Archivi tag: Trump

Trump: un leader ideale

Trump è uno dei personaggi più controversi dell’ultimo decennio, è riuscito a richiamare l’attenzione di un gran numero di americani grazie alle sue idee e affermazioni a dir poco forti, venendo acclamato come portavoce di un’America che apprezza la voce di un uomo senza peli sulla lingua e senza mezzi termini, una figura forte e carismatica. Sorge quindi la domanda: come una personalità tanto eccentrica è riuscita, con una ascesa politica tanto fulminea quanto inaspettata, a sedersi sulla poltrona dello Studio Ovale? Ho cercato di trovare una risposta al complicato rompicapo Trump utilizzando gli strumenti che la psicologia ci mette a disposizione, sfruttando per lo più le teorie sulla leadership. 

Una delle prime teorie che vorrei considerare è quella dell’identità sociale, secondo cui tutti noi, nel nostro quotidiano, oscilliamo tra due identità: un’identità individuale, unica e irripetibile ed un’identità sociale, ossia quella fetta della propria identità appartenente a gruppi. Esempi calzanti dell’identità sociale possono essere il sentirsi parte di una famiglia, di un gruppo di lavoro o di un gruppo di amici. Quando questa identità sociale si fa più forte e viva nella nostra esperienza e coscienza, cambia il nostro modo di vedere le cose ed i nostri interessi. Prendiamo ad esempio una classica domenica italiana, una bella partita di calcio ed una folla di tifosi che riempie lo stadio. Immaginiamo di essere dei fieri tifosi della nostra squadra, in quel momento ci sentiamo parte di qualcosa di più grande di noi e colti dall’energia e dal clima della situazione seguiamo la volontà di chi? Beh, del capo ultras. Quando lui alza un coro noi lo seguiamo, se chiede una ola chi siamo noi per negargliela? 

Ma perchè ci affidiamo a questa figura? La teoria dell’identità sociale sostiene che la seguiamo perché il capo ultrà è il membro prototipico del nostro gruppo, ossia è colui che meglio di chiunque altro, in quel dato momento, rappresenta i valori e gli obiettivi del nostro gruppo, in questo caso sostenere e osannare la nostra squadra con quanto fiato abbiamo in corpo. Tutto ciò ovviamente non è per dimostrarvi che Trump sia un capo ultrà ma che Trump sia il membro prototipico del suo elettorato: forte, carismatico, dalla bella vita, un uomo di successo che ha il coraggio di dire ciò che il suo elettorato pensa, rendendolo pertanto il perfetto portavoce del suo gruppo. 

Un’altra teoria che ci può essere molto utile per comprendere il fenomeno Trump è la teoria del bisogno di chiusura cognitiva, la quale sostiene come fra di noi ci siano alcuni individui che non hanno la volontà o le risorse mentali per comprendere una realtà sociale complessa come quella di oggi e che ciò nonostante sentono la necessità di capirci qualcosa e non vivere in un perenne stato confusionale. Vi potreste chiedere: come conciliare queste due tendenze apparentemente opposte? La risposta è molto semplice, basta seguire la volontà di un leader, qualcuno che possa al posto del singolo elaborare la realtà sociale e dare risposte semplici e comprensibili ai quesiti della società di oggi. Tutto ciò calza a pennello col caso che stiamo considerando: Trump ha nel tempo più volte dimostrato di saper fornire risposte chiare e semplici a problemi complessi, un esempio su tutti è quello dell’immigrazione, come risolverlo? Semplice, ci serve un muro. 

Abbiamo dimostrato quindi che Trump è il leader ideale per il suo elettorato, in grado di rassicurare di fronte ad una realtà sociale complessa e intimorente. 

La teoria che stiamo considerando prevede inoltre come gruppi con alti livelli di bisogno di chiusura cognitiva tendano a preferire leader autoritari, in quanto il leader autoritario non lascia spazio al confronto e alla discussione e preferisce far prevalere le proprie idee rispetto a quelle del gruppo. Ciò ovviamente si allaccia perfettamente a quanto detto in precedenza: il confronto, come l’elaborazione della realtà sociale, è molto dispendioso in termini di risorse mentali: perché arrovellarsi su intricati problemi tramite lunghi ed estenuanti brainstorming di gruppo quando basta seguire le indicazioni del leader? 

Resta però incomprensibile cosa possa portare l’elettorato trumpiano, per quanto fedele al suo leader, ad occupare e invadere Capitol Hill mettendo tra l’altro a repentaglio le proprie vite. Può venirci in soccorso un fenomeno noto come favoritismo dell’ingroup: i membri di un gruppo tendono ad essere più cordiali e generosi con i membri del loro stesso gruppo, sia per quanto riguarda atteggiamenti che per valutazioni e giudizi, e ben più scortesi e severi con i membri di altri gruppi. Tornando alla nostra metafora calcistica è tragicamente ben nota la forte rivalità che può esistere fra due tifoserie. 

