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“Nello sguardo della volpe”: e sono due per Palladino

Articolo riportato dal sito Hyperion.osg

E sono due. Sì, perché Paolo Palladino lo ha rifatto. In questi giorni potrete iniziare a trovare in tutte le librerie e gli store online il suo secondo libro. Questa volta l’autore ha però deciso di regalarci qualcosa di diverso. “Nello sguardo della volpe” (Edizioni Efesto, 2022), a differenza de “L’amore è uno stato d’alcol” (Edizioni Efesto, 2021), non è una raccolta di poesie, ma un romanzo… e che romanzo!

DI COSA PARLA “NELLO SGUARDO DELLA VOLPE”?

Riprendendo le parole dell’autore nel corso della presentazione del romanzo alla Libreria Nuova Europa: «Quando mi chiedono di dare al romanzo un’etichetta rapida, come “giallo” o “«è un “fantasy” etc., è complicato dire di cosa parli… Rientra nella macro-categoria della “narrativa contemporanea”, ma ha degli elementi del realismo magico, dell’umoristico, del gotico, a suo modo… Nonché del thriller psicologico, anche se decisamente più psicologico che thriller. Potremmo definirlo come “la storia di un’ossessione”».

E da lettori non potrete non abbracciare a pieno quest’ultima definizione.

COME TUTTO INIZIA

Il protagonista della storia è Jacopo, un giovane studente universitario che una mattina uscendo di casa incrocia lo sguardo di una volpe che si aggirava per strada. Essendo la volpe un animale estremamente importante nella vita di Jacopo, ed essendo essa in compagnia di un gatto che aveva adottato in passato con la propria ex ragazza, Melissa, la cosa lo turba e lo convince che qualcosa di orribile sia accaduto a lei.

Questo l’incipit del romanzo, che sarà solo la punta dell’iceberg. Paolo Palladino, da questo punto in poi, riuscirà a trascinarvi in un viaggio dal quale – attraverso un uso splendido delle parole, della costruzione dei personaggio e dei contesti – difficilmente potrete staccarvi.

DA NON LEGGERE TUTTO D’UN FIATO, MA..

Non si tratta di un libro da leggere tutto d’un fiato. O almeno, non dovrebbe essere così, data la densità di spunti di riflessione presenti tra le pagine, ma arrivare alla fine e svelare ciò che si nasconde nello sguardo della volpe diventerà per voi… Beh, un’ossessione.

Giampaolo Frezza

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Leggi gratuitamente il primo capitolo di “Nello sguardo della volpe”.

Azzardarsi ad amare: Piperita, un romanzo di Francesco Mila

“C’era, forse, qualcos’altro. Una cosa materiale e dura, nera e puntuta, depositata sul fondo di mia madre”.

Il romanzo d’esordio di Francesco Mila, Piperita, edito da Fandango Libri, sembra costruito intorno a un nucleo oscuro, un fondale di lago in cui sedimentano tutti i silenzi e i disagi di un’intera famiglia. Lapo, il protagonista che seguiamo lungo la sua infanzia e adolescenza, sua sorella Emma, il padre, Gioacchino, e la madre, Lucrezia, sembrano sempre sul punto di essere inghiottiti dal vortice di un dolore inesprimibile. Il lago dove la famiglia Callipo trascorre le vacanze è una presenza costante nella storia, insieme concreta e simbolica; intorno alle sue acque i due bambini, Emma e Lapo, crescono, giocano, si fanno male, iniziano a conoscere la vita, esplorandola anche nei risvolti più crudi.

La prima parte della vicenda è incentrata sull’infanzia di Lapo e Emma, sui loro tentativi di compensare le carenze del rapporto con i genitori tramite gesti di protezione l’uno verso l’altra. Sorprende, in questa fase della narrazione, l’energia sprigionata da Emma, la sicurezza ieratica con la quale racconta di aver osservato il mondo ancor prima di nascere, attraverso una finestra nel grembo materno. Lapo ed Emma si sostengono a vicenda, coprono le urla dei genitori raccontandosi delle favole inventate, ed è proprio la protagonista di una di queste storie nonché l’alter ego di Emma, la Piperita, “una specie di implacabile seienne bohémienne”, a dare il titolo al romanzo. L’autore è in grado di trasmettere la forza immaginativa propria dell’infanzia e la delicatezza e la premura che permeano il rapporto tra fratello e sorella. I paesaggi immaginari, le iperboli della loro fantasia aprono squarci nel grigio dei silenzi familiari, interrotti soltanto dalla tosse nervosa del padre e dalla madre che rumina un’insalata immaginando di stare a cena con Simon le Bon. 

