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La comunicazione tra intestino e cervello

L’asse intestino-cervello è uno degli argomenti più studiati negli ultimi anni nel campo scientifico. Cervello e intestino sono due organi ben distinti, che apparentemente non sembrano essere collegati tra loro, ma in realtà sono strettamente connessi e il loro rapporto ha un impatto importante sulla salute dell’organismo.

L’intestino è un organo deputato alla digestione degli alimenti che ingeriamo che ha un sistema nervoso autonomo e grazie a questa caratteristica di autoregolazione nella gestione degli stimoli è definito “il secondo cervello” del corpo umano.

Ultimamente le ricerche si stanno concentrando sul microbiota intestinale, cioè l’insieme dei microrganismi regolatori dell’asse intestino-cervello. Questi microrganismi, i cui principali sono sono Bifidobacterium, Lactobacillus ed Eubacterium, sono pari quasi a tre volte il totale delle cellule dell’intero corpo umano.

Nel libro “L’intestino felice”, la gastroenterologa tedesca Giulia Enders cita l’esperimento del nuoto forzato, che è uno degli studi più significativi su questo tema: un topo viene messo in un contenitore pieno d’acqua e, poiché non tocca il fondo, agita le zampette per cercare di tornare sulla terra ferma. Per quanto tempo il roditore riuscirà a nuotare per cercare di arrivare al suo obiettivo? I ricercatori hanno somministrato alla metà dei topi un batterio fondamentale per l’intestino il Lactobacillus rhamnosus JB-1 e hanno scoperto che i topi con l’intestino in buona salute nuotavano più a lungo e i loro test di memoria e apprendimento erano migliori rispetto a quelli degli altri topi. Se però gli scienziati recidevano loro il nervo vago, non si riscontrava più nessuna differenza tra i topi.

Cosa c’entra il nervo vago e perché è fondamentale? Il nervo vago è il collegamento tra intestino e cervello, è il decimo paio di nervi cranici presenti nell’essere umano. Esso mette in comunicazione il cervello e  l’intestino tramite  neurotrasmettitori comuni, come la serotonina che regola l’umore e viene prodotta per il 90% dalle cellule enterocromaffini, cellule epiteliali situate principalmente nello stomaco e nell’intestino. Molti studi recenti, infatti, hanno individuato una concausa di ansia e depressione nei disturbi gastrointestinali.

Intestino e cervello, quindi, si influenzano reciprocamente e in condizioni di forte stress emotivo attivano i circuiti dell’ansia e della paura, che provocando il rilascio di citochine, irritano la mucosa intestinale e questa infiammazione può generare delle patologie come la sindrome del colon irritabile. Infatti, le persone che soffrono di colon irritabile, mostrano un rapporto cervello-intestino non ottimale. 

Nel libro, la Enders cita un altro interessante esperimento: un gruppo di ricercatori ha gonfiato un piccolo palloncino all’interno dell’intestino di alcuni volontari e hanno osservato contemporaneamente le immagini ecografiche dell’attività cerebrale. L’immagine del cervello era nella norma nelle persone che non soffrivano di disturbi intestinali, mentre nei pazienti affetti da colon irritabile, l’elemento di disturbo generava reazione nella zona del cervello dove si elaborano emozioni negative. Quindi, anche in questo caso si conferma l’interdipendenza tra cervello e intestino. Oggi, ancora non esiste una terapia efficace per il colon irritabile, però è stata presa in considerazione l’ipnoterapia. L’ipnosi ha dato ottimi risultati, e spesso ha permesso la diminuzione dei farmaci, soprattutto nei bambini affetti da questa patologia.

Come possiamo prenderci cura dell’intestino e del cervello?

Prima di tutto, il nostro microbiota intestinale è influenzato da alcuni fattori come la dieta, l’esercizio fisico e i farmaci che a loro volta hanno un impatto sullo stress, la paura e i comportamenti alimentari. Alcune patologie già citate come il colon irritabile o i vari problemi intestinali rendono più faticosa la connessione tra intestino e cervello. Ci sono altri disturbi come l’anoressia e l’obesità che sono associati a un microbiota intestinale alterato a causa dell’alimentazione non corretta che caratterizza queste patologie. Per questo motivo, prima di tutto, dovremmo prenderci cura della nostra alimentazione, dato che secondo alcuni studi, le alterazioni della composizione del microbiota possono influenzare le funzioni cognitive. L’alimentazione ha un ruolo fondamentale, bisogna prestare la giusta attenzione a ciò che ingeriamo ed evitare o controllare l’assunzione di  cibi e bevande che tendono a sovraccaricare il nostro apparato gastrointestinale alterando anche il microbiota intestinale, come ad esempio i cibi fritti. 