Niente inoltre unisce un gruppo quanto un nemico designato, in tal caso la classe politica americana, che da lungo tempo è stata descritta nella narrazione trumpiana come il nemico che ostacola il normale corso del processo democratico e deruba Trump di ciò che gli spetta, la presidenza. Ricerche dimostrano che l’elemento necessario e sufficiente per creare un conflitto tra due gruppi è l’appartenenza ad uno di essi. Di conseguenza se il solo sentirsi parte di un gruppo crea tensioni nei confronti degli altri, immaginate quali sentimenti si possano provare verso un nemico che vi ha derubato del vostro sacrosanto diritto al voto. 

Ciò ovviamente non deve lasciarci cadere nel più nero sconforto, tante sono le modalità studiate e messe in atto per evitare il conflitto tra i gruppi. Una delle strategie più efficaci in tal senso è il semplice relazionarsi con i membri del gruppo considerato nemico. Il semplice conoscersi al di là delle etichette e dell’appartenenza ai gruppi è il più forte rimedio naturale al conflitto, così superfluo in tempi tanto complessi e caratterizzati da così tanti cambiamenti.

Antonio L’Abbate

Coup d’Etweet

“La terza notizia interessante è che la scelta del termine post-truth era stata compiuta già prima che i risultati delle elezioni americane fossero noti. È proprio la recente campagna elettorale statunitense a offrirci una collezione di elementi tale da restituire una vivida idea di quel che significa vivere ai tempi della post-verità […] Sbagliato e ingenuo, però, sottovalutare la crescente rilevanza e il peso del fenomeno costituito dalla vorticosa diffusione delle bufale, e il conseguente avvento della post-verità. Le bufale e le credenze in sé sono false, ma il fenomeno delle bufale e delle credenze diffuse in rete è del tutto reale.” 
(Annamaria Testa, Internazionale, 22 novembre 2016)

Le elezioni per il Presidente degli Stati Uniti d’America si tengono il primo martedì di novembre e, tendenzialmente, permettono di capire chi sarà il prossimo capo di Stato del più potente Paese occidentale nei prossimi quattro anni. Quest’anno si sono tenute il 3 novembre e hanno dichiarato Joe Biden il nuovo presidente degli Stati Uniti d’America, seppur dopo diversi giorni. Nonostante i seggi vengano chiusi martedì sera, il presidente-eletto si insedia nell’ufficio ovale solo a partire da metà gennaio, lasciando la precedente amministrazione (o la stessa, in caso di conferma) al comando per settimane. La simpatica definizione per l’amministrazione uscente è lame duck, un’anatra zoppa, per dire che, sì, è ancora in carica, ma non detiene più molto potere.

Questo giro, Donald ha deciso di non essere duck. Non zoppa perlomeno.

Indossando un cappello MAGA (Make America Great Again) e imbracciando una serie di cause legali negli stati in bilico dove i risultati ufficiali hanno assegnato all’ultimo la vittoria ai democratici, il quarantacinquesimo Presidente degli Stati Uniti ha tentato e sta tentando fino all’ultimo di ribaltare il risultato delle elezioni, conclamando una vittoria rubata e sottratta ai Repubblicani tramite una serie di evidenti brogli elettorali (BBC News) Così evidenti che Trump ne denunciava la realizzazione addirittura mesi prima delle elezioni stesse, dimostrando un grande potere premonitore.

Nelle cause, gli avvocati di Trump parlano di decine di migliaia di voti irregolari, sottoscritti per persone morte o in numero maggiore rispetto agli abitanti della popolazione. Tutto ciò è stato largamente rigettato in Georgia, in Wisconsin, in Michigan, in Nevada, e in Arizona, sia da singoli giudici che dalle Corti Supreme dei singoli stati, giudicando le motivazioni prive di fondamento e base legale. Oltre ciò, anche lo stato del Texas, supportato da Trump, ha mosso una lawsuit contro le procedure elettorali in questi stati ma la Corte Suprema degli Stati Uniti ha rifiutato di accoglierla in quanto il Texas mancava della posizione legale per portare avanti la causa. In Georgia e in Wisconsin un ulteriore riconteggio ha confermato la vittoria di Joe Biden (CNBC)