Nel descrivere Lucrezia, Mila tratteggia la figura di una donna fragile, assente, che idolatra i divi di Hollywood, dorme con la mascherina per gli occhi come una caricatura di Audrey Hepburn, trascorre le giornate tra riviste patinate, estenuanti sessioni di aerobica e pulizie compulsive. Una madre che prende in considerazione il figlio soltanto per esaminarne i tratti del viso e vagliarne le possibili somiglianze con qualche attore, o per sottoporlo alla ennesima visione di Gioventù bruciata, sempre a patto che rimanga in silenzio. 

Piperita è un romanzo che si interroga sui legami viscerali del sangue, a partire da quello tra madre e figlio, due entità separate violentemente dal taglio del cordone ombelicale, che “da quel momento conservano una mancanza, una privazione reciproca e forse incolmabile”. Memorabili le pagine in cui Lapo osserva Lucrezia prepararsi per uscire la sera canticchiando Satisfaction dei Rolling Stones: “era allo specchio che offriva i suoi sorrisi più belli”. Lucrezia non è in grado di assicurare neanche una presenza fisica ai propri figli, poiché, dopo aver vagheggiato viaggi in California o a Cuba, decide di partire senza dare spiegazioni, provocando una ferita insanabile in Lapo e sconvolgendo Emma, che da questo momento si chiude in se stessa, progressivamente sparendo dalla narrazione.

Il padre Gioacchino è “un uomo per cui i sentimenti erano vizi, esagerazioni incompatibili con le cose”. Incapace persino di trovare il tempo per insegnare al figlio ad andare in bicicletta, preferisce dedicarsi alle sue adorate ortensie. Chiuso in un incomprensibile mutismo, quando si abbandona all’ascolto di brani di Pino Daniele sprofonda in una “anchilosi mentale”. Lapo prova per il padre qualcosa a metà strada tra l’affetto e il ribrezzo. Analogamente al modo in cui aveva tentato di comprendere sua madre spiandola attraverso porte socchiuse, Lapo esplora i ricordi di suo padre, rovistando tra scatole di lettere e foto impolverate, per cercarvi i frammenti di quella vita taciuta e tentare di figurarsi il passato prenatale in cui, forse, i suoi genitori si erano amati.

Divenendo sempre più deboli i legami che uniscono i componenti della famiglia Callipo, irrompono nella storia altri due personaggi fondamentali per la crescita di Lapo: Amedeo e Greta. Il primo, istrione e ribelle, lo conduce per mano attraverso i riti di passaggio dell’adolescenza: dalle prime canne ai rituali del corteggiamento, Amedeo apre Lapo alla vita fuori da sé e dal dolore che custodisce. L’autore, con le sue parole, trasmette bene l’affilarsi dei sensi dei due giovani tra le luci del Piper, gli occhi di Lapo che si soffermano a descrivere le ragazze: “slanciate, fra la calca, sgomitavano voltandosi per assestare schiaffi o per lasciarsi baciare”. 

Greta, fin dal primo incontro con Lapo, tenta di far crollare la barriera di timidezza e riserbo che il protagonista ha eretto intorno a sé, lo introduce all’amore e tenta di comprenderlo ed accettarlo anche nelle sue debolezze. La paura profonda di Lapo è di condividere con Greta la medesima sorte di abbandonati, di far parte di quella schiera di persone guaste, irrimediabilmente mutilate negli affetti, ormai condannate a infliggere agli altri ciò che è stato fatto loro. Anche Greta ha le sue cicatrici, eppure è in grado di spiazzare Lapo con i propri inesausti tentativi di comprenderlo, di accettarlo. Lapo non riesce a comprendere come possa piacere a Greta nonostante non assomigli per niente a James Dean. Piperita ci ricorda che una componente importante dei dolori che si provano durante l’adolescenza consiste in una vergogna indefinita, quasi un fisiologico senso di inadeguatezza che porta a chiudersi in sé e nascondersi dietro ad una posa. 

Francesco Mila, nato nel 1996, con questo romanzo ci fa rivivere una fase, quella dell’adolescenza, ancora non così distante da lui da apparirgli sfocata, per mezzo di una prosa essenziale ed evocativa che non sfocia mai nel patetismo, neanche quando sfiora temi delicati, quali i disturbi alimentari o l’abuso di psicofarmaci. Attraverso gli occhi del protagonista intravediamo gli abissi a cui portano il silenzio e l’abbandono, fondali in cui rischia di rimanere per sempre, magari in compagnia dei bambini-lisca, gli abitanti del lago creati dalla fantasia di Lapo ed Emma. Ma, toccato il fondo, partecipiamo al suo disperato bisogno di risalire in superficie, di crescere, di tendersi verso l’altro e azzardarsi ad amare.

