Il film che ha fornito allo Studio Ghibli il suo stesso simbolo è un racconto scritto “in corsivo”, senza la monumentalità degli spazi di Laputa che Miyazaki aveva realizzato nel 1986.
Il mio vicino Totoro (1988) è un’opera di riassestamento dopo i tre film della fase d’esordio: per il regista de La città incantata la concisione e la misura di stile passano per la campagna giapponese, quella che è pure cara al suo collega e co-fondatore dello studio Ghibli Isao Takahata, anche se per altri motivi.
La storia è semi-autobiografica e forse anche questo fatto spiega l’attenzione premurosa verso le due protagoniste, la scelta di rendere la paura per la malattia della loro madre con il dosaggio di non-detti ed ellissi. Qui c’è già il gusto della sintesi e dello sfumato narrativo che si inturgidisce con Porco Rosso e si mostra al meglio nel Castello errante.
Se gli spettatori occidentali trovassero in Totoro qualche ricordo di Lewis Carroll non si sbaglierebbero ma l’assurdo mischiato al satirico non abita in questo film: c’è piuttosto il racconto di una sintonia tra Infanzia e Natura, che La città incantata approfondirà nella direzione di un amore più adulto e cosciente.
Totoro non è un Haku o un Calcifer: non c’è in lui una vena dolente o gotica che lo definisca. S’impone per la dolcezza delle forme da tanuki bombato, l’andamento sospeso e stralunato connesso con la lentezza della Natura, il sorriso da Stregatto.
È lui a portare sollievo alle due sorelle Satsuki e Mei, che nella campagna si dedicano al gioco e scoprono l’inquietudine di una possibile perdita. Si è assai distanti dal racconto della malattia in Si alza il vento che sbilanciava il film e lo rendeva addirittura bicefalo.
Non è difficile trovare nella magica creatura della foresta un richiamo agli amici immaginari che hanno popolato certe infanzie solitarie, anche se è la Magia insita nel creato miyazakiano a dargli un corpo e tramutarlo in un segreto che gli adulti non possono conoscere.
Totoro è una figura che nel suo silenzio già esprime il senso di una svolta, di un passaggio nell’opera di Miyazaki, che da allora in poi lascerà più spazio alla mente degli spettatori nell’approfondimento dei personaggi.
Che sia proprio lui il “Guardiano della Soglia” nel corpus del regista dà grande soddisfazione: ha insegnato al suo creatore la misura, il tocco lieve ma preciso nella caratterizzazione, gli ha fatto raffinare la propria “Grazia”.
Pingback: I vinti di Takahata: Pom Poko (1994)