In pratica, non c’è alcuna motivazione per ritenere le elezioni truccate o invalidate in qualche modo. Dopo la vittoria democratica dei due senatori della Georgia nella giornata del 6 gennaio, Jon Ossof e Raphael Warnock, i democratici hanno ufficialmente preso controllo sia di Camera che di Senato, oltre che della Casa Bianca (Financial Times). Nella stessa giornata, Senato e Camera si sono riunite a Capitol Hill, Washington DC, per inaugurare Joe Biden come presidente e confermare la sua vittoria. Dal momento che tale riunione cerimoniale è presieduta dal vice-presidente in carica, Donald Trump ha giustamente pensato di scaricare la responsabilità sul suo amico Mike Pence, dichiarando che lui avrebbe il potere di fermare la procedura e sovvertirne l’esito. Altre fonti hanno poi suggerito che Mike, mica scemo, abbia detto a Donald che lui in verità non è che ha tutto questo potere. Trump, forse più scemo, ha dichiarato invece che le dichiarazioni riguardo le dichiarazioni di Mike sono fake news (New York Times). Tutto è il contrario di tutto.

Intanto Mike Pence ha cambiato la sua immagine di copertina di Twitter con una foto di Joe Biden e Kamala Harris.

Ora, caro lettore capitato a leggere questo articolo per capire un po’ che cos’è questo bordello che è inaspettatamente esploso oltre oceano al termine di una tranquilla giornata di Epifania, probabilmente tu non simpatizzi Trump. Non è detto che Biden ti faccia impazzire ma è poco plausibile tu sia uno di quelli che andrebbero in giro con il berretto Make America Great Again e una semiautomatica sulle spalle. Forse, eh, poi ognuno è liberissimo di fare quello che vuole. leggere quello che preferisce, vestirsi come meglio crede. Dico questo perché questo non è il genere di articoli che quella minoranza chiassosa dei supporter di Trump andrebbe a leggere. Anzi, articoli che gli sarebbero capitati. Sì perché oramai il 44% della popolazione si informa tramite Facebook (The New Yorker) e la libertà e democrazia fornita dai social media sono un’arma tanto potente quanto pericolosa, che può trasformarsi “in palazzi degli specchi nei quali ciascuno cerca e trova solo conferme alle proprie opinioni, e vede riflessi solamente se stesso, la propria rabbia e il proprio malessere.” (Internazionale). Specialmente in America, questo meccanismo, assieme ad una politica sempre più divisiva, ha generato una netta e apparentemente invalicabile separazione tra cittadini che vedono l’altra fazione come un acerrimo nemico della libertà. 

Questa è il tempo della post-verità. Non è importante l’evidenza a sostegno di un fatto. Io ho la mia verità, quella è. Non mi interessa quello che dice la CNN, Fox News, CNBC, i mass media, sono solo fake news. Non mi interessa quello che dicono gli altri, sono corrotti. Questa è la mia verità. Le elezioni sono truccate, lo so. Credo nel mio Presidente, questo so. Ho tante altre persone che come me sanno la verità. Tutti i conteggi in Georgia, Arizona, Wisconsin, Michigan non contano. I dati non possono ribaltare quello in cui credo.

Ecco perché, nella giornata di ieri, dopo la vittoria dei due Senatori democratici in Georgia, il Congresso americano è stato attaccato da una folla di manifestanti pro-Trump, violenti suprematisti bianchi, convinti dell’assurda irregolarità delle elezioni di novembre e ancora più convinti che Joe Biden sia un presidente illegittimo che merita di essere fermato. Anche con la violenza se necessario. I manifestanti sono riusciti a forzare l’ingresso e penetrare nelle mura di una delle più importanti istituzioni della Democrazia Americana. Forzare è un termine in verità relativamente iperbolico, dal momento che diversi filmati mostrano una blanda resistenza delle forze dell’ordine e quasi un lasciapassare che, molto probabilmente, non sarebbe stato dato a manifestanti con un diverso colore di pelle. Dopo mesi di violenze e sofferenze per la morte di George Floyd, queste immagini colpiscono ancora più nel profondo e fanno ancora più male.

https://www.buzzfeednews.com/article/stephaniemcneal/videos-of-capitol-riot
“When the looting starts, the shooting starts” (Donald J. Trump, 2020)
Tear gas, pepper balls used on Denver crowds in George Floyd protests  Thursday night – Longmont Times-Call
Proteste del movimento Black Lives Matter in Denver
Ci è arrivato anche Guy Verhofstadt

Le immagini successive delineano a tutti gli effetti un colpo di Stato: i Senatori sono stati fatti evacuare e i golpisti hanno fatto irruzione nelle alte aule della legislatura, sedendosi sulle poltrone, negli uffici, distruggendo e rubando cosa potesse capitare loro a portata di mano.