Oltre ad una buona alimentazione, è molto utile anche l’attività fisica, poiché migliorando il tono muscolare, miglioriamo anche il nostro umore riducendo così lo stress e i suoi effetti sull’intestino, Anche un sonno adeguato può aiutarci a tenere sotto controllo le tensioni e lo stress. 

Prestando attenzione, quindi, ad alcuni aspetti del nostro comportamento quotidiano, potremo apportare vantaggi all’efficienza  del nostro intestino e quindi anche del nostro cervello.

Francesca Motta

Bibliografia e fonti:

One World, One Health

La pandemia da Covid-19 ci spinge ormai da più di un anno a riflettere sul nostro rapporto con l’ambiente, a immaginare le nostre attività ed a mettere in discussione il nostro modo di agire all’interno del mondo fino ad oggi.

Passata anche la giornata della Terra, è chiaro ormai come la questione ambientale e di un antropocentrismo esasperato siano centrali nel nostro Presente ed enormemente cruciali nell’immaginare il futuro.

Persi nell’evoluzione della diffusione della pandemia, concentrati oramai sui suoi riflessi politico-sociali, abbiamo totalmente accantonato le discussioni che accompagnavano la prima fase della diffusione del virus, quando ci interrogavamo Sulla sua origine, sull probabile origine animale e sul rapporto malsano che l’uomo ha instaurato con la Natura, invadendo sempre di più spazi incontaminati, abitati da altri esseri viventi, sotto il passo incalzante dell’urbanizzazione sfrenata.

In un suo famoso libro “Spillover”, tornato alla ribalta proprio allo scoppio della Pandemia, lo scienziato David Quammen già preconizzava una pandemia zoonotica, ovvero causata da un così detto “salto di specie”, il passaggio di un virus da un animale all’uomo. Un processo che, soprattutto negli ultimi anni caratterizzati dall’espansione umana pressoché totale all’interno dell’ambiente naturale, rischia di subire una decisa accelerata, lasciandoci l’inquietante presagio che Covid-19 sia solo il primo di una serie di virus che potrebbero scatenarsi a partire da questa situazione.

Già da alcuni anni, proprio in risposta a fenomeni come questo, è stata sviluppata una visione omnicomprensiva, olistica di modello sanitario denominata “One Health” , nella quale la salute viene considerata come un complesso eco-sistema nel quale la salute umana, quella animale e le condizioni ambiente hanno lo stesso grado di importanza. Si tratta di una concezione multidisciplinare e particolarmente raffinata nella quale gli indicatori del grado di Salute sono molti e contemplano dati sociologici, economici, veterinari, medici e così via.

La visione “One World, One Health”, un unico mondo un’unica salute, oggi dovrebbe essere la base fondamentale sulla quale andremo a ricostruire la nostra società, fino ai suoi livelli più bassi e vicini alla nostra quotidianità dopo il periodo segnato dalla pandemia. Il nostro Sistema Sanitario Nazionale, già riconosce come visione centrale quella del “One Health”, ma c’è bisogno, che nel pieno spirito del concetto, sia la politica tutta, ad ogni livello, ad adottare tale mentalità come timone nella propria azione di governo ed amministrazione.

La pandemia ha scoperto tutte le carte: la salute è una questione centrale per la prosperità e lo sviluppo dell’umanitá, solamente mettendola al centro del dibattito politico potremo costruire un mondo migliore. “One World, One Health” dovrà diventare lo slogan degli anni a venire, riconoscendo che senza un impegno di salvaguardia sociale, ambientale ed animale, non potremmo dirci veramente in salute.

Lorenzo Giardinetti

Cosa vedi?

Abbiamo parlato con tre ragazzi che soffrono o hanno sofferto di Disturbi del Comportamento Alimentare e abbiamo provato ad immergerci anche noi nella malattia ponendo loro delle domande molto intime e precise. Tutti i ragazzi si sono messi a nudo davanti a noi, raccontandosi apertamente e senza paura e rispondendo alle nostre domande con molta profondità. Chiara, Sebastiano e Francesca lottano ogni giorno per migliorare la loro vita e oggi vogliono raccontarsi un po’.