Massimiliano Davies

Umile recensione del primo libro di Paolo Palladino, “L’amore è uno stato d’alcol”

Quando ho deciso di scrivere un’umile recensione sul libro di Paolo Palladino, non ero certa di riuscire ad esprimere compiutamente a parole quello che ho provato nel leggerlo, l’emozione di sapere che si trattava del frutto del lavoro poetico di un ragazzo della mia età, che stimo e di cui apprezzo da sempre la scrittura. Mi sono ripromessa, pertanto, di restare oggettiva e analizzarlo come si trattasse di una delle raccolte poetiche che ho avvicinato nel corso degli anni. Ho iniziato a leggerlo a marzo, mentre si stavano avvicinando la primavera, le giornate miti, e l’odore dei fiori, e forse è anche per questo che mi è sembrato essere una carezza. Paolo mi ha consigliato di leggere tre o quattro poesie alla volta, così da poterle apprezzare un po’ alla volta, senza divorare il libro, e così ho fatto. 

L’amore è uno stato d’alcol, edito dalla casa editrice Edizioni Efesto, è una raccolta di poesie, la prima raccolta di poesie di Paolo, che, precisamente, ne contiene 38. Inizialmente ho curiosato nell’indice, come piace fare a me, per leggere i titoli. Alcuni di essi sono più canonici e fanno pensare ad una scrittura romantica e tradizionale, come Se per ogni volta che ti penso, Amara pioggia, Prima di liberare la tua voce; altri invece, più freschi e ironici, come Mojito ito, Checkpoint Charlie Chaplin, Non so scrivere poesie d’amore. In realtà, Paolo le sa scrivere eccome le poesie d’amore, e questo libro ne è la dimostrazione. Andando avanti con la lettura ho potuto individuare due filoni di scrittura. Uno più pensato, basato sui giochi di parole che tanto piacciono a Paolo, e su rimandi ai grandissimi scrittori, come Baudelaire e Francis Scott Fitzgerald:

«Maudite la nuit / Diable en peluche
Il buio è tua assenza e non quella di luce
Ma tenera è la coltre
che stempera la tenebra,
Ogni stella è un albatro che strappa
i fiori del mare di tormenti.»

Maudite la nuit

L’altro filone, più libero, spontaneo, quasi come se ad esprimersi fosse il Paolo bambino:

«Se un giorno non potremo più guardarci negli occhi
ci incontreremo là
dove volano gli ornitorinchi.»

Dove volano gli ornitorinchi

La cosa bella è che, in questa raccolta, l’amore è descritto in tutte le sue facce, come se, in preda ad “uno stato d’alcol”, Paolo le avesse viste tutte, e ce ne potesse ora riportare una testimonianza. L’amore come attesa perenne di chi ama e non è più ricambiato:

«Ma forse non eri te,
il suo sorriso era un taglio
e il suo braccio tutta una cicatrice
Una Triste mietitrice
che ha giocato con la falce
Il suo bacio bruciava come calce,
il tuo sguardo è più terso
Ora che ci penso probabilmente era tutto diverso.
L’attesa però è proprio questa
Identica
È sempre lo stesso il peso nel cuore di chi aspetta.»

In questo stesso posto, in questa stessa ora

L’amore dei fraintendimenti:

«Non so dirti di preciso quando ci sia entrato, mi sia trovato perso.
Forse un tuo sguardo, un tuo cenno d’assenso,
un tuo nulla che per me valse ogni parola, ogni promessa, ogni nave persa
e mai più tornata aspettando
qui invano di trovare la strada
per giungere a te.»

Alla piantata di Nasso

Ma anche l’amore delle coincidenze, delle promesse fatte e poi disfatte, l’amore dichiarato ma non recepito. La paura di cogliere “il loto sfiorito nel momento in cui sboccia”, o di “perdersi varcando la soglia di casa” (Danza macabra).

Alla fine è vero, come dice Paolo che “l’amore è verbale”, e io ho visto il cuore laddove c’è soltanto un verbo. Nell’attesa del prossimo libro di Paolo, consiglio a tutti di leggere questo, non ve ne pentirete.