Oregon's congressional delegation condemns 'attempted coup' in U.S. Capitol  - oregonlive.com
https://www.oregonlive.com/politics/2021/01/rep-peter-defazio-at-the-capitol-were-looking-at-an-attempted-coup.html

Nonostante l’evidente differenza di trattamento con le proteste di Black Lives Matter, ci sono stati diversi spari e purtroppo una donna ha perso la vita. Un’amica americana mi diceva che prima di quest’anno neanche sapeva che giorno fosse la ratificazione delle elezioni, era sempre stato considerato così anonimo. Probabilmente d’ora in avanti è una giornata che difficilmente gli americani dimenticheranno.

E il Presidente? Che fa?

“Mi chiami il Presidente” “Signore è lei il Presidente” “Bene, allora so già tutto”

Mentre le proteste esplodevano e la folla entrava dentro Capitol Hill, costringendo i senatori e i deputati a mettersi in fuga, tutti aspettavano una risposta del Presidente, in nome del quale gli stessi golpisti si sono fatti largo oltre le transenne. La scelta di attivare la Guardia Nazionale di Washington DC per calmare le proteste è stata approvata dal vicepresidente Mike Pence, non dal Presidente in carica (Il Post).

Dal canto suo, le risposte di Donald J. Trump sono state le seguenti:

https://www.nbcnews.com/video/schumer-calls-capitol-rioters-domestic-terrorists-says-trump-holds-blame-98998341676
“We love you. You’re very special. Go home peacefully”

“These are the things and events that happen when a secret landslide election victory is so unceremoniously & viciously stripped away from great patriots who have been badly & unfairly treated for so long. Go home with love & in peace. Remember this day forever!”
(Dall’account twitter @realDonaldTrump)

Qui c’è la sintesi di gran parte dei problemi che hanno colpito l’America in questi quattro anni, e non solo. Nessuna condanna, nessuna negazione della legittimità delle proteste. La tacita autorizzazione da parte di un’alta autorità alla distruzione di consolidate istituzioni democratiche. La continua e costante propagazione di false informazioni, volte solo ad aumentare il risentimento e l’odio, la frustrazione, la rabbia. L’account Twitter di Donald J. Trump è stato al momento bloccato ma il messaggio è stato trasmesso e diffuso. 

Questo è il risultato delle parole. Questa la forza del linguaggio che per anni ha bombardato un’intera nazione. La polarizzazione e la divisione tra persone che ha portato all’attentato alla senatrice Gabrielle Giffords nel 2012, alle proteste per la morte di George Floyd la scorsa estate, al colpo di Stato della giornata di ieri. Non è neanche impensabile a questo punto temere per l’incolumità di Biden, Harris, o anche Pence. Vale tanto per i Democratici quanto per i Repubblicani. 

Se c’è una lezione che possiamo trarre da questi eventi e in generale, dai grandi cambiamenti che abbiamo vissuto negli ultimi mesi, è che il linguaggio e l’importanza delle informazioni sono essenziali per il corretto funzionamento delle istituzioni e della Democrazia. Dopo l’attentato a Capitol Hill, i senatori e deputati si sono riuniti per concludere la procedura della conferma delle presidenziali. Nei loro discorsi, molti hanno condannato le azioni di ieri, soprattutto i Democratici nei confronti di Trump. Alle ore 3.30 di notte, ora italiana, Mitt Romney è stato finora l’unico senatore repubblicano ad addossare la responsabilità dell’insurrezione a Donald Trump. Qui si evidenzia il problema. Questo è un risultato di anni di disinformazione e inasprimento del linguaggio politico, di divisione tra Democratici e Repubblicani, frutto soprattutto dei messaggi propagandati dai mass media e dagli stessi politici. Gli eventi del 6 gennaio 2021 fanno male perché evidenziano tanti problemi del sistema della più grande Democrazia occidentale. E fanno male perché, in fondo, potevano essere previsti.

 Per concludere con le parole del vicedirettore del Post, Francesco Costa:

Questo è il punto di arrivo di vent’anni di cinico sdoganamento di ogni posizione estremista, violenta, irrazionale e complottista, portato avanti negli Stati Uniti non dai casi umani che in questo giorno triste hanno fatto irruzione al Congresso bensì da deputati, senatori, presidenti e sedicenti giornalisti che hanno fatto una gran carriera lisciandogli il pelo.
È quello che succede quando si gioca al colpo di stato pur di farsi notare, tanto sono solo parole, che vuoi che sia. Quando si attaccano le istituzioni e le pratiche della democrazia pur di ottenere un micragnoso vantaggio politico, tanto ci sarà qualcun altro a difenderle. Quando si sostengono idee assurde e disoneste spacciandole per posizioni politiche, tanto si potrà sempre accusare di faziosità chi lo farà notare […] Non è una questione di essere di destra o di sinistra, a meno di non voler associare la destra in quanto tale al circo imbarazzante di oggi a Washington DC. È questione di essere persone in grado di vivere in una società oppure no.”

