“La terra sta morendo e voi dovete organizzare velocemente una fuga su un altro pianeta in cui ricostruirete il nuovo mondo, le “navi di salvataggio” sono quasi piene. Rimangono 5 posti disponibili su 11 persone che devono ancora salire, chi portereste?”
Sembrerebbe una domanda uscita dalla bocca del protagonista di un film fantascientifico (anche se con il cambiamento climatico in atto, la situazione potrebbe essere più realistica del previsto). Il quesito invece, ha una finalità basata più sulla morale che sull’utilitarismo, inducendo a una contorta riflessione. A primo impatto, tutti noi potremmo risolvere il dilemma rispondendo con un semplice e netto “i miei cari”, ma se queste persone non fossero contemplate nella lista e dovreste salvare la vita a dei perfetti sconosciuti? Questo esercizio è stato utilizzato nel 1991 durante un corso di “Listening” all’università di New York e nel corso del tempo è stato ripreso da varie organizzazioni, tra cui Amnesty International. Nella lista vi sono persone di nazionalità, status sociale e genere diversi che potrebbero portare un contributo utile o meno nella costruzione della vita sociale su un altro pianeta. Chi salvereste tra un militante musulmano, un poliziotto con fucile, un atleta, una prostituta, un architetto, una cuoca, un falegname cieco, una dottoressa, una sedicenne incinta, un musicista gay e un sacerdote? Nell’immediato, risponderemmo più o meno scegliendo le stesse persone, tra cui, per esempio, il sacerdote. Attraverso un’attenta riflessione potremmo rispondere in maniera identica alla precedente, in quanto non abbiamo informazioni dettagliate sul vissuto e sulle capacità di queste persone; basiamo così il nostro criterio selettivo in base a dei pregiudizi. Al termine della scelta si viene a scoprire una realtà che non corrisponde a quanto immaginato. Il sacerdote infatti, risulta essere il capo di una setta fondamentalista e l’atleta è una donna di 70 anni che ha vinto le olimpiadi nel 1965. Questo accade perché l’utilizzo di determinate parole, in uso nel nostro dizionario, hanno creato un’immagine precisa nella nostra testa. Non abbiamo informazioni sulle esperienze passate della prostituta, né della cuoca o del poliziotto eppure in determinate situazioni non esitiamo a pronunciare sentenze di assoluzione o di condanna. Pretendiamo di comprendere l’altro anche senza conoscerlo, entrando così nel campo minato del pregiudizio.
A cosa facciamo riferimento con questo termine? La parola “pregiudizio” viene dal latino praeiudicium e nel diritto romano è “l’azione giuridica precedente al giudizio, tale da influire talvolta sulle decisioni del giudice competente”. Con un’accezione comune fa riferimento a “un’idea, opinione concepita sulla base di convinzioni personali e prevenzioni generali, senza una conoscenza diretta dei fatti, delle persone, delle cose, tale da condizionare fortemente la valutazione, e da indurre quindi in errore”. Quante volte ci è capitato di giudicare una persona, anche a livello inconscio, perché non corrispondente ai canoni del nostro universo di riferimento?
L’essere umano, per sua natura e per difendersi dal caos del mondo circostante, tende a crearsi delle categorie e rimanere nella sua “comfort-zone”. Ognuno di noi affronta la vita con una diversa prospettiva a seconda della propria cultura e delle esperienze vissute agendo differentemente anche agli stimoli esterni. Nella cultura giapponese, per esempio, mostrare le proprie emozioni in pubblico non è un comportamento da assumere. Per tale motivo, alcune persone potrebbero credere che tutti i giapponesi siano privi di emozioni, dando così un giudizio errato. Quando non si conoscono le altre culture, le loro tradizioni e usanze, si tende ad assumere un atteggiamento refrattario e ostile. A volte questi meccanismi che ci portano a giungere a conclusioni affrettate, senza una piena consapevolezza, sono causati da “automatismi”. All’interno della società odierna il mondo è sempre più interconnesso e i contatti tra diverse culture aumentano grazie alle nuove tecnologie. In questo complesso scenario l’unico modo per creare un dialogo proficuo tra esseri umani consiste nell’allenarsi a superare gli automatismi e di conseguenza abbandonare la visione etnocentrica del mondo.
Come? Fabrizio Lobasso, Vice Direttore Africa Sub Sahariana, all’interno del suo corso “Aspetti interculturali nella lobby e comunicazione istituzionale” organizzato dalla SIOI, suggerisce di adottare una serie di soft skills delle competenze relazionali: ricorrere all’osservazione partecipata, sviluppare un ascolto attivo, includere invece di negare e soprattutto sviluppare l’exotopia. Quest’ultima va oltre il concetto di empatia e parte dall’accettazione “che l’altro sia portatore di una prospettiva autonoma, altrettanto sensata della nostra e non riducibile alla nostra”. Per creare un universo basato sull’interculturalità è necessario abbattere qualsiasi forma di pregiudizio e indossare delle lenti colorate, in cui vi è spazio per tutta l’umanità. Smettere di essere degli uomini miopi è un primo passo per eliminare le discriminazioni e abbattere ogni tipo di disuguaglianza che come afferma il direttore della sezione italiana di Amnesty, Gianni Rufini, “è il vero veleno del mondo di oggi”.
“Pregiudizio”
è il nome del figlio
di uno stereotipo senza uscite.
Solo trappole che si ingrovigliano,
non ti lasciano vie di fuga.
Punti di vista di uomini miopi,
vedono le luci della propria casa,
ma cosa accade fuori dalla finestra?
Buio pesto è il loro panorama.
Possiedono lenti appannate che offuscano la vista.
Iniziano così a giudicare,
guardando attraverso gli occhi di altri;
di chi è tenebroso e non distingue
le sfumature dei diversi colori.
Gli uomini miopi hanno cattivi consiglieri
e non avrebbero pregiudizi
se solo guardassero con i loro occhi.
Occhi puri come quelli dei fanciulli,
necessari per poter accogliere nuovi orizzonti, per condividere idee,
accendere nuove luci,
osservarsi tra il chiarore della luna e il pallore dell’alba.
Rinascere senza sguardi indagatori,
includendo amori diversi ma non meno saggi.
Come quello di Chiara e Lucia,
che non si possono abbracciare tra la folla, verrebbero linciate senza vergogna.
Il buco nello stomaco di un uomo disperato, ha rubato una mela e lo hanno impiccato.
“La pelle di un colore diverso è il vero reato”, così qualche miope ha sentenziato.
Una donna voleva indossare il proprio velo. Per lei è il simbolo del suo credo.
“E’ innegabile,
vuole alimentare il terrore”,
sussurra una donna senza amore.
“Quel ragazzo viene da lontano,
non piange mai e questo è strano.”
“Non lo sai che viene dal Giappone?
Lì non si dimostra il dolore”.
A te miope,
qualcuno ti ha mai detto,
che casa tua non è il mondo perfetto?
Bibliografia:
Sclavi M., Arte di ascoltare e mondi possibili. Come si esce dalle cornici di cui siamo parte, Bruno Mondadori, 2003