Chiara, come ti senti quando ti guardi allo specchio? Come si fa a vivere in un corpo che non vuoi?

Partendo dalla considerazione che il corpo è la “bestia nera”, il fulcro, il punto nevralgico attorno al quale nasce e si sviluppa la malattia, io non direi che non voglio il mio corpo… Non lo voglio così com’è… Ma non adesso, in qualsiasi condizione mi trovassi, che fossero 5 o 10 chili in più o in meno degli attuali 27, io l’ho sempre detestato, violentandomi, massacrandomi quotidianamente con digiuni forzati o abbuffate, in una ricerca spasmodica affinché possa aderire all’immagine interna di una perfezione che di fatto non esiste. Ma il corpo è anche l’unica fonte di vera soddisfazione, perché quando mi guardo allo specchio, più mi vedo scavata, emaciata, magra e sofferente e più mi sento gratificata. Elemento fondamentale nella dispercezione corporea da cui siamo affette è anche il peso, quel numero sulla bilancia che tenta invano di restituirti una realtà che rifiutiamo. 

Io sono una bulimica con compenso da ormai venti anni e questa definizione mi corrisponde, la sento profondamente radicata nella mia essenza più di quanto non faccia il mio stesso nome. 

Mi capita quasi quotidianamente di venire fissata in modo insistente, a volte con disgusto, altre con commiserazione, in particolare da bambini che si rivolgono alle mamme: “Perché è così magra?” e di assistere al disagio delle genitrici che liquidano con poche fredde parole la curiosità dei loro pargoli: “è malata amore”… In un’occasione addirittura una bimba di circa tre anni mi si avvicinò e mi toccò la pancia e le cosce, non riuscendo a farsi capace di quell’immagine così inconcepibile per lei. Vorrei permettermi di suggerire a quelle mamme che si trovano in imbarazzo di fronte alla mia figura, che i vostri figli, in particolare quelli piccoli e sensibili, lo percepiscono e invece che “preservarli” da una realtà di sofferenza, li incuriosite ancora di più e paradossalmente potrebbero rimanere affascinati da un qualcosa che per loro rimane misterioso. Quindi spendete due parole per spiegare loro che la nostra è una malattia terribile, purtroppo sempre più diffusa, ma non siamo esseri alieni o mostruosi… Esattamente come fareste di fronte ad una ragazza in carrozzina perché diversamente abile… 

Noi siamo al contempo vittime e carnefici di noi stesse, ma non l’abbiamo scelto, non ci crogioliamo nella nostra disperazione senza porci quotidianamente domande e tentativi di limitare la forza di un disagio che ci rovina la vita. Per fortuna oggi esistono tanti validi terapeuti e anche qualche struttura funzionale in grado di aiutarci e tante/i guariscono, una speranza che mi accompagna e, nonostante tutte le ricadute e i fallimenti, mi sprona ad andare avanti giorno dopo giorno.

Sebastiano, cosa significa essere invisibile nella malattia? Quanto ti sei sentito solo?

La solitudine ti sbrana più della stessa malattia. Invisibile credo che significhi innanzitutto sentirsi soli, separati, distanti dal mondo che ti circonda. Invisibile è una sensazione che va oltre lo sguardo, la superficie delle cose, il piano della materia. Invisibile è una sensazione che ha a che fare con le connessioni, le intimità, la comprensione, il riconoscimento. Invisibile è stare tra gli altri e avvertire e manifestare un dolore e non riuscire a comunicarlo, o forse, anche di più, comunicarlo e non avvertire un riscontro. Avvertire. Una questione di sensazioni, spesso di fatti: sei tra i tuoi simili, ma ti senti altro. “Ho sperato che il cielo si lacerasse”, scrivevano (forse il mio incipit preferito). Ed è così: nella malattia l’ho sperato a lungo. Che il cielo si lacerasse, che le persone intuissero, che qualcuno o qualcosa potesse essermi abbastanza accanto da capire fino quasi a sovrapporsi. Ammetto. Ho sperato a lungo gli altri potessero infettarsi, lacerarsi, anche soltanto per un secondo. Boccheggiare nel mio dolore e poi tornare a galla, senza fiato, ma con più consapevolezza. Solitudine è quando ti osservano colare a picco e tutto e tutti intorno urlano di farcela e di tornare in superficie soltanto battendo i piedi e le mani. Come uno show. Ma intanto l’acqua ristagna nelle orecchie e tu non senti niente. Solo, invisibile. Eppure questa solitudine può essere spezzata, il mare tornare il cielo, la spiaggia la mano calda che rincorre la schiena – come una formica – fino a farti sorridere prima di dormire.