E per essere in grado di vivere in una società, bisogna fare attenzione alla comunicazione e al flusso di idee che circolano e che si alimentano. Allora è meglio non sottovalutare quel post, quella frase, quelle parole, quel tweet. Perché quel tweet ha un peso non indifferente. Quel tweet ha un peso che il tetto di Capitol Hill non è evidentemente più in grado di reggere.

Matteo Caruso

SITOGRAFIA:

C’è pace all’inferno: perché secondo Kant il conflitto israelo-palestinese è tutt’altro che finito

Era “The Deal of the Century”: Trump lo diceva, e nessuno gli credeva.
Tanto declamato fin dalla campagna elettorale, annunciato dal senior advisor Kushner a
Manama, capitale del Bahrain, un anno fa, ora, nuovamente in tempo di elezioni, sembra più reale
che mai.
Il piano di “the Donald” per risolvere il decennale conflitto tra Israele e il popolo palestinese a
colpi di sussidi economici, abbandonata ogni velleità politica, aveva bisogno di una sola cosa
per prendere il volo: un accordo con le altre nazioni arabe. Quanto si sta delineando proprio in
questi giorni.
Una strategia che si rifa apparentemente a quella tradizione filosofico-politica di cui Kant
è illustre esponente, che vede nell’interconnessione delle economie la precondizione della
concordia globale.
Dietro le apparenze, tuttavia, covano i germi di una nuova fase di un conflitto che è ben lungi
dall’essersi concluso.

Accordi del secolo
In principio fu il “patto del secolo”, annunciato fin dalla campagna elettorale per le presidenziali
2016 e più volte evocato, sempre nel mistero, da Trump e dal suo entourage. Un’idea, per
molto tempo, un astratto disegno strategico che sembrava anche stentare a decollare, data
la repulsione del popolo palestinese per un compromesso che offre soldi in cambio della
sostanziale rinuncia ad uno Stato palestinese, e dato l’attaccamento ad interessi iperpersonali
manifestato dalle varie potenze mediorientali che si affacciano sull’abisso palestinese.
Nello specifico, il progetto (per quel che ci è dato sapere) è quello di dedicare corposi
investimenti economici alle aree abitate dai palestinesi e de facto controllate da Israele dal
1967, così da risolverne i problemi più pressanti (le condizioni di vita degli abitanti di quei
territori, già tragiche e se possibile in peggioramento) e da promuovere uno sviluppo economico
e sociale della zona.
Per conoscere gli aspetti politici della strategia, invece, abbiamo imparato già da più di un anno
a interpretare gli indizi lasciati dalle mosse geopolitiche dell’America di Trump in Medio Oriente,
mosse solo all’apparenza casuali e frammentarie.
Ultima delle quali è una trattativa con gli Emirati Arabi Uniti e con il Bahrain che ha portato ad
un’intesa tra i due Paesi arabi e Israele, sotti l’egida statunitense: l'”Accordo di Abramo”, con il
quale le potenze arabe (quasi sicuramente dirette dall’Arabia Saudita) riconoscono ufficialmente
lo “Stato degli ebrei”. E sanciscono una traslazione delle priorità: dalla lotta arabo-israeliana alla
lotta arabo-iraniana.
Un piano, quello trumpiano, che ruota intorno ad uno dei più ambigui ed importanti principi
sanciti prima della e con la nascita di Israele: già presente tra le righe della Dichiarazione di
Balfour, ripreso nella Dichiarazione di Indipendenza del ’48 e fissato nei cardini della Legge
fondamentale approvata nel luglio 2018. Quel principio che sancisce che l’autonomia, cioè il
riconoscimento della dignità di soggetto morale, di Stato, è in Israele propria del solo popolo
ebraico. Ai palestinesi è concessa la condizione di minoranza governata dalla sovranità
israeliana.
È questo il principio che la strategia di Trump riconosce.
È questo il principio che l’assenso dei due Paesi arabi ratifica.
È questo il principio che i palestinesi (che assistono in questi giorni alla storica riappacificazione
delle due “guide”, Hamas e Fatah, in nome della causa anti-israeliana) rifiutano.