                                                                                                                      Giorgia Andenna

“Se fosse tuo figlio”: un libro per cambiare il mondo

“Quando il mondo intero sta in silenzio, 
anche una sola voce diventa potente”  

Malala Yousafzai 

Nicolò Govoni: un volontario che non si è arreso  

Un giorno un ragazzo di nome Nicolò ha deciso di cambiare il mondo. Il suo amore nei confronti  dei più fragili e la sua voglia di fare vengono raccontati in maniera chiara e profonda nel suo  libro autobiografico “Se fosse tuo figlio”. Attraverso i suoi occhi vengono descritte le atrocità e  la miseria del campo profughi di Samos, in Grecia. Nel 2017, dopo un periodo di 4 anni come  volontario in un orfanotrofio indiano, Nicolò Govoni sceglie di dedicare il suo tempo all’interno dell’associazione “Boat Refugee Foundation”, ma quando questa leva le tende lui decide di restare.  Al diavolo la sua prestigiosa borsa di studio a New York, i bambini dell’hotspot hanno bisogno di  aiuto. Ogni storia all’interno di quel campo merita molto di più che una semplice coperta per la notte,  merita una speranza per il futuro. In quel campo la sporcizia è all’ordine del giorno e la violenza  pure. E così chi è fuggito da guerre e torture, pensando di ritrovarsi in un’Europa accogliente,  è finito per vivere in piccole tendopoli dove la rabbia di uno si somma a quella di altre centinaia  di persone, tra cui molti bambini.  

La rabbia di Hammudi  

Hammudi è uno di questi e Nicolò se ne rende conto, a tal punto che lo vorrebbe adottare come figlio  per sottrarlo alle continue sevizie dello zio. La storia di Hammudi spezza anche il più freddo dei  cuori. Era il luglio 2011 quando Hammudi ha visto morire davanti agli occhi suo padre, durante  quello che viene raccontato come il “Massacro del Ramadan”1. Da quel momento è costretto a  fuggire insieme alla madre, ma una volta raggiunta la Turchia viene affidato ai suoi zii, con i quali,  dopo una pericolosa traversata in mare, riesce a raggiungere la Grecia. Un’odissea quella di  Hammudi che però non è riuscita ancora a trovare un lieto fine in quel campo profughi, dove  l’unico reale interesse è il denaro. La manager che si occupa della gestione del campo è priva di  empatia e rimane estranea ai problemi dell’hotspot. Ognuno, lì, è abbandonato a sé stesso. Malvagità,  cattiva amministrazione o interessi economici? Forse tutti e tre. Certo, tutto ciò risulta difficile da  accettare quando viene a galla il nome dell’organizzazione che gestisce il campo in questione:  l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (UNHCR). Nicolò, nel suo libro, denuncia tutti, perché “nel silenzio, la giustizia muore”.  

Dreamers: la classe dei tuoi sogni  

Per cambiare il mondo in positivo, però, le parole non bastano, servono azioni concrete.  Inizialmente, insieme ad altri volontari, come Giulia e Sarah, decide di dare la possibilità a quei  bambini di evadere dalla vita dell’hotspot per qualche ora al giorno e creare una vera e propria  classe dove poter imparare non solo l’inglese, ma anche i propri diritti. È così che nasce  “Dreamers”, una classe di bambini rifugiati che vogliono ottenere una seconda possibilità. 

L’iniziativa si dimostra più difficile del previsto, non è facile gestire un gruppo di bambini provenienti  da diverse aree del mondo, spesso, in conflitto tra loro. Alla fine, però, si riesce a instaurare un clima  di serenità e lo stesso Hammudi inizia ad aprirsi e ritrovare parte della speranza perduta. A poco a  poco i bambini riescono a trascorrere serate davanti a una pizza calda e trovano uno spazio pubblico  in cui praticare sport. Nella città di Somos, però, gli abitanti locali sono diffidenti e spesso  ripudiano la presenza dei migranti. Le autorità locali e la polizia utilizzano metodi di  repressione e violenza, lo stesso Nicolò, una volta, è stato perquisito e portato in centrale senza  apparente motivo. 

“Still I Rise” e le scuole del futuro  

Se sei dalla parte del cambiamento, qualcuno cercherà sempre di ostacolarti. Govoni, però, non  è il tipo di ragazzo che si arrende, così decide di spingersi più in là. Grazie a diverse raccolte  fondi, donatori anonimi e ai proventi del suo libro “Bianco come Dio”, fonda “Mazì”, la prima  vera scuola per bambini rifugiati. In greco significa “insieme”, una parola che sprigiona amore.  Con il ricavato di questo libro, Nicolò è riuscito ad allargare la sua fondazione “Still I Rise” e  costruire altre 3 scuole in Turchia, Siria e Kenya. A febbraio 2021 è stata annunciata una  meravigliosa notizia: la fondazione International Baccalaureate offrirà alle scuole di “Still I Rise” la  possibilità di ottenere il diploma di “Baccalaureato Internazionale”. “Pareva impossibile”, scrive  Nicolò nel suo profilo Facebook, “e in tanti ci hanno detto che non ci saremmo riusciti, ma ce  l’abbiamo fatta. Saremo i primi al mondo a conferire il Baccalaureato Internazionale ai bambini  profughi e dimenticati. Per la prima volta nella storia, porteremo un’istruzione finora riservata solo  a pochi eletti, agli ultimi tra gli ultimi. Questa è la nostra Rivoluzione, e ne siamo infinitamente  orgogliosi!”. Grazie Nicolò per essere stato il cambiamento che volevi vedere nel mondo, grazie per  aver dato voce agli innocenti.