Francesca, come ti senti quando ti guardi dentro? Cosa provi per te stessa?

Non mi piace guardarmi dentro, soffro molto quando lo faccio. Eppure, a volte, arriva il momento in cui bisogna guardarsi dentro e fare i conti con se stessi. Quando arriva questo momento ho sempre molta paura perché neppure io so chi sono, ancora devo scoprire la mia identità. Scoprire se stessi è un percorso lungo e pieno di ostacoli: si inciampa, si cade e ci si rialza, ma non è affatto semplice. Quando mi guardo dentro provo molta tristezza per me stessa, una grande sensazione di vuoto mi accompagna sempre ed è quasi impossibile colmare questo vuoto. 

Mi guardo dentro e mi sento a pezzi. Sento che la mia identità è divisa in pezzetti minuscoli di me che non riescono a ricongiungersi tra loro. Alcuni pezzi di me sono sani, sono la parte sana di me, quella che vuole lottare e quella che mi urla che posso farcela ad andare avanti; altri pezzi, invece, sono la parte malata di me e mi sussurrano con una voce bassa e decisa, che non ce la farò mai, che sono una fallita, che non devo mangiare, che sono senza speranza, che merito di stare così male. Questa voce maledetta fa da colonna sonora alla mia vita, è un tormento, non mi dà pace, non mi lascia un attimo di tregua. 

Ricomporre tutti questi pezzi di me è molto difficile e spesso non riesco a ricomporre il mio puzzle, oppure perdo i pezzetti sani di me e in mano mi restano solo i pezzetti malati. Che si fa in questi casi? Do ragione alla malattia. Sì, le do ragione. E così, oltre ad una voce malata che mi rimbomba nelle orecchie, c’è anche il mio animo che impazzisce e si colora di nero, e così anche tutta la mia vita. Il nero diventa lo sfondo del quadro della mia vita. Questo colore mi intrappola, mi stringe forte a sé, non mi fa vedere la luce, che invece da qualche parte c’è. Avete presente quando è sera e piano piano si spengono tutte le luci, una alla volta? Ecco, dentro di me succede la stessa cosa. Lentamente tutto diventa nero e in questi momenti sono io che devo trovare la forza per riaccendere una luce o trovarla da qualche parte. Con il tempo ho imparato che posso illuminarmi solamente da sola, non c’è nessuno che possa farlo al posto mio. So che devo concretamente aumentare la luminosità della mia vita e si può fare davvero, serve molta forza di volontà. Quando è tutto nero, mi focalizzo su un ricordo bello che ho e alzo al massimo la luminosità del mio ricordo, fino a farlo brillare. E così, piano piano, la luce torna. In questi casi è inutile stare a rimuginare sui pensieri perché in questo modo aumentano solamente le paranoie e ci si perde nei nostri stessi pensieri.

Tornando alla domanda iniziale, quando mi guardo dentro provo tante emozioni differenti, forse anche troppe, così tante che non so nemmeno distinguerle. Ancora non so bene cosa provo di preciso, sto imparando a conoscermi piano piano e con il tempo imparerò a guardarmi dentro e a decifrare ogni pezzetto di me. Per adesso, mi accontento di guardarmi e basta, mi guardo a distanza, mi guardo da lontano, senza andare troppo a fondo perché ho ancora molta paura del dolore e di scoprire chi sono.

Francesca Motta

Fiocchetto Lilla: per la lotta contro i Disturbi del Comportamento Alimentare

Se sentirmi in gabbia nel mio stesso corpo è la normalità, durante questa pandemia questa sensazione è stata una tortura. Non solo siamo stati tutti costretti a rimanere chiusi in casa, ma io sono stata anche costretta a rimanere in trappola dentro me stessa a causa della mia malattia. Mi sono sentita soffocare durante tutto questo periodo. La malattia ha cominciato ad essere più forte della mia testa e la gabbia in cui mi trovavo, ovvero il mio corpo, ha iniziato a stringermi sempre di più fino a che non ho smesso di respirare per un po’. Mi ha tolto tutto. Mi ha divorato l’anima, ha mangiato ogni pezzo di me.