Garanzie per la pace
Il pensiero non nasce come i funghi. Altrettanto i pensatori.
Quando parliamo di Kant dobbiamo riferirci ad una stagione precisa della riflessione
filosofico-politica europea: un’epoca contraddistinta dall’esigenza di giustificare l’assetto
politico esistente e immaginarne i possibili sviluppi futuri.
Il punto di partenza, per molti di questi pensatori, tra cui Kant, è la concezione archetipica della
guerra nella storia e nella natura umane. Guerra che, in “Per la pace perpetua”, Kant descrive
come lo strumento di cui la natura si serve, nell’ambito della teleologia della specie umana, per
popolare di esseri umani la terra in ogni angolo. Guerra che, per il filosofo, è connaturata nel
soggetto umano, così come in altri scritti kantiani lo è il male, detto appunto radicale, radicato.
Assunto questo dato, era diffusa comvinzione, al tempo di Kant, che il commercio stesse
intessendo una rete di relazioni tra gli Stati, estesa quasi a livello globale, tale da risultare come
l’immagine di un complesso di interdipendenze che legavano ciascun soggetto politico agli altri
ed al sistema tutto.
Su una base economica, insomma, si stringono gli accordi di collaborazione tra nazioni e tra
popoli.
Per il filosofo prussiano lo “spirito del commercio” è ciò che garantisce, secondo natura,
la necessità della concordia tra entità morali, gli Stati, tanto distanti per culture quanto
fastidiosamente vicini per spazi occupati su un medesimo globo finito.
L’interesse egoistico spingerebbe gli Stati ad accordarsi, fornendo una condizione fondamentale
per la pace, così come, in un momento antecedente nella storia dell’umanità, aveva spinto gli
individui a riunirsi in una organizzazione statale.
Insomma, sembra che “The Deal” sia stato scritto da Kant. Perché, allora, dovremmo essere
lontani dal raggiungimento di una “pace perpetua” tra Israele e palestinesi?

Kant e Abramo
Si danno delle condizioni, nello scritto kantiano, preliminari “per la pace perpetua tra gli Stati”.
Esse devono essere rispettate da ciascuno di essi nei confronti di ciascun altro, a partire dal suo
vicino più prossimo e potenzialmente più ostile.
Due sono, in particolare, quelle trascurate nel “patto” a stelle e strisce: si dà la possibilità di una
pace solo tra Stati che si riconoscono reciprocamente come tali, cioè come enti morali cui deve
accordarsi il rispetto. Fondamentale è, infatti, l’autonomia dello Stato in quanto soggetto morale,
riconosciuta dall’avversario anche in guerra (se così non fosse, non si darebbe alcuna possibilità
di una pace duratura, ma solo di una tregua).
La seconda condizione, legata a quest’ultimo aspetto, impone che uno Stato terzo possa
intervenire nelle vicende interne di un’altra entità politica solo nel momento in cui questa si sia
già divisa in due realtà politico-morali distinte.
Se la seconda condizione è stata violata fin dal momento della creazione dello Stato di Israele,
ed ancora prima con la promessa dell’impegno inglese nei confronti della sua fondazione,
attraverso un’operazione geopolitica arbitraria, la prima è formalmente preclusa dalla
“costituzione” stessa di Israele, che non può riconoscere nel suo “spazio vitale” entità statali altre
da sé.
Intanto, una dichiarazione ONU ha stabilito ormai un anno fa che il territorio della Striscia di Gaza
sarebbe stato da considerare invivibile già nell’anno in corso. E ancora nessuna pandemia s’era
abbattuta sul mondo.
Forse, il “patto” trumpiano, vista l’impossibilità allo stato attuale dei fatti di assicurare una pace
duratura alla regione, sta giocando sulla volontaria ambiguità insita nel concetto kantiano: cerca
la pace, sì, ma quella eterna dei morti.

Lorenzo Ianiro

Iniettarsi candeggina effettivamente riduce la mortalità da Covid, ma non conviene

Ha creato sdegno e ilarità. Donald Trump ha però ragione, a modo suo. Infatti, è vero che iniettarsi candeggina riduce la mortalità da COVID19. Quel che Trump però non ha menzionato, senz’altro per dimenticanza, è che ciò è dovuto ad un “bias di sopravvivenza” (“survival o survivorship bias”). Per spiegare questo, partiamo però da una storia fighissima.

Durante la seconda guerra mondiale, gli inglesi eseguirono degli studi sui velivoli aerei di ritorno dalle missioni. Ogna volta che un aereo tornava alla base, si andava a studiare la localizzazione dei fori da proiettili. Il report parlavano chiarissimo: la maggior parte dei fori era localizzata a livello delle ali e della coda, mentre le zone prossime ai motori quasi non presentavano danni . Si concluse che per ridurre le perdite bisognasse rafforzare le ali e la coda, che erano le aree più bersagliate.

