gialli troppo radiosi. Ma questo è un promemoria perché non sappiamo mai cosa c’è davvero dietro ad un pezzo d’arte a meno che non chiediamo esplicitamente a chi lo ha fatto, e questo è qualcosa che ovviamente non possiamo fare in questo caso. Ed è anche un promemoria che qualsiasi ideale e connotazione che abbiamo oggi riguardo l’arte, non possiamo sapere cosa ne faranno tra migliaia di anni. Tuttavia, questo contribuisce anche alla bellezza dellarte; non possiamo necessariamente aprezzare statue in marmo dipinte in modo acceso sin da subito, ma questo potrebbe cambiare il modo in cui pensiamo la cultura greca e romana, spostando la nostra visione lontana dalla società ben curata e perfetta, e questa alla fine è una delle cose che riguardano la’rte: creare un’immagine della società. E oer vedere come questo potrebbe cambiare semplicemente dalle nuove scoperte è straordinario.

Lea Hüntemann


Titolo immagine di copertina [vista di un loculo nella collezione di statue di gesso della Freie Universität di Berlino © Lea Hüntemann 2018]