Durante la pandemia, oltre ad un grave danno psicologico, chi soffre di Disturbi del Comportamento Alimentare (DCA) è in pericolo anche fisicamente. Sì, perché per le persone malnutrite, i rischi sono maggiori. È importante parlare dei DCA perché c’è stato un incremento dei casi e un peggioramento di queste patologie nelle persone che già ne soffrivano. 

Per quanto riguarda l’anoressia nervosa, l’isolamento sociale ha portato ad aumentare il rischio di ricadute, poiché limitando la possibilità di fare attività fisica o semplicemente di uscire, ha facilitato l’insorgenza di pensieri ossessivi legati al peso o alla forma corporea. Il prolungato isolamento, per le persone che soffrono di anoressia, ha portato a lottare ancora di più con la propria immagine corporea e ha aumentato il conflitto con il cibo. 

Per la bulimia nervosa e il binge eating i fattori che hanno portato alle ricadute, invece, sono stati soprattutto legati al forte stress e spesso le tensioni accumulate sono sfociate nelle abbuffate, che sono state anche facilitate dalle abbondanti scorte di cibo accumulate in questo periodo.

Chi soffre di Disturbi del Comportamento Alimentare è esposto a un rischio maggiore di infezione da COVID-19. La malnutrizione influenza la capacità del corpo di difendersi dalle infezioni. Le persone malnutrite, soprattutto quelle che soffrono di anoressia, hanno scarse riserve di zuccheri e questo aumenta maggiormente il rischio di ipoglicemia durante i periodi di stress.

Infine, chi soffre di questi disturbi è a rischio di squilibri metabolici ed elettrolitici, che possono aumentare il rischio di insufficienza respiratoria e di arresto cardiaco che sono le conseguenze più gravi del COVID-19.

I disturbi alimentari non sono così lontani come si potrebbe pensare. Anche chi è al nostro fianco potrebbe soffrirne in silenzio.

Io sono qui e soffro di anoressia nervosa. Il sintomo più visibile di questa malattia è il rifiuto del cibo. La perdita di peso è accompagnata, nei soggetti di sesso femminile, dalla scomparsa del ciclo mestruale (amenorrea). Esistono due sottotipi di anoressia, io soffro di anoressia di tipo bulimico o chiamata anche con condotte di eliminazione, in poche parole mangio poco rispetto alla norma e dopo vomito. Per un lungo periodo della mia vita, invece, ho sofferto di anoressia nervosa di tipo restrittivo, proprio come Giulia, una mia cara amica. Questa tipologia è diversa perché si mangia poco e si compensa con l’iperattività, quindi per bruciare più calorie possibili si ricorre allo sport o a delle lunghe e infinite camminate. In entrambi i casi, si mangia molto poco o si digiuna direttamente. Non decidiamo noi di farlo e non lo facciamo perché non abbiamo fame, anzi la fame c’è ed è tantissima, ma purtroppo è la nostra malattia che ci impone di controllare un bisogno fisiologico come la fame. Inoltre, abbiamo una percezione sbagliata del nostro corpo e la perdita di peso non sarà mai abbastanza, continueremo a scendere fino a toccare un punto di non ritorno, fino a sfiorare la morte. Eppure, io non ho paura della morte, ho molta più paura di prendere peso. Questi pensieri distorti e pericolosi non sono frutto della mia testa sana, ma è la mia malattia che parla.