94961210_10219692255810154_6982104092864675840_o

In rosso, i fori dei proiettili

Qualcuno ebbe poi l’idea incredibile di coinvolgere una persona molto competente nel suo ambito, Abraham Wald, matematico e statistico della Statistical Research Group. A sorpresa, Wald suggerì l’esatto opposto: bisognava proteggere maggiormente i motori e sostanzialmente fregarsene di ali e coda.

Le osservazioni effettuate dall’esercito infatti si basavano solo sugli aerei che avevano fatto ritorno alla base. E il fatto che fossero riusciti a tornare sani e salvi dipendeva verosimilmente proprio dal fatto che fossero stati colpiti in quelle aree (ali e coda) e non nelle altre (motori). Quelli colpiti al motore non tornavano.

Se oggi trattassimo tantissime persone con iniezioni di candeggina e andassimo tra un anno ad analizzare i dati dei decessi da COVID-19, scopriremmo che tra questi ve ne sono pochissimi di quelli trattati con candeggina, mentre la quasi totalità includerebbe persone che non hanno ricevuto iniezione. La mortalità da COVID-19 risulterebbe più alta di un numero di volte indefinite in chi non ha ricevuto iniezione rispetto a chi l’ha ricevuta.

Le iniezioni di candeggina apparirebbero statisticamente come fattore protettivo e qualcuno potrebbe concludere che avremmo dovuto trattare tutti con la candeggina.

Esser colpiti al motore come le iniezioni di candeggina selezionano il campione. Per gli aerei, tornare alla base era necessario per poter esser studiati, e quelli colpiti al motore non facevano ritorno alla base e dunque non veniva studiati. Nel caso della candeggina, esser vivi è condizione necessaria per poter esser infettati da coronavirus, ammalarsi e morire di COVID-19.

Le iniezioni di candeggina riducono la probabilità che si verifichi la condizione necessaria per ammalarsi: esser vivi.

Morendo subito in seguito ad iniezione di candeggina, si abbassa drammaticamente la mortalità da COVID-19. In questo senso, si, la candeggina protegge dal decesso da coronavirus. Statisticamente apparirebbe come un fattore protettivo, ma non lo è nella realtà dei fatti. Un poco come lanciarsi dal quinto piano oggi risulterebbe esser un fattore protettivo per demenza senile, cancro, patologie cardiovascolari, oltre che COVID-19.

Se Donald Trump volesse ridurre la mortalità da COVID-19 a New York City basterebbe sganciare una testata nucleare: nessuno morirebbe di COVID-19. Ma sia il salto che il bombardamento aumenterebbero enormemente la mortalità per altre cause e non sono dunque strategie raccomandabili.

Tutto questo per dire tre cose.

La prima è che le associazioni vanno sempre prese con i guanti e inquadrate con attenzione e tenendo conto di tanti aspetti, incluso il campionamento. Prima di tirare delle conclusioni da uno studio basandosi unicamente sui risultati ottenuti si deve sempre verificare che il campionamento sia avvenuto correttamente e che non vi siano bias di sopravvivenza. Questo è particolarmente importante negli studi di mortalità sugli anziani.

La seconda è che quando si chiamano persone competenti come Wald, va così. Arrivano dove gli altri non sanno arrivare. Ma non perché son dei geni. Perché è il loro lavoro arrivarci, hanno studiato per anni per farlo, e sono pagati per farlo.

La terza è che grazie a Donald Trump ora sapete tutti cosa sono i bias di sopravvivenza.

Fabio Porru

L’eredità retorica di Ronald Reagan

Sono passati ormai quasi quarant’anni dal discorso di insediamento alla Casa Bianca di Ronald Reagan, e cinque altri presidenti si sono succeduti alla guida degli Stati Uniti d’America. La vittoria di Reagan alle presidenziali del 1980 contro la seconda candidatura del Presidente democratico in carica Jimmy Carter e l’indipendente John Anderson significò molte cose per la nazione, e per il mondo intero. Esponente di spicco della corrente neo-conservatrice americana, che sul finire degli anni ’70 aveva guadagnato un’influenza crescente nel dibattito politico americano, Ronald Reagan seppe sfruttare prima – e meglio – di chiunque altro le abilità maturate durante un’esperienza che per l’epoca si poteva considerare quantomeno singolare per una figura politica. Prima di divenire uomo politico, infatti, Reagan conobbe un discreto successo nel mondo del cinema, prendendo parte a una serie di pellicole per la Warner Bros a partire dal 1937, per poi passare al mondo della televisione negli anni ’50. L’esperienza di attore avrebbe consegnato al futuro Presidente degli Stati Uniti gli strumenti fondamentali per la costruzione e il consolidamento di un livello di consenso pubblico mai sperimentato prima di allora. Inoltre, dopo il ritiro dalla carica di governatore della California (1967-1975), Reagan rimase sotto i riflettori nazionali tramite la conduzione di programmi radiofonici, che gli permisero di raggiungere un pubblico smisurato  (secondo le stime, tra i venti e i trenta milioni di ascoltatori settimanali tra il 1975 e il 1979). L’utilizzo del tono della voce, le pause sapientemente inserite tra una frase e l’altra, l’ironia, la mimica facciale, l’agio di fronte ad una telecamera e ad un pubblico furono ingredienti fondamentali per il successo politico di Ronald Reagan, tuttora ricordato come uno dei Presidenti più amati – e controversi – della storia degli Stati Uniti d’America.

