Mi deformo
attraverso i suoni che ascolto
i colori che vedo
le parole che dico e che accolgo
gli sguardi di chi amo
o dei passanti.
A fine giornata
non sono mai
chi si è alzata la mattina.
Nelle mani la pervicacia di mio padre
nella gambe la sua resilienza.
Sulla pelle ho la giovinezza di mia madre,
le stesse sue lentiggini.
Negli occhi la sua premura.
Nel sangue scorre
la stessa loro frenesia
ansia di crescere troppo in fretta
brama di sciogliere le controversie
bisogno malsano di sollevare prima gli altri animi
del proprio.
Codardia.
Onnipotenza.
Ma ho anche la loro misericordia,
stupore innocente che esplode sul volto di un bambino,
sorriso sincero di chi crede nella scelta quotidiana
di chi non sa pregare un Dio
ma lo ritrova nelle più minute cose.
Ho la stessa loro presenza.
Data per scontata.
La loro stessa schiena.
Ho imparato da loro
a lottare per la mia sopravvivenza.
A fare pace con la mia storia ci sono io,
c’è da capire cosa si deve buttar via
e cosa si deve tenere.
Tu mi chiedevi un salto.
Ma non lo avevo già fatto, forse?
Spezzarmi le gambe
Cadere nel buio
Sbucciarmi le ginocchia come fosse la prima volta.
Questo avrei fatto per te, e forse ho fatto.
E la durezza, quella giusta, che serviva
non l’ho avuta.Ma animo pronto.
E tempismo.
Ci avesse insegnato prima la vita
ad essere meno egoisti,
ad educare la nostra sofferenza,
a costruire una ringhiera,
a credere nella luce
e nell’imperfezione.
A seppellire i nostri morti.
Avessi dato tu una carezza in più.
Avessi avuto io una mano più salda.