Lei è Lidia e ha una malattia che si chiama bulimia nervosa. Il termine bulimia nervosa è stato coniato nel 1979 dallo psichiatra inglese Gerard Russel e deriva da due parole greche che sono bous (che significa bue) e limos (fame), letteralmente quindi bulimia significa “avere una fame da bue”. Una persona che soffre di questa malattia è quasi sempre invisibile perché il suo corpo non cambia drasticamente, ha un peso nella norma e spesso un bel sorriso stampato sul volto come se servisse per rassicurare gli altri “Io sto bene, è tutto ok” e quindi nessuno si accorge di niente. Dietro a quel sorriso, però, c’è tanta sofferenza perché Lidia perde il controllo e inizia ad abbuffarsi di cibo, mangia così tanto da sentirsi male e poi, piena di sensi di colpa, corre in bagno a vomitare. L’eliminazione del cibo può avvenire attraverso il vomito o con lassativi. Le conseguenze della bulimia sull’organismo sono molte e possono portare anche alla morte a causa del vomito autoindotto. Lidia si vergogna di se stessa, si guarda allo specchio e vorrebbe morire, eppure lei rischia la vita ogni volta che vomita. 

Laggiù c’è Silvia, lei è triste e preferisce stare in disparte in compagnia della sua solitudine. Lei soffre di binge eating. Lei non fa schifo come le ripete la gente quando si abbuffa, lei ha una malattia che si chiama alimentazione incontrollata. Mangia senza nessun controllo, la sua malattia comanda la sua testa, comanda tutta se stessa. La condizione di obesità che ne deriva comporta un significativo aumento del rischio cardiometabolico complessivo e tutta una serie di complicanze specifiche come ipertensione, diabete, problemi muscoloscheletrici, alterazioni ormonali, difficoltà cardiorespiratorie e tanto altro. Lei non si piace, odia il suo corpo, vorrebbe morire e tocca il fondo ogni giorno.

Anche Marco ha sofferto di anoressia nervosa per un lungo periodo e adesso soffre di bulimia nervosa. Lui però è invisibile ancora di più agli occhi della gente che non conosce queste patologie. Solitamente si collegano i disturbi alimentari al genere femminile e si tralasciano i tanti casi in cui sono coinvolti i ragazzi. Oltre alla difficoltà della patologia stessa, per Marco si aggiunge anche la vergogna di avere una malattia che si ritiene tipicamente femminile, quindi gli effetti psicologici sono tanti. Anche Marco sfiora la morte ogni giorno, eppure nessuno ne parla.

I Disturbi del Comportamento Alimentare si somigliano tra loro poiché hanno un filo conduttore: la malnutrizione. Spesso i sintomi dei disturbi alimentari più comuni sono molto simili, ma ciò che cambia in maniera radicale sono le cause. Ogni individuo ha la sua storia, il suo percorso di vita e la sua personalità e questi tre concetti rendono uniche le persone. Ciò che porta una persona ad ammalarsi per poi utilizzare il cibo come meccanismo per comunicare, per chiedere aiuto o per gestire le proprie emozioni, è differente da persona a persona. La mia storia non sarà mai come quella di Lidia, di Giulia, di Silvia o di Marco. La mia storia è la mia, ognuno ha la propria storia. Quindi, proprio perché le cause che portano alla malattia sono differenti, anche il percorso di guarigione da questi disturbi non è solamente legato ai sintomi, ma deve essere affiancato da un percorso di psicoterapia. Queste patologie sono delle malattie psichiatriche e hanno il diritto di essere viste e di non rimanere invisibili. Devono essere trattate come tutte le altre malattie, con un percorso terapeutico adatto al singolo paziente affinché vengano curati nel modo adeguato sia la mente che il corpo.

Io non sono anoressica, ma soffro di anoressia. Lidia non è bulimica, ma soffre di bulimia. Silvia non è obesa, ma soffre di binge eating. Marco non era anoressico, ma soffriva di anoressia e adesso Marco non è bulimico, ma soffre di bulimia. Bisogna stare molto attenti a non identificare la malattia con la persona, come in ogni altra patologia, perché le malattie mentali non valgono meno di altre patologie. Ed io non SONO la malattia, ma io HO una malattia.

Durante la pandemia ho dovuto combattere contro il virus, contro la mia malattia e contro me stessa. Sono caduta un milione di volte, ma mi sono sempre rialzata, anche senza forze. Ho dovuto lottare un po’ di più in questo periodo, è stata dura, ma sono qui. Oggi è la Giornata Nazionale del Fiocchetto Lilla per la lotta contro i Disturbi del Comportamento Alimentare e lo urlo a squarciagola affinché tutti possano sentire la battaglia che combatto da una vita e affinché queste malattie non siano più invisibili.

Francesca Motta

Sitografia:

https://www.epicentro.iss.it/coronavirus/sars-cov-2-dipendenze-disturbi-alimentazione

Perché in Asia non consumano latte e latticini?