Gli anni di Reagan, passati alla storia come “la Rivoluzione Reaganiana” furono un’epoca segnata da profondi cambiamenti a livello economico, politico e sociale. Sono gli anni delle liberalizzazioni economiche adottate dalla piattaforma neo-conservatrice, ispirate alle teorie neoliberiste di Milton Friedman e di Arthur Laffer, e della crescita esponenziale del debito pubblico americano. Sono gli anni del rilancio dello status di superpotenza mondiale per gli Stati Uniti e del ritorno ad un’aperta ostilità con l’Unione Sovietica, seguita da una graduale distensione dei rapporti tra i due blocchi e dalle fasi finali della Guerra Fredda. I meriti di Reagan, considerato da molti il catalizzatore della “vittoria” degli Stati Uniti su quello che lo stesso Presidente arriverà a chiamare, durante le fasi più accese del conflitto, “l’impero del Male”, devono però essere soppesati contro le fasi più critiche dei suoi otto anni a Washington. Il ritorno ad una retorica ferocemente anticomunista fu infatti accompagnato da una linea dura in termini di politica estera: l’appoggio alle oligarchie militari in America Latina, gli interventi militari in Libano, la guerra internazionale al terrorismo collegato alla Libia di Gheddafi, il supporto ai contras in Nicaragua per rovesciare il regime sandinista insediatosi nel 1979 e il successivo scandalo Irangate che rischiò di innescare un processo di impeachment ai danni del Presidente. Decisioni che danneggiarono Ronald Reagan, ma non fatalmente: la capacità di capitalizzare i successi tramite la padronanza delle potenzialità dei media a scopi politici permise al presidente repubblicano di “navigare tra le complessità della politica statunitense”, per mutuare un’espressione dello storico John Ehrman.

Non è un caso che l’attuale amministrazione statunitense si rifaccia all’era Reagan nel delineare la propria strategia d’immagine e di propaganda: anche se l’utilizzo della formula make America great again (che Reagan pronunciò per la prima volta nel 1980) venne rivendicato come idea originale di Trump – tanto da volerlo rendere un marchio registrato ad uso esclusivo – basterebbe una breve visita alla sezione National Security and Defense del sito della Casa Bianca per vedere come l’attuale amministrazione si sia appropriata testualmente di un altro punto cardine della politica estera reaganiana, dichiarando l’intenzione di “preservare la pace attraverso la forza”. E se il revival della Dottrina Monroe dopo l’archiviazione dell’era Obama non bastasse a fornire un ulteriore parallelismo (con la designazione del triangolo degli Stati ostili pressoché identica a quella dell’era Reagan, con Caracas a sostituire Mosca nella rete di relazioni con l’Havana e Managua), il recente riferimento alla creazione della Space Force nell’ultimo discorso di Trump sullo Stato dell’Unione tende un ulteriore filo tra il 2020 e gli anni ’80. Nel 1983, infatti, Reagan annunciava la Strategic Defense Initiative, un grandioso progetto di difesa dall’eventuale aggressione nucleare sovietica, completo di scudo spaziale e sistema di laser per la distruzione preventiva di missili nemici, veicolando l’idea che gli Stati Uniti rivendicassero un primato anche nello spazio cosmico al di fuori del pianeta. Dopo trentasette anni, Donald Trump include nel suo discorso alla nazione una richiesta di finanziamento per il progetto Artemis per assicurare che la prima bandiera su Marte sia quella a stelle e strisce. Nell’epoca del trasferimento del dibattito politico sulla sfera del virtuale e  della comunicazione lampo, l’eredità retorica dell’epoca Reagan risulta ancora di fondamentale importanza nella strategia di comunicazione dell’amministrazione Trump, in quanto testimonianza della prima efficace sintesi tra utilizzo dei mass media e capacità di coinvolgimento delle masse, tanto da riecheggiare a distanza di decenni, e più attuale che mai.

Marco Tumiatti