Irene Pulcianese

1 “Massacro del Ramadan”: Manifestazioni, avvenute in Siria nell’estate del 2011, contro il governo  di Bashar al-Assad che hanno visto l’intervento repressivo dell’esercito e causato più di 200 morti. 

Ma io chi sono se non ho te?

“Who am I to tell my private nightmares to if I can’t tell them to you?”

Frase emblematica della fiducia, pronunciata da Estragon – uno dei due protagonisti principali di Waiting for Godot di Samuel Beckett. Con questa frase si mette in dubbio l’essenza dell’uomo: la persona che la pronuncia, la persona a cui viene rivolta. Ma io chi sono se non ho te?

Più vado avanti con il tempo, più imparo a scoprire qualcosa dai volti delle persone, dalle loro espressioni e spesso non-espressioni, e più mi rendo conto di quanto si stia vivendo una sorta di non ritorno. Sembra che più si va verso il domani e più si ha bisogno di un appiglio. Come se ci fosse una clausola della vita che ti dice “sai, tu puoi continuare a vivere, fai ciò che ti pare, ma abbi paura di restare solo”. Ed è così che vedi che si cercano certezze, ovunque; dai più piccoli ai più grandi.

Il piccolo supereroe (fittizio o reale) per un bambino, un amico, un amore (che Dio ci salvi dai falsi amori e dai falsi sentimenti, vogliamo la realtà!), o una canzone… quanti di voi hanno bisogno di un piccolo gesto che, puntualmente, segni la quotidianità?

C’è chi trova il piccolo appiglio in Paolo Fox, chi nel libro che ha sempre nella propria borsa, chi nel taccuino che porta con sé. Io stessa quando sono sul treno ho bisogno di avere le mie cuffie. Guai se le dimentico a casa o nell’altra borsa: le voglio con me, mi devono in qualche modo proteggere dalle risa isteriche e false di chi occuperà il mio stesso vagone. Specialmente la mattina: nun ve vojo sentì.

“You’re my only hope” – questa volta è Vladimir, il secondo protagonista, a parlare. L’essere umano cerca un contatto, cerca ma non si muove come se gli fosse dovuto ricevere qualcosa senza mai sforzarsi. Sarebbe bello se tutti smettessero per un attimo di stare fermi, se ci fosse movimento. Non come questi due, Gogo e Didi che, in un periodo di incertezza e crisi, rappresentano ciò che effettivamente l’uomo è, ovvero molti dubbi e poche certezze, infatti dicono ancora “nothing is certain when you’re about”. Crisi, movimento, stasi. Sarebbe meglio, ma per chi?

E: Well, shall we go?
V: Yes, let’s go.

Stanno fermi, ancora.

E: Don’t touch me! Don’t question me! Don’t speak to me! Stay with me!
V: Did I ever leave you?
E: You let me go.

Rispecchia perfettamente le situazioni che ci circondano: non voglio che tu sia presente ma voglio sentirti vicino. L’essere umano che è complesso, anche se nessuno c’ha insegnato ad esserlo. È forse semplicemente più comodo cercare di aggrapparsi a qualcosa. Andiamo avanti così, tra le intemperie che incontriamo, ma forse è meglio.

V: You must be happy, too, deep down, if you only knew it.
E: Happy about what?
V: To be back with me again.

Ma io chi sono se non ho te?
Ho scritto questa riflessione nel duemiladiciassette, mentre preparavo l’esame di letteratura inglese.Ben lontani dalla pandemia, dalla necessità di avere qualcuno su cui far affidamento, eppure tutti abbiamo sempre cercato qualcuno o qualcosa a cui aggrapparsi. Anche il più indipendente si è trovato a dipendere.

Musica, libri, un taccuino, le cuffiette per fuggire dal rumore, un abbraccio… 
Oggi, come ieri, io chi sono se non ho te?

Martina Grujić B.