Il lattosio è uno zucchero, un disaccaride, ossia una molecola formata da due monosaccaridi: il galattosio e il glucosio e si trova principalmente nel latte e nei suoi derivati, ma può essere aggiunto come additivo in alcune preparazioni alimentari. 

Sebbene il latte sia un alimento fondamentale nella dieta soprattutto in quella dei bambini, molte persone però non riescono a digerirlo e accusano disturbi di vario tipo: meteorismo, flatulenza, dolori addominali, diarrea e gonfiore.

L’intolleranza al lattosio è dovuta alla carenza di un enzima, chiamato lattasi, che come tutti gli enzimi ha il compito di facilitare l’assimilazione dei cibi rendendoli più semplici. Il lattosio per essere correttamente digerito deve prima essere scomposto nei due zuccheri semplici che lo compongono, ma le persone intolleranti producono quest’enzima in quantità insufficiente, quindi non avviene o avviene in parte la scissione dello zucchero e come conseguenza non riescono a digerire il lattosio.

L’intolleranza può essere genetica o acquisita. Se è genetica, l’organismo non è in grado di produrre l’enzima lattasi a sufficienza e il disturbo si manifesta in genere a partire dal periodo dello svezzamento. L’intolleranza al lattosio acquisita, invece, può insorgere a qualunque età e in età adulta si assiste ad una riduzione dell’attività della lattasi fino al 95% fino a portare ad un’intolleranza acquisita.

Quando si sospetta un’intolleranza al lattosio è consigliato fare il test del respiro chiamato anche breath test. Questo test serve a valutare la concentrazione di idrogeno nell’aria espirata dopo aver ingerito il lattosio.  Dato che la fermentazione dello zucchero non digerito produce idrogeno che viene prontamente riassorbito dalle pareti intestinali ed eliminato con la respirazione, in caso di intolleranza al lattosio si osserverà un picco di concentrazione di idrogeno nell’aria contenuta nel “palloncino”. Non è un esame complesso, basta che venga somministrato del lattosio per via orale e dopo un certo lasso di tempo si inizia a soffiare dentro ad un “palloncino” ripetendo questa azione un certo numero di volte. Il medico, infine, valuterà l’andamento dell’idrogeno e diagnosticherà l’intolleranza.

La terapia per l’intolleranza al lattosio consiste semplicemente in una riduzione o nei casi più gravi anche nell’eliminazione di latte e latticini dalla dieta, che porterà alla scomparsa dei sintomi. Si consiglia di inserire alimenti ricchi di calcio che sostituiscano i latticini, come il cavolfiore, le mandorle, i legumi. Inoltre, non tutti i latticini sono da escludere perché nei formaggi stagionati come il parmigiano, molto lattosio viene perso durante la stagionatura e questo rende il formaggio più digeribile. Quindi, per evitare di star male, basta fare attenzione alla quantità di latte e derivati che si ingerisce.

In alcune popolazioni la carenza dell’enzima lattasi è genetica e l’intolleranza al lattosio è più diffusa, soprattutto in Asia, dove, nel Sud-est asiatico riguarda circa il 90% degli adulti, una percentuale altissima rispetto all’Europa. Avremo senza dubbio notato che in un ristorante asiatico non vengono mai serviti dei formaggi o latticini vari a tavola, anche se ultimamente in Italia si sta diffondendo la moda di modificare i piatti tipici della cucina asiatica aggiungendo dei latticini agli alimenti, come mettere il formaggio spalmabile nel sushi.

In realtà queste popolazioni molto lentamente hanno cominciato a introdurre i latticini nella loro dieta, anche se ancora in maniera occasionale. 

Gli asiatici, infatti sono molto incuriositi dalla cucina occidentale e stanno sperimentando i primi assaggi di formaggi come ad esempio il parmigiano che, appunto, è più facile da digerire. Anche la pizza con la mozzarella sopra che sta avendo un grande successo in Cina e piano piano queste nuove scoperte culinarie stanno modificando i gusti della popolazione, chissà magari ben presto anche nei ristoranti asiatici troveremo dei latticini accanto al tofu e alla soia!

Francesca Motta

FONTI:

https://www.my-personaltrainer.it/nutrizione/intolleranza-